NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 6 luglio 2024

Appuntamento culturale al Vittoriano

Siete cortesemente invitati a un 

Nostro Incontro di Studio e di Ricerca 

dedicato al Patrimonio Storico Italiano, 

con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.

 

Invito MOSTRA al VITTORIANO

L’ULTIMO RITRATTO MAZZINI E LEGA

Storie parallele del Risorgimento


L’Incontro sarà incentrato sul ruolo dell’Arte per l’Unità d’Italia.

L’Esposizione di documenti, cimeli, opere d’arte

offre una visione unitaria

di uno dei momenti più complessi della Storia Nazionale.


DOMENICA  MATTINA   7  LUGLIO  2024  ORE  10

INGRESSO   VITTORIANO   PORTONE  A DESTRA

VIA DEL TEATRO DI MARCELLO    ROMA

(Guardando il Vittoriano a destra,   lato CAPOLINEA ATAC)

A necessità è disponibile un ASCENSORE 

che collega alla Mostra.


INGRESSO  GRATUITO     La puntualità è cosa gradita

PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA


INFO E PRENOTAZIONI   338 4714674 

Cordialmente.

Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro


NERVESA, S.A.R. IL PRINCIPE EMANUELE FILIBERTO ALL’INAUGURAZIONE DEL MONUMENTO AL MILITE IGNOTO

 




 

NERVESA DELLA BATTAGLIA – Il 30 giugno 2024 presso il Sacrario di Nervesa si è tenuta l’inaugurazione del monumento al Milite ignoto. La giornata prometteva bene, evidentemente lassù qualcuno voleva che quel mattino fosse indenne dal maltempo e ricordasse con la luce del sole quella fiamma perenne che arde sull’Altare della Patria. Esso custodisce la memoria perenne delle vite di tanti giovani che per la nostra Patria combatterono, soffrirono, perirono sempre amando profondamente l’Italia, talmente tanto da arrivare al sacrificio con quell’audacia che porta solo gli eroi, giunti da ogni parte d’Italia, ad assurgere alla gloria eterna, conquistando la vittoria per le generazioni a venire.

Quel passato che ci sembra così lontano e dal quale talvolta ci sentiamo estranei é più vicino di quel che immaginiamo. Infatti poco più di un secolo ci separa da quei drammatici momenti, un battito di ciglia che divide scene totalmente diverse: da un lato episodi di vita drammatici, vissuti in una trincea o in un campo di battaglia alla mercé del nemico, dove gli uomini condividevano timori e speranze, vivendo ogni istante a tu per tu con la morte e battendosi con un coraggio inenarrabile contro il nemico; dall’altro il presente che ci chiede di essere la loro memoria affinché le loro gesta non siano state compiute invano e i loro nomi non cadano nell’oblio.


E’ stata una domenica del tutto speciale, l’organizzazione impeccabile ha fatto sì che il momento condiviso tra autorità civili, militari, religiose e cittadini rimanga ben impresso nella mente dei presenti. Di questo dobbiamo ringraziare l’Istituto Nazionale delle Guardie d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon che ha organizzato la cerimonia, il Comune di Nervesa che ha concesso il Patrocinio e le tante associazioni d’Arma presenti, oltre ai sindaci di alcuni Comuni della Marca.

Numerosa la delegazione dei Bersaglieri guidata dal Presidente provinciale Cecchetto, con la presenza del Medagliere di Treviso e i labari di Conegliano, Mareno di Piave e Vazzola. La sfilata della Fanfara L. Pellas di Jesolo ha dato il là alla solennità di una cerimonia che ha visto come ospite d’onore S.A.R. il Principe Emanuele Filiberto di Savoia, il quale ha preso la parola dopo gli interventi del sindaco di Nervesa Mara Fontebasso ed altre autorità militari, tra le quali il Presidente regionale dei Bersaglieri Bozzo.

S.A.R. Il Principe Emanuele Filiberto ha ripercorso con un discorso sobrio e coinciso la storia della Seconda Battaglia del Piave che il Vate, Gabriele d’Annunzio, chiamò Battaglia del Solstizio e ha poi continuato affermando in merito ai caduti: “I loro nomi sono scolpiti sulla pietra ma anche nella storia e l’unico modo per non dimenticare il loro sacrificio è onorarli”. Ha ricordato l’emozione forte che lega la sua famiglia a questo eroe senza nome, ospitato nel sacello all’interno dell’Altare della Patria, come volle il suo avo Vittorio Emanuele III, sottolineando l’importanza del legame con questo territorio che vide il Re qui presente, al fronte, per ben tre anni del primo conflitto mondiale. La sua presenza gli valse l’appellativo meritato di “Re soldato”.

Ma la presenza di S.A.R. il Principe Emanuele Filiberto, come da lui stesso ribadito, aveva un duplice scopo: quello commemorativo e la finalità benefica. Infatti le somme raccolte, anche grazie alla cena di gala, saranno donate per l’acquisto di defibrillatori a beneficio delle comunità della zona, in primis al Comune di Nervesa.

Ai discorsi è seguita l’inaugurazione del monumento al Milite Ignoto, “Ignoto Militi”, alla presenza delle istituzioni civili, religiose e militari con la benedizione e la deposizione della corona di alloro. L’accesso è stato poi aperto al pubblico e molti hanno colto l’occasione sia per vedere l’opera che per avvicinare S.A.R. il Principe, per una parola e qualche foto di rito.

Il suo spirito di profonda umanità ha prevalso su ogni polemica, la sua semplicità unita alla raffinatezza dei suoi modi, anche nel rispondere velatamente ai contestatori, ha portato alla mente la bontà e la generosità della sua bisnonna, la Regina Elena che mai aveva negato ai suoi concittadini il proprio sostegno economico e morale ed aveva per tutti una parola di conforto. La sua elevata sensibilità l’aveva vista distinguersi in più frangenti, dolorosi sia per la Patria che per la sua famiglia, non lesinando mai quella misericordia verso gli umili, gli ammalati, i più sfortunati che riusciva a raggiungere. E così fu, fino alla fine dei suoi giorni.

La solidarietà ed il senso di comunità sopravvive sicuramente nel cuore di S.A.R. il Principe Emanuele Filiberto di Savoia che non si risparmia nell’essere presente in varie città italiane, come nel caso della cerimonia svoltasi a Nervesa, testimoniando così il suo amore sconfinato per l’Italia.

Ricorderò con affetto questo giorno, l’averlo incontrato, qualche parola scambiata, una foto, ma soprattutto la sua cortesia che lo fa essere Principe nell’anima e nel cuore, oltre che per discendenza dinastica. Ci sono valori che si acquisiscono fin dalla nascita e che segnano la missione di una vita, così fu per la Regina Elena, così per Emanuele Filiberto che saprà onorare il nome che porta e far rivivere con le sue azioni quell’indole innata di benevolenza che contraddistinse la sua ava chiamata “L’angelo della carità”.

Sono uscita un po’ dal seminato ma questo è stata la sensazione che mi ha lasciato la giornata del 30 giugno 2024. E’ stata un’opportunità per onorare i caduti, in un sacrario che raccoglie la vita di migliaia di persone, destini intrecciati in un silenzio che ci entra nell’anima; è stata l’occasione per conoscere la figura di S.A.R. il Principe Emanuele Filiberto, un uomo che ha raccolto un’immensa eredità morale e valoriale. Egli saprà oltrepassare diffidenza e contestazioni con impegno e tenacia, così da far comprendere con gentilezza tutto ciò che è pronto ad offrire a quanti lo incontreranno e lo ascolteranno, senza pregiudizio alcuno.

 

Monia Pin

 

 

domenica 30 giugno 2024

1945: UNO STATUTO MONARCHICO PER L'ITALIA POST-FASCISTA?




di Aldo A. Mola

L'ora delle decisioni… revocabili

La discussione parlamentare del disegno di legge costituzionale per l'introduzione in Italia del cosiddetto “premierato” (infelice lemma anglicizzante) è appena all'inizio e già risulta incandescente. L'approvazione è disciplinata dall'articolo 138 della Costituzione, che prevede «due successive deliberazioni» di ciascuna Camera «ad intervallo non minore di tre mesi». La proposta è approvata se ottiene «la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione». La legge è quindi sottoposta «a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla [sua] pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali». Essa, tuttavia, «non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi» espressi in sede referendaria. Invece «non si fa luogo a referendum» – precisa con formula “baroccheggiante” la norma costituzionale – se nel secondo scrutinio la legge sia stata approvata con la maggioranza “rafforzata” dei due terzi in entrambi i rami del Parlamento.

Insomma, la procedura di revisione della Carta non è una passeggiata tutta in discesa. Mentre lo Statuto del Regno era flessibile, la Costituzione repubblicana è “rigida”, proprio per evitare “colpi di mano” da parte di una maggioranza parlamentare le cui fortune dipendono dagli umori cangianti dei votanti, dalle leggi elettorali (quelle che stanno bollendo in pentola sono tuttora un mistero misterioso) e da eventi internazionali fuori controllo da parte dello Stato d'Italia.

   I Costituenti partirono dal tacito presupposto che le riforme della Carta non riguardassero né i Principi fondamentali, né i Diritti e doveri dei cittadini, né i poteri apicali dello Stato. A ragion veduta, ovvero sulla base dei settantacinque anni trascorsi dall'entrata in vigore della Costituzione, si può lecitamente osservare che forse sarebbe stata opportuna qualche cautela ulteriore per mettere al sicuro i capisaldi dello Stato da possibili colpi di mano da parte del 50% dei componenti delle Camere. Se una maggioranza modificasse radicalmente la struttura della Carta, che cosa potrebbe avvenire nei tre mesi decorrenti dalla pubblicazione della legge alla eventuale richiesta di referendum? Tre mesi sono nulla in tempi ordinari. Possono divenire una voragine in quelli di emergenza assoluta, come quelli segnati dall'incombente “stato di guerra”.

La “concordia discors” dei Padri Costituenti

Nel 1946-1947 i partiti rappresentati nell'Assemblea costituente in sei mesi dall'insediamento si divisero in due schieramenti sempre più netti e infine frontalmente contrapposti dinanzi all'incipiente guerra fredda tra i due blocchi, nettamente indicati dal discorso di Churchill a Fulton il 5 marzo 1946: l'“Occidente”, capitanato da USA e Gran Bretagna, da un canto; l'Unione sovietica e i Paesi rapidamente soggiogati dall'Armata Rossa e dai partiti comunisti affratellati nel Kominform, dall'altro. Però quella contrapposizione non inficiò la concordia dei costituenti a un livello superiore: la condivisione dell’obiettivo di evitare il ritorno di un regime di partito unico. Perciò vietarono «sotto qualsiasi forma, la riorganizzazione del disciolto partito fascista» (XII disposizione transitoria e finale). I “patres” non specificarono però se tale fosse il Partito fascista repubblicano sorto nel 1943 con la Repubblica sociale italiana o quello Nazionale fascista, nato massonofago a metà febbraio 1923 dalla fusione tra il partito mussoliniano e l'Associazione nazionalista.

   In acuti studi Aldo G. Ricci ha approfondito il minore rilievo ottenuto dai liberali e, in generale, dai “moderati” nei lavori dell’Assemblea costituente. Meno ancora vi contarono i monarchici, che vennero identificati con gli ultimi due Re d'Italia e furono quindi ingenerosamente demonizzati e pressoché ignorati in Aula. Nondimeno è indubbio il peso esercitato sia liberal-monarchici quali Luigi Einaudi, Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Orlando, Enrico De Nicola, sia da Francesco Saverio Nitti, che si condusse al di fuori di ogni schieramento, sia, infine, dai Democratici del lavoro come Meuccio Ruini, autorevole presidente della Commissione dei Settantacinque che elaborò la bozza della Carta. Insomma la Costituente resse al logorio al quale era sottoposto l'“arco costituzionale”, rievocato (o almeno invocato) decenni dopo per varare governi “di emergenza” (come quelli della “non sfiducia”), garanti della salvaguardia dei capisaldi della democrazia parlamentare. Tre quarti di secolo hanno mostrato che, così com’è, l'assetto dei poteri supremi regge agli urti e garantisce quanto è necessario e sufficiente in una democrazia matura: la sovranità dei cittadini tramite il voto (chi non lo esercita risponde delle conseguenze della propria scelta), la centralità del Parlamento, il ruolo arbitrale del Capo dello Stato rispetto alle fazioni. Non per caso i Costituenti ne fissarono la durata in carica in sette anni, reiterabili, contro i cinque delle Camere. Fu una delle tante positive “eredità” della monarchia nel regime repubblicano: propiziare la continuità della massima istituzione al di sopra delle burrasche della politica quotidiana e al riparo di fatui protagonismi.

   Sulla proposta di revisione della Costituzione oggi prevalgono tre orientamenti. Uno si prefigge la sua approvazione a tamburo battente, così come è stata presentata, costi quel che costi: fosse pure un referendum. «O la va, o la spacca», ha detto Meloni. Il suo punto di debolezza logico-cronologica sta nella dissociazione tra il principale proponente e l'esito dell’eventuale consultazione referendaria. Se dalle urne venisse un “no” alla proposta ciò non potrebbe non ripercuotersi proprio su chi, con la modifica della Carta, chiede sia il “popolo” a eleggere il presidente del Consiglio, con poteri rafforzati rispetto agli attuali e oggettivo ridimensionamento di quelli riservati al Presidente della Repubblica, come tutti i costituzionalisti asseriscono. L'esito infausto del referendum indebolirebbe chi ha assunto il “popolo” a elettore diretto alla carica di presidente del governo.

   Un secondo orientamento, fiutato il vento, mira a impedire che la proposta governativa venga approvata dalle Camere nei termini previsti dalla Carta e già si attrezza per una lunga campagna referendaria, propizia all'accorpamento del dissenso in opposizione unitaria frontale, come è accaduto in passato. Se anche non se lo fosse proposto, qualunque opposizione dai prossimi mesi avrà il triste vantaggio di vedere il governo alle prese con il declino del prodotto interno lordo e la rarefazione delle risorse, con severe conseguenze economiche e sociali, a prescindere da quelle, imponderabili, di guerre fuori controllo. Se anche restassero inerti e non trasferissero il “confronto” da aule rissose a piazze rumorose, le opposizioni avranno il vantaggio del malessere diffuso, che dilaga in tanti Paesi dell'Unione Europea sempre più labile per l’irrisolta asimmetricità dei suoi istituzioni: Consiglio europeo, Assemblea parlamentare e Commissione, tre “corpi separati”.

   Per terzi alcuni suggeriscono all'opposizione di non respingere sic et simpliciter la riforma proposta dal governo e di proporre emendamenti correttivi. Lo fa Stefano Folli in “Repubblica”. «A quoi bon?», direbbero Oltralpe? Si porrebbero da sé a un bivio: accolti i loro emendamenti, dovrebbero accettare la riforma e quindi la propria sconfitta campale; se respinti (a colpi di fiducia, come si prospetta), si porrebbero in una posizione ambigua dinnanzi all’opinione dei propri elettori, che non apprezzerebbero tattiche bizantine in un confronto che esige posizioni nette ed argomentate non con circonlocuzioni verbose ma con parole chiare, comprensibili e apprezzabili anche da parte del 50% e più di cittadini che mostra sfiducia nelle Istituzioni disertando le urne e cambia canale quando i telegiornali sciorinano la solita epopea della politica politicante.

 

Un misterioso statuto monarchico post-fascista (1945)

A cospetto dell’imminente ripresa della discussione parlamentare sulla riforma della Costituzione riesce interessante la riscoperta dei tentativi di aggiornare lo Statuto lbertino nei mesi precedenti la consultazione referendaria del 2-3 giugno 1946. È una pagina di storia pressoché dimenticata. Motivo in più per rifletterci.

   Si tratta di un “caso dormiente” di storia costituzionale. Se ne era occupato Ruggero Zangrandi in Settembre 1943, pubblicato da Feltrinelli nel lontano giugno 1964. Esploratore d'archivi, giornalista e scrittore di talento, Zangrandi aveva alle sue spalle il Lungo viaggio attraverso il fascismo, che nel 1947 aveva documentato i trascorsi in camicia nera di tanti maggiorenti dell'antifascismo e del postfascismo, e il romanzo autobiografico La tradotta del Brennero (1956) sulle sue peripezie di detenuto, passato dalle carceri italiane in cui venne rinchiuso per antifascismo a quelle naziste. In una delle decine di Appendici di 1943 Zangrandi pubblicò «Documenti sulla consulenza inglese per la luogotenenza e per il progetto monarchico di un nuova Costituzione». Con un titolo da rivista accademica più che da libro “militante” l'autore documentò come gli inglesi si fossero adoperati «per salvare la dinastia di Savoia». Quel poderoso volume suscitò polemiche aspre sul presunto “baratto” tra il governo Badoglio e i tedeschi. Il Maresciallo avrebbe avuto via libera da Roma verso Pescara e la Puglia in cambio dell'inazione delle forze armate italiane contro le divisioni germaniche che, dilagate da fine luglio, avevano ormai circondato la capitale e si impadronirono dell'Italia centro-settentrionale: un’insinuazione confutata anche da storici poco teneri nei confronti della monarchia, compreso Marco Patricelli, autore di Tagliare la corda (2023). Nella seconda edizione del libro (novembre 1964: all'epoca tanti italiani divoravano avidamente e animatamente discutevano libri di oltre mille pagine) Zangrandi aggiunse ai documenti (pp. 1068-1076) una cortese lettera di precisazioni inviatagli da Guy G. Hannaford, che si era occupato della Luogotenenza e dell'abbozzo di nuova costituzione mentre era Deputy Chief Legal Advisor della Commissione Alleata di Controllo in Italia (1944-1945).

   Nel 1970 Zangrandi si uccise. Col tempo e con il cambio di temperatura politica, esaurito l'“autunno caldo” del 1969, le polemiche suscitate dai suoi libri si assopirono e il suo stesso nome via via disparve dall'orizzonte degli studi. Non è stato riesumato neppure nell'ottantesimo del 1943. Già lasciato ai margini nel 1964, il “caso” del progetto di aggiornamento monarchico della costituzione italiana disparve, tanto più che non affiorò neppure dalla pubblicazione, parziale, dei “diari” di Falcone Lucifero, ministro della Real Casa di Umberto, Luogotenente e  Re d'Italia.

Ciaurro e Palazzolo riscoprono Zagrandi: Reggenza o Luogotenenza?

   A sorpresa Zangrandi è stato recentemente richiamato all'attenzione dall'intervista rilasciata dal giurista Luigi Ciaurro (docente di diritto parlamentare in due Università romane di alto prestigio) al giornalista Lanfranco Palazzolo, capo dei servizi parlamentari per Radio Radicale e autore di saggi su Leonardo Sciascia, Enzo Tortora, Marco Pannella, Edoardo Sanguineti e sul “compagno Napolitano”, dirigente del partito comunista italiano (2011). Malgrado lunghe e accurate investigazioni, Ciaurro non ha rintracciato l'“abbozzo” di «nuova Costituzione, elaborato per conto della monarchia nell'autunno '45, evidentemente per influire sull'imminente referendum istituzionale, che non fu poi promulgata per ragioni che ci sfuggono» (Zangrandi) e ha concluso l'intervista invitando quanti conservino quel documento a renderlo di pubblico dominio.

   Non entriamo in questa sede nelle ipotesi a tale riguardo velatamente avanzate dal professor Ciaurro, né sulla sintesi che ne ha proposto e sul suo possibile autore: forse il torinese Emilio Crosa, giurista eminente ed esponente del monarchico “Movimento Cavour”, ricevuto con lo storico Francesco Cognasso da Umberto II in visita a Torino il 6 ottobre 1945. Interessa, invece, il commento che a suo tempo ne fu redatto dal tenente colonnello Guy G. Hannaford, incaricato di studiare l'istituto della Reggenza dal brigadiere generale Gerald Upjohn, d'intesa con Noel Mason-MacFarlane e Charles Taylor, “plenipotenziari” anglo-americani nell'Italia liberata. Erano i mesi nei quali molti monarchici e liberali (incluso Benedetto Croce) chiedevano (anche con veemenza) l'immediata abdicazione di Vittorio Emanuele III, la rinuncia al trono di suo figlio Umberto e la trasmissione della Corona al principe di Napoli, Vittorio Emanuele, di soli sette anni e quindi sotto un Reggente. A giudizio di Hannaford «se il principino di Napoli divenisse re sotto un reggente (suo padre) e vi fosse un referendum (sulla forma istituzionale, monarchia o repubblica, N.d.A), nessuna donna italiana, comunista o no, voterebbe per togliere il regno a questo incantevole bambino. Ma tutto dipende dal vecchio Vittorio». Come egli stesso narrò nella lettera inviata a Zangrandi appena letto 1943, Hannaford si procurò «per pochi soldi» il Nuovo Digesto Italiano e alcuni saggi di costituzionalisti, li studiò e approntò il memorandum sulla Reggenza per rispondere a tre domande: «Può il Re abdicare a favore di suo nipote, scavalcando così i diritti dell'erede legittimo, il principe di Piemonte? Esiste un meccanismo costituzionale per il quale possa essere nominato Reggente, per un re minorenne, persona non facente parte della Casa Reale, ammesso che il Re e il principe di Piemonte possano essere persuasi ad abdicare? Si può costituire un Consiglio di Reggenza e chi ne potrebbero essere i componenti? (la Regina Madre, il primo ministro, un rappresentante del Papa: l'arcivescovo di Bari?)» Nel rapporto inviato ai “superiori” il 21 dicembre 1943 Hannaford concluse che «in nessun caso il Reggente può essere scelto al di fuori della Casa Reale». Perciò la risposta ai tre quesiti era negativa. Invitò a prendere in considerazione la Luogotenenza anziché la Reggenza, quale «possibile soluzione del problema». Illustrò anche le condizioni della nomina e della durata del possibile Reggente: «Fino alla liberazione del territorio italiano dal nemico e alla possibilità per il popolo italiano di esprimere liberamente la sua volontà quanto alla forma di governo che intende avere. Lo stesso Re dovrebbe acconsentire ad attenersi al volere del popolo; dichiarazione che, in pratica, egli (Vittorio Emanuele III) ha già fatto.»

   Dunque il conferimento della Luogotenenza a Umberto di Piemonte (enunciata dal Re al Consiglio dei ministri a metà marzo 1944 e resa pubblica il 12 aprile) non sarebbe stato ideato da Enrico De Nicola, come asserito dalla storiografa e dalla memorialistica, ma era già ipotizzato dagli anglo-americani su suggerimento del tenente colonnello Hannaford, sia pure senza l'indicazione esplicita del suo titolare e con una precisa delimitazione delle sue prerogative: «attività amministrative, legali e non-politiche.» Era «l’unico modo di uscir fuori dal presente impasse, dal momento che nessun'altra soluzione appare attuabile, se non violando insieme la Costituzione e i basilari Statuti del Regno».

   Hannaford sorvolò sull'articolo 15 dello Statuto albertino, in forza del quale, in assenza di  eredi diretti del Re, di parenti maschi e della Regina Madre «le Camere, convocate fra dieci giorni dai Ministri, nomineranno il Reggente», in carica «durante la minorità del Re» (art. 12). L'omissione va verosimilmente attribuita non a sua distrazione o incompetenza ma alle circostanze di fatto: la Camera dei fasci e delle corporazioni era stata sciolta il 27 luglio 1943 e lo stato di guerra impediva convocazione e riunione del Senato. Per di più la Regina Madre (la principessa Maria José) era riparata con i figli in Svizzera. Per un ufficiale pragmatico come lui l'articolo 15 dello Statuto era quindi impraticabile. Tuttavia l'ipotesi della nomina di un Reggente aleggiò a lungo. Quale suo titolare venne persino individuato Badoglio, che ne informò Vittorio Emanuele III, suscitandone l'irritazione perché in totale violazione dello Statuto.

Una nuova Costituzione monarchica

Altrettanto interessante è il secondo memorandum redatto da Hannaford «sull’abbozzo di costituzione sottoposto(gli) per un giudizio», pubblicato da Zangrandi e commentato dal professor Ciaurro in dialogo con Palazzolo. Dalle osservazioni del militare inglese si arguiscono le sue «parecchie interessanti innovazioni, ma anche inaspettate reminiscenze dell'immediato passato politico del Paese oltre a un certo numero di deplorevoli lacune”».

   Zangrandi non pubblica la “relazione” che accompagnò l'abbozzo “al Re”, ovvero al Luogotenente, e omette molte annotazioni di Hannaford (dal punto 3° all'11°). I “commenti” pubblicati risultano interessanti. Egli osservò che la riaffermazione della religione cattolica romana quale “religione della Nazione” (con garanzia di libertà e di protezione per le altre religioni) valeva per l'oggi ma poteva non esserlo più in futuro sicché quell'articolo sarebbe caduto in disuso.

   Ad Hannaford risultò curioso che per dettato costituzionale il re dovesse essere laureato e svolgere conferenze ogni anno in università di sua scelta. «Il Re – egli osservò – può essere un sovrano eccezionale e non un buon conferenziere. Appare poco saggio infine esporre la sua persona e la sua dignità al ridicolo di una magra figura.» Peggio ancora, quell'abbozzo voleva negare al re il diritto «d’indossare la sua uniforme quando e dove ritiene opportuno». La Suprema Corte Costituzionale prospettata dall'abbozzo, benché «ardito esperimento», generava molti dubbi per la sua composizione. Includeva infatti i presidenti dell'Organizzazione generale del lavoro e della Federazione nazionale degli imprenditori. Riecheggiava la Carta del Lavoro del 1927, orgoglio del regime, e non sarebbe stata «vista di buon occhio nei paesi democratici». Per di più essa comprendeva il vescovo di Roma (ovvero il Papa), «che è obbligato a due obbedienze temporali». Nell'insieme, e in sintesi, l' “abbozzo” andava «attentamente revisionato, in modo da renderlo più convincente e talvolta redatto più accuratamente».

   La generalità dei monarchici ne rimase all'oscuro. Non si sa quanti avrebbero apprezzato l'articolo 2 che aboliva la legge salica e consentiva «l’accesso al trono a eredi maschi o femmine pari passu». Quella “Carta” finì dimenticata sino a quando ne accennò Ora è riesumata, come reliquia curiosa,  dal colloquio tra il professor Caurro a Palazzolo. A conferma che le modifiche delle Carte costituzionali sono impegno arduo, da affrontare con pacatezza e lungimiranza, in una prospettiva di unità anziché di scontro  divisivo, tanto più quando da anni si ode, sempre più vicino, il rullio dei tamburi di guerra e bisogna puntare, se necessario, a larghissime intese nell'interesse generale e permanente dello Stato d'Italia.

Aldo A. Mola

Didascalia: Il Luogotenente Umberto principe di Piemonte. Con il Disegno di legge luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151 egli trasferì al “popolo” l'elezione dell'Assemblea che avrebbe deciso la forma dello Stato e, di seguito, redatto la Carta.  Con quell'Atto solenne escluse iniziative unilaterali che avrebbero violato la tregua istituzionale. Gli giovarono certi monarchici “più monarchici del Re”? 

“Storie dal mondo a Racconigi”: un viaggio tra culture attraverso i doni ai Re in mostra al Castello

 

Inaugurato il nuovo percorso espositivo permanente con 100 oggetti provenienti dai quattro Continenti ritrovati nei depositi dell’antica Armeria






martedì 25 giugno 2024

Incontro di studio e ricerca a Roma: l'E.U.R.

 Siete cortesemente invitati a un Nostro Incontro di Studio e di Ricerca

dedicato al Patrimonio Storico Italiano, 

con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.

 Invito al  QUARTIERE  E.U.R.
L’Incontro illustrerà la genesi di questo luogo altamente simbolico.
E’ stata scelta una posizione strategica,
da dove sarà possibile orientare lo sguardo
a favore di un’ampia veduta sul monumentale Quartiere.
Si metterà in luce l’innovativo progetto
dell’Esposizione Universale di Roma del 1942.

GIOVEDI’   27  GIUGNO  2024  ORE  18
INGRESSO PALAZZO DELLA  CIVILTA’ ITALIANA ROMA
EVENTO  GRATUITO     La puntualità è cosa gradita
   PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA 
Durata 2 ore
    
tel 3384714674

N.B. La prima Domenica di Luglio, di mattina, a Ingresso Gratuito,
visiteremo la Mostra su Mazzini e Lega, al Vittoriano.
Prossimamente l’Invito Ufficiale.
Cordialmente.

domenica 16 giugno 2024

Aggiornato il sito dedicato a Re Umberto II

La seconda parte del resoconto del Ventennale dell'esilio, celebrato a Palma di Maiorca sulla motonave Ascania che condusse centinaia di monarchici al cospetto del Re.




https://www.reumberto.it/umberto-ii-e-vittorio-emanuele-insieme-a-palma-di-maiorca-per-i-20-anni-dallesilio-ii-parte/

giovedì 13 giugno 2024

Appuntamento culturale a Roma

 Siete invitati a una Nostra Conferenza dal Titolo

IL SOLSTIZIO D’EUROPA.
DAL PALAZZO DI LUCE ALL’ARCO DI LUCE





La Conferenza  con immagini,
occasionata dal Solstizio d’Estate,
metterà in luce l’innovativo progetto
dell’Esposizione Universale di Roma del 1942
L’Idea di Impero, nel suo portato monumentale e funzionale,
manifesta una continuità spirituale di pensiero e di storia
tra l’antica Urbe e la Nuova Roma.

LIBRERIA  HORAFELIX
VIA REGGIO EMILIA, 89   ROMA
MERCOLEDI’   19 GIUGNO  2024  ORE 18.30
INGRESSO  CON  CALICE  AUGURALE    € 5
INFO E PRENOTAZIONI   338 4714674 
Negli ALLEGATI ulteriori informazioni con le modalità di partecipazione.
      Cordialmente
          Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro

lunedì 10 giugno 2024

La Costituzione segreta di Umberto II. Intervista al prof. Luigi Ciaurro

Su Radio Radicale, al seguente link, si trova una interessantissima intervista al professor Luigi Ciaurro, circa una bozza di Costituzione, auspice Re Umberto II, che avrebbe potuto essere il nuovo Statuto di un rinato Regno d'Italia.

La Costituzione segreta di Umberto II. Intervista al prof. Luigi Ciaurro (17.05.2024) (radioradicale.it)

giovedì 30 maggio 2024

Savoia e Re d'Italia: guerre, storie, intrighi e passioni. Ecco le verità

 


da  www.affaritaliani.it

L'autore Antonio Parisi: “Uomini e donne che, ancora oggi, continuano a occupare un posto privilegiato nell'immaginario collettivo del nostro Paese”

Antonio Parisi e Sergio Boschiero con Re Umberto II


La Saga di Casa Savoia, ecco il libro che toglie il velo su uomini, donne guerre, storie e intrighi della famiglia Reale italiana.

E subito un inedito: era il 26 febbraio del 1973, quando il vice segretario del Fronte Monarchico Giovanile, Antonio Tajani, ora ministro degli Esteri della Repubblica Italiana, accompagnato dal Commissario Romano dello stesso Fronte Monarchico Giovanile, Antonio Maulu, ebbero un incontro nell’ambasciata del Vietnam del Sud con l’incaricato d’affari esteri, per rappresentare il loro sostegno alla causa del Sud Vietnam contro il comunista Nord Vietnam, ma soprattutto per proporsi di andare con altri cento giovani monarchici a Saigon (oggi Ho Chi Minh) a opporsi ai comunisti del Nord Vietnam. La domanda fu trasmessa al governo del Sud Vietnam, ma non se ne fece nulla perché il Sud Vietnam non aveva una “legione straniera”.


[...]


Savoia e Re d'Italia: guerre, storie, intrighi e passioni. Ecco le verità | Foto 8 - Affaritaliani.it

lunedì 20 maggio 2024

INCONTRO A ROMA SU AMEDEO DI SAVOIA "UN ITALIANO DA RISCOPRIRE"

 




 

L'11 maggio è stato ricordato in una giornata a lui dedicata il Duca Amedeo di Savoia, Viceré d'Etiopia, Generale di Armata Aerea e M.O.V.M.

Nel quadro di questo incontro rievocativo e scientifico, sono stati anche ricordati il fratello Duca e Ammiraglio Aimone M.A.V.M. e il nipote Amedeo di Savoia V° Duca d'Aosta, scomparso 3 anni fa.

L'evento si è svolto al prestigioso Istituto San Leone Magno di Roma, una delle più antiche scuole cattoliche della capitale, da un comitato organizzatore presieduto dalla Dott.sa Anna Maria Menotti (discendente dell'eroe risorgimentale) che ha aperto i lavori con un breve e toccante discorso che ha riguardato la sua famiglia e la devozione d'essa alla Patria come valore supremo.

In precedenza c'è stata una funzione religiosa officiata dal Cappellano militare dell'Aeroporto di Centocelle di Roma. In un clima suggestivo nella Chiesa madredell'istituto sono state benedette le due bandiere nazionali quella del Regno e l'attuale.

In entrambe le occasioni ha partecipato una rappresentanza delle associazioni d'arma patrocinanti; la Presidenza Nazionale dell'Associazione Arma Aeronautica, la Federazione Romana del Nastro Azzurro e l'Associazione Nazionale del Fante.

Era presente anche una Rappresentanza del Comando Provinciale dell'Arma dei Carabinieri.

Al convegno dopo il saluto del Presidente Menotti, è stato letto un messaggio di S.A.R. il Principe Aimone di Savoia, che ha riscosso molti applausi Tra il centinaio di partecipanti.

E' seguita la conversazione iniziata dal divulgatore storico Alessandro Mella che ha parlato della giovinezza dell'eroe, del suo ruolo di soldato e ufficiale nella Grande Guerra, sino alla sua carriera nella Regia Aeronautica.

Poi il Prof. Andrea Ungari Docente presso gli Atenei Luiss e Marconi di Roma ha illustrato la vita del personaggio nell'ultimo drammatico e storicamente decisivo periodo, della sua vita che va dalla nomina a Viceré d'Etiopia alla morte in prigionia durante la guerra nel 1942.

Sono stati esposti tentativi fatti da lui per migliorare le condizioni di vita in colonia e l'impegno profuso inutilmente per evitare l'ingresso dell'Italia nella Seconda Guerra Mondiale che sarebbe stata ferale per l'Impero che gli era stato affidato.

Accerchiato e male armato resistette un anno con iniziali successi e una difesa che convinse gli inglesi a concedergli (cosa tutt'altro che scontata) l'Onore delle Armi quando ormai nel ridotto dell'Amba Alagi compì la sua ultima e più alta missione, prima della prigionia dove morirà per malaria e tubercolosi.

Infine l'articolista del Giornale d'Italia Gabriele Gigliotti ha ricordato alcuni aspetti del carattere dell'eroe e del fratello Aimone , personaggio questo trascurato fin troppo dagli storici e che ebbe indiscussi meriti in campo tecnico- militare specialmente nella formazione dei mezzi d'assalto a cui contribuì prima e dopo l'ingresso dell'Italia in guerra e durante la Guerra di Liberazione che lo vide operante nella Regia Marina a Brindisi durante la prigionia di moglie e figlio precedentemente catturati dai nazisti.

La cerimonia si è conclusa con il ricordo degli ultimi istanti della vita di Amedeo (così come lo chiamavano i suoi soldati) che ha lasciato visibilmente commossi molti presenti.

 

Francesco Di Bartolomei

mercoledì 15 maggio 2024

Invito al Campidoglio, 19 Maggio

 Siete cortesemente invitati a un Nostro Incontro di Studio e di Ricerca

dedicato al Patrimonio Storico Italiano, 

con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.



 Invito al CAMPIDOGLIO


L’Incontro, occasionato dalle Radiose Giornate di Maggio,
metterà in luce la valenza simbolica del Campidoglio
durante il Regno d’Italia.
Il percorso si svolgerà all’aperto,
avremo modo di stare seduti senza prendere il sole.
DOMENICA  POMERIGGIO  
19  MAGGIO  2024  ORE 17
PIAZZA DEL CAMPIDOGLIO   (Statua Marco Aurelio)   ROMA
EVENTO GRATUITO     La puntualità è cosa gradita
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA
In ALLEGATO ulteriori informazioni e le modalità di partecipazione.
Cordialmente.
         Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro

Quando il parlamento regalò l’Italia a Mussolini

Copertina dell'introvabile “La monarchia e il fascismo” del saggista Mario Viana (Candelo, 1883-Roma, 1976). 



di Aldo A. Mola

 

Una “giornata particolare”

   Il 21 luglio 1923 non figura tra le “giornate particolari”. Eppure quel giorno, nell'Aula “sorda e grigia” della Camera dei deputati, venne decisa la storia d'Italia. La “narrazione” privilegia eventi clamorosi. A volte li inventa. È il caso del 28 ottobre 1922, giorno fatidico della “marcia su Roma”, che si ridusse alla sfilata di 25.000 squadristi da Piazza del Popolo alla Stazione Termini, dove sessanta treni li riportarono alle loro terre, stanchi ma non del tutto soddisfatti. Non era il 28 ma il 31 ottobre 1922. Il governo Mussolini era già insediato. Il IV novembre il Re rese omaggio al Milite Ignoto all'Altare della Patria e partì per San Rossore (Pisa). Il Paese era tranquillo.

   Mitologie a parte, la Storia, quella vera, quella che “pesa”, procede a passi felpati. Chi potrebbe fermarla o deviarne il corso spesso le lascia il varco e risulta persino assente ingiustificato. Come accadde quel 21 luglio 1923. Quella, sì, una “giornata particolare”.

   Per comprendere quanto avvenne e le sue ripercussioni sul ventennio seguente occorre fare un passo all'indietro. Un mese dopo l'insediamento alla presidenza del Consiglio, Benito Mussolini fece trapelare le sue intenzioni tramite un dispaccio diramato dall'“Agenzia Italiana” il 6 dicembre 1922. Ottenuta la fiducia dalle Camere, il governo progettava di sostituire il riparto dei seggi in proporzione ai voti ottenuti dai partiti con un premio di maggioranza alla lista più votata. Mussolini, però, era consapevole di non avere la forza numerica per farlo. Il Partito nazionale fascista (PNF) contava appena 36 deputati su 535. Sommando i nazionalisti (come poi avvenne a metà febbraio 1923, previa dichiarazione d’incompatibilità tra fascismo e massoneria) ne sarebbe sorto un gruppo di 50 deputati. Del tutto insufficiente. Il duce tentò allora un'altra via. Se lo avesse proposto alla Camera, il progetto avrebbe suscitato «un dibattito alimentato da interessi particolari ed individuali, mettendo in chiara luce l'impossibilità di una serena e disinteressata discussione parlamentare». Mussolini sperò allora di imporre la riforma per decreto reale, ma Vittorio Emanuele III, re costituzionale, rifiutò. Dovette quindi presentare un disegno di legge col rischio di rimanere soccombente in Aula. Esso fu approntato da Giacomo Acerbo, sottosegretario alla Presidenza del consiglio, massone. Ma la sua elaborazione richiese tempo perché, come emerse da una seduta del Gran Consiglio del fascismo il 17 marzo 1923, molti “ras”, come Roberto Farinacci, propendevano per il ritorno ai collegi uninominali, in vigore sino al 1913: più sicuri per essere eletti sulla base del controllo del territorio, ormai militarizzato tramite le “squadre”.

   Il 26 aprile il Gran Consiglio approvò a maggioranza un «sistema maggioritario a più vaste circoscrizioni elettorali, secondo cui la lista che otterrà il maggior numero di voti rispetto alle altre sia dichiarata eletta per intero, ed i posti residuali ripartiti proporzionatamente fra le altre liste». Il Gran Consiglio non indicò la soglia che la lista prevalente doveva raggiungere, né la quota di seggi che le sarebbe stata riservata. Meglio tenere le carte coperte per non allarmare partiti e opinione pubblica, del resto assai ristretta perché la stragrande maggioranza degli italiani aveva altre urgenze.

   Il 9 giugno Mussolini presentò alla Camera la legge elettorale maggioritaria, “madre di tutte le riforme”. Accantonata la “questione istituzionale” e messa la sordina ai propositi di assalto al Senato, di nomina regia e vitalizio, il duce mirò a ottenere un’investitura diretta dagli elettori. Su quella base avrebbe potuto confrontarsi con il Re da una posizione più forte. Sarebbe stato espressione della “volontà nazionale”, del “Popolo d'Italia”, insegna del quotidiano da lui fondato all'uscita dal partito socialista grazie a un robusto finanziamento da parte del Grande Oriente di Francia, che aveva bisogno di un movimento “socialista” italiano a favore dell'intervento in guerra, osteggiato dal PSI, poi arroccato sull’inconcludente formula “né aderire, né sabotare”. Il 30 ottobre 1922, secondo la leggenda, Mussolini aveva dichiarato al Re che gli portava l'“Italia di Vittorio Veneto”. Ora doveva dimostrare che gli italiani approvavano l'esercizio dei pieni poteri da lui chiesti e concessi dalle Camere per riformare la pubblica amministrazione, negati a Giolitti nel suo quinto e ultimo governo (1920-1921).

La Commissione dei diciotto

   Secondo la prassi, la Camera, presieduta dal liberale napoletano Enrico De Nicola, nominò una commissione di diciotto membri per l'esame preliminare del disegno di legge. Ne fecero parte rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari, compresi quattro ex presidenti del Consiglio, Antonio Salandra, Vittorio Emanuele Orlando, Ivanoe Bonomi e l'ottantunenne Giolitti, al quale fu conferita la presidenza. I gruppi fiancheggiatori e di opposizione furono rappresentati ai massimi livelli: De Gasperi e Micheli per il partito popolare, Turati per i socialisti unitari, Lazzari per i massimalisti, Graziadei per i comunisti. I fascisti vi comparvero con un paio di deputati, Paulucci e Terzaghi, supportati dal filofascista e massonofago Paolo Orano. I suoi travagli narrati  in “Massoneria e fascismo” (ed. anastatica Forni) da Michele Terzaghi, che il 31 ottobre 1922 aveva rifiutato la nomina a sottosegretario alle Poste (si aspettava di meglio, poi finì al confino di polizia).  

   Nell'impossibilità di immediato ripristino dei collegi uninominali, Giolitti aveva l'ossessione di spazzare via la “maledetta proporzionale” per assicurare all'Italia un governo stabile perché numericamente forte: una sorta di dittatura parlamentare provvisoria. Ma fino a quando sarebbe durata? Giunto al potere per voto popolare, il “dittatore” si sarebbe rassegnato a deporre il fascio littorio o ne avrebbe estratto la scure? Erano in tanti a domandarselo. Come ricorda Gianpaolo Romanato in “Giacomo Matteotti: un italiano diverso”, ed. Bompiani), in un colloquio con Matteotti (che invano gli propose di iscriversi al PSU) Gaetano Salvemini prospettò i nomi di possibili ministri di un “governo di garanzia”: lui stesso, Giovanni Amendola, Luigi Albertini, don Sturzo, il socialista Bruno Buozzi, il cattolico Filippo Meda e il generale Pietro Badoglio, di cui si diceva che se nel 1922 gli avessero chiesto di sbaragliare gli squadristi “manu militari” lo avrebbe fatto.

Le ipotesi erano tante, a volte fiabesche e sempre più lontane dalla realtà. Inondavano giornali e riviste, letture di nicchia per addetti ai lavori, lontani dalla generalità dei cittadini alle prese con disoccupazione e distanza crescente tra stipendi, salari e costo della vita.

   La “legge Acerbo”, come il disegno di legge fu subito detto dal nome del suo proponente, venne discussa a lungo nella “Commissione dei Diciotto”. Mentre i tre esponenti delle sinistre furono sempre per il “no”, il popolare De Gasperi propose di elevare dal 25% al 40% la soglia oltre la quale il partito prevalente avrebbe ottenuto il premio di maggioranza e di ridurre quest’ultimo da due terzi a tre quinti dei seggi. Trattare voleva dire accettare, almeno “in linea di massima”, come Abramo con Dio nel Vecchio Testamento. Fiutata la vittoria per le divergenze e la debolezza delle opposizioni, la maggioranza (fascisti e “liberali”) si irrigidì. Il testo fu mandato in Aula con poche varianti rispetto all'originale.

Un'esigua minoranza divenne maggioranza schiacciante

   L’obiettivo della legge era semplice: la minoranza più forte ha diritto di governare da sola

il Paese. A Monte Citorio le opposizioni si mostrarono blande. Per i socialisti parlò Turati, che divagò. I popolari Gronchi e Cingolani, più pragmatici, riproposero l'elevazione della soglia premiale al 40% e il conferimento dei tre quinti dei seggi anziché i due terzi, ma confermarono la collaborazione col governo, sia pure “piena di sottintesi” come osservò ironicamente Mussolini.

   Il 21 luglio 1923, per evitare rischi e contraddicendo le dichiarazioni della vigilia, il duce pose la questione di fiducia sull'ordine del giorno presentato dal conte e avvocato Ignazio Larussa, eletto nella circoscrizione Calabria e Basilicata nella lista di Democrazia liberale ma ormai in marcia verso il PNF. A Roma il caldo era opprimente. L'Aula era soffocante. Mentre il 16 precedente, per il voto sulla fiducia sugli articoli, si erano contati 450 presenti, nella seduta decisiva, se ne presentarono appena 346 su 535. Erano chiamati a votare la proposta di Ivanoe Bonomi di elevare la soglia dal 25 al 33%, che fu sconfitta. Sulla legge Acerbo ancora una volta Mussolini chiese  pose la questione di fiducia. Il governo rischiava tutto. La votazione era segreta. Il risultato fu inappellabile. Il governo ottenne 223 voti contro 123. Prevalse col favore del 40% dei deputati in carica, una minoranza: nazionalfascisti, liberali di varia osservanza, popolari ormai liberi da don Sturzo. Elenco dei presenti alla mano, risulta che almeno 40 dei 100 deputati del partito popolare, in parte contrari alla legge, furono assenti. Ma ancora più clamorosa risulta l'assenza ingiustificata dei socialisti, sia massimalisti, sia del Partito socialista unitario capitanato da Matteotti.

   Turati scrisse sconsolato alla compagna, Anna Kuliscioff, da decenni Ninfa Egeria del socialismo italiano: «Dei nostri ne mancarono 30 o 40, il che significa che siamo stati noi a dare la vittoria al fascismo». Quel 21 luglio 1923 fu la Camera o, più esattamente, l'“opposizione”, a regalare a Mussolini vent'anni di governo. Da quel giorno la sorte dell'Italia fu segnata. Il partito che avesse avuto un quarto dei voti validi avrebbe ottenuto due terzi dei seggi. Il futuro capo del governo avrebbe avuto un’investitura mai vista nella storia d'Italia. Avrebbe potuto ergersi ad “alter ego” rispetto al Re.

   Il 13 novembre 1923 il Senato approvò la legge Acerbo con 165 voti contro 41. L'esito era scontato. Interpellato sulle prospettive politiche del Paese il 27 ottobre Benedetto Croce, senatore e già ministro della Pubblica istruzione, dichiarò «non esiste ora un questione di liberalismo e di fascismo, ma solo una questione di forze politiche. Dove sono le forze che possano, ora, fronteggiare o prendere la successione del governo? Io non le vedo. Noto invece grande paura di un eventuale ritorno all'anarchia del 1922. Per un tale effetto nessuno che abbia senno augura un cambiamento. Se i liberali non hanno avuto la forza e la virtù di salvare essi l'Italia dall'anarchia in cui si dibatteva, debbono dolersi di sé medesimi, recitare il “mea culpa” e intanto accettare e riconoscere il bene da qualunque parte sia sorto e prepararsi per l'avvenire. Questo è il loro dovere». Più fatalismo che storicismo. Per far capire che le cose non erano come le vedeva il “filosofo”, i fascisti devastarono l'abitazione di Francesco Saverio Nitti, due volte presidente del Consiglio e non rassegnato al “sistema Mussolini”. Anche l'Associazione Nazionale Combattenti (meritevole di un esame specifico) si allineò alle posizioni del governo. Un “Partito mazziniano” pubblicò un manifesto in cui ricordò la “follia demagogica” che infuriava in Italia prima dell'avvento di Mussolini. Il duce compì un periplo nelle maggiori città dell'Italia settentrionale, accolto da bene orchestrate manifestazioni di giubilo. Piero Gobetti annotò: «Il recente tentativo di creare il mussolinismo accanto al fascismo è stata la prova più pietosa della mancanza di dignità degli italiani non fascisti. La gara nel servilismo non poteva svelarsi più ripugnante.» E mise in guardia dal «nuovo domatore e dalle sue capacità di non tener fede ai patti, di guadagnare la popolarità ad ogni costo, di asservire abbagliando e lusingando».

   In Senato si susseguì un coro di plausi. L'unico nettamente contrario fu Mario Abbiate. Con parole profetiche e attualissime ammonì: «Viene meno con la riforma il governo parlamentare e neppure si fa ritorno al governo costituzionale di scelta del Re. La designazione del governo si trasferisce dal Parlamento ai comitati elettorali, sostenuti da una minoranza degli elettori che può essere del 25% dei votanti corrispondente al 16% degli iscritti [cioè degli elettori, NdA]. La scelta della Corona, che può essere moderatrice ed arbitra tra i vari partiti, viene effettivamente annullata. Il malcostume parlamentare viene aggravato dal malcostume dei partiti.»

 

BOX -Titoletto-

E alla fine anche il liberale Giolitti disse “no” al regime

 

   La Camera fu sciolta per decreto reale il 25 gennaio 1924. Le elezioni furono indette per il 6 aprile. Ai blocchi di partenza i pochi partiti strutturati (comunisti, repubblicani, socialisti massimalisti e le minoranze germanofone e slavofone, la cui corposa presenza mostrava che lo Stato d'Italia non era “nazione”, come oggi enfaticamente qualcuno dice) strinsero le file e si prepararono alla gara. Il Partito socialista unitario mostrò la sua doppia anima: quella intransigente di Matteotti e quella che ricordava l'imperatore Adriano (117-134 d.Cr.): “animula vagula, blandula, pallidula...”, incline a trattative. Mussolini incaricò cinque fascisti di allestire la Lista nazionale. Il suo motore fu Cesare Rossi, della Gran Loggia d'Italia. In poche settimane vennero intruppati ex popolari, democratici, demosociali, liberali, agnostici, agrari, industriali, “intellettuali” (brutta parola per peggiore cosa, diceva Carducci) ed esponenti della società civile disposti a dare una mano e a ricevere il guiderdone della medaglietta parlamentare con prebende annesse. Il carro del presumibile vincitore si riempì all'inverosimile. Vi salirono anche Salandra, Orlando e il presidente della Camera, De Nicola. Poiché quando si sa di compiere un errore, se ne addossano le responsabilità ad altri Orlando disse: «La verità è che quando il fascismo arrivò al governo, delle antiche istituzioni parlamentari non rimaneva più che l'apparenza esteriore. Nella sostanza esse erano state distrutte, e vi si era sostituito una specie di direttorio, composto da delegati di gruppo, cioè la più anarchica tra tutte le forme di governo. Il fascismo riconsacrò l'idea di Patria e restaurò l'autorità dello Stato.» De Nicola aggiunse: «Il fascismo sorse come protesta contro un eccesso di violenza sovvertitrice della vita nazionale, s'affermò e vinse come protesta contro un eccesso di instabilità e di atonia dei governi. Il senso e l'intuito del Capo dello Stato risparmiarono una guerra civile, le cui conseguenze sarebbero state gravissime…»

   Giolitti si tenne alla larga dalla Lista nazionale e ne organizzò una, schiettamente liberale, presente in tre circoscrizioni, come voleva la legge. Un'altra, simile, fu allestita dal suo ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Camillo Corradini. Concorrevano a ottenere una sia pure minima parte dei seggi che le opposizioni si sarebbero spartiti. Briciole condannate a fare da mosche cocchiere del futuro governo di larghissima maggioranza dominato dal duce del fascismo. Nel discorso pronunciato il 16 marzo 1924 a Dronero, cuore del suo antico collegio uninominale, Giolitti spiegò l'azione politica svolta dal 1919 e delineò il programma venturo. Come già aveva sentenziato all'indomani dell'insediamento di Mussolini, la Camera aveva il governo che si meritava. Non aveva saputo darselo in varie crisi e il Paese se lo era dato da sé. Sorto al di fuori dell'orbita parlamentare era stato riportato dal Re nei binari della legalità costituzionale. A fronte della legge elettorale, la cui formazione rivendicò come presidente della Commissione dei Diciotto, il partito liberale doveva concorrere ad assicurare pace europea, autorità dello Stato, tranquillità interna, fondata sul consenso di tutte le classi sociali, specialmente delle più numerose, e solidità dell'economia nazionale, perché «le competizioni più gravi fra i popoli civili si combattono oggi nel campo economico e finanziario». Perciò occorreva tagliare drasticamente le spese non necessarie e restaurare il bilancio statale. “Nihil sub sole novi”... Chiuse con l'appello a tener vivo almeno in Piemonte il partito di Cavour, Azeglio, Rattazzi, Lanza, Sella «e di centinaia di altri grandi patrioti» che avevano fatto l’Italia. I liberali dovevano salvare lo Stato da chi aveva reso impossibile la normale funzione del Parlamento: i “rossi” e i “neri”, socialcomunisti e popolari, capitanati del “prete intrigante”. Era il canto del cigno di un liberalismo nato europeo e arricchito dagli esuli politici accorsi in Piemonte da tutta Italia.

   Affrontata la lotta da solo, «forte dei suoi ideali, delle sue tradizioni, del suo programma, mantenendo intera la sua indipendenza», il 6 aprile il partito giolittiano ottenne 4 seggi su 535. Pochini. Contrariamente al credito da lui tributatogli, il fascismo trionfante non attuò affatto il principio “ne cives ad arma veniant”. La campagna elettorale fu costellata di morti, feriti, brogli. Il 10 giugno il segretario del PSU, Matteotti fu rapito. Morì vittima di omicidio verosimilmente non premeditato: non crimine comune, comunque, ma delitto politico. Anche dopo quello scempio tanti liberali continuarono a votare a favore del governo. Giolitti passò finalmente all'opposizione il 24 novembre 1924. Croce salì sull'Aventino degli studi. Il 16 marzo 1928 Giolitti votò contro la legge elettorale che affidò al Gran Consiglio la composizione della lista dei candidati alla Camera, da approvare o respingere in blocco: ratifica del regime di partito unico, che segnò il decisivo distacco dallo Statuto. Morì il 17 luglio seguente sussurrando: «Non così presto…». Valeva anche per il tramonto dell'Italia liberale, travolta dalle leggi fascistissime (bavaglio alla stampa, scioglimento della massoneria, ripristino della pena di morte, divieto delle opposizioni politiche e culturali...), che non furono solo un male in sé ma costituirono le basi della successiva catastrofica alleanza con la Germania di Hitler, delle leggi razziali e della negazione del Risorgimento liberale, europeo e monarchico. Così venne imboccato il tunnel che, passo dopo passo, condusse alla Repubblica sociale italiana, approdo ultimo del voto del 21 luglio 1923: davvero una “giornata particolare”, quest’ultima, germe del fratricidio permanente. Data da segnare “nigro lapillo”.