NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 18 gennaio 2025

UMBERTO II DI SAVOIA IN ITALIA?


di Gianluigi Chiaserotti

 

È di questi giorni la notizia, e da fonte certa, che si stia organizzando il rientro in Italia delle spoglie mortali del Re Umberto II di Savoia, deceduto a Ginevra il 18 marzo 1983, e anche di quelle della Regina Marie Josè, deceduta, sempre a Ginevra, il 27 gennaio 2001, ed entrambi sepolti nella Reale Abbazia di Hautecombe, in quella Savoia ove, oltre mille anni fa, Umberto Biancamano, il Capostipite del Casato, si affacciò sulla Storia dell’umanità.

Naturalmente questo “real rientro”, dopo quasi ottant’anni (almeno per il Re Umberto), sarà di notte, senza dare troppo all’occhio, e probabilmente nel Santuario Regina Montis Regalis di Vicoforte, in provincia di Cuneo, ove già riposano le spoglie mortali del Vittorio Emanuele III e della Regina Elena.

Secondo le sue precise volontà, il Re Umberto aveva stabilito che se fosse morto a Cascais, sarebbe andato nel cimitero dei poveri, se fuori il Portogallo, nella Abbazia di Hautecombe, se in Italia, nel Pantheon di Roma, sacrosanta ultima dimora dei Re d’Italia.

Invece ancora una volta, anche dopo la morte, e trentotto anni di esilio, le sue volontà e la sua fermezza di Re non abdicatario non saranno probabilmente rispettati.

Basti analizzare il suo contegno e la sua signorilità in appunto trentotto anni di esilio volontario.

Naturalmente sorgeranno polemiche, anche fra monarchici, per chi non accetterà questa sepoltura, e sicuramente non va accettata.

Diamo però ragione a quella Signora che si chiama Storia.

Non mi permetto di sottolineare la pochezza di certi commenti di alcune sedicenti Associazioni e/o Comunità in quanto tali commenti non furono neanche accennati nel 1957 quando furono inumate le spoglie mortali di Benito Mussolini in quel di Predappio.

E neanche commento le critiche becere che la traslazione avverrà con un volo di Stato (attualmente usato anche per andare a vedere una partita di calcio da certi politici).

Quindi continuiamo ad onorare la memoria dei nostri Sovrani, ma rispettiamo le loro volontà.

Di Re Umberto ricordiamo sempre il nobile Proclama con cui il 13 giugno 1946, lasciò l’Italia, in cui, tra l’altro, scrisse:

(…) Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi ed

al potere indipendente e sovrano della Magistratura, il Governo  ha compiuto un gesto rivoluzionario assumendo, con atto unilaterale ed arbitrario poteri che non gli spettano e mi ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire violenza..

Il Re, non abdicatario (se lo avesse fatto avrebbe dovuto riconoscere il sopruso di cui era stato fatto bersaglio), lasciando la Patria si sacrificò per il bene della medesima. Ma, pur protestando, sciolse dal giuramento di fedeltà quanti lo avevano prestato ma “non da quello verso la Patria”.

Ed il pensiero religioso che fu trovato a Cascais il 22 marzo 1983, quattro giorni dopo la sua morte:

(…) poco importa a me d’esser giudicato da un tribunale di uomini… ne’ mi giudico da me stesso poiché non ho coscienza di aver commesso alcunché; ma non per questo sono giustificato: mio Giudice è il Signore”.

 

“Io mi avanzo pieno di speranza alle Tue soglie del Tuo divino Santuario la cui fulgida luce ravvisai sul sentiero misurato dai miei passi mortali.

Alla Tua chiamata, o Signore, io vengo tranquillo.

Questo è il suo esempio, questa è la sua Fede, e porteremo nel cuore sempre la nobile figura del Re Umberto II di Savoia.

 

venerdì 17 gennaio 2025

Incontro di studio e ricerca all'Altare della Patria


Confermiamo il Nostro Incontro di Studio e di Ricerca

       DOMANI  SABATO   POMERIGGIO   ore  15

Invito 


ALTARE DELLA PATRIA

Ricorrendo nel mese di Gennaio due importanti Eventi,

l’Anniversario della Morte del Primo Re d’Italia

S.M. Vittorio Emanuele II e la Festa del Tricolore.

In occasione dell’importante restauro dell’Altare della Patria

osserveremo l’Altorilievo dedicato alla Dea Roma e al Milite Ignoto,

per poi visitare gli interni del Vittoriano.

Saliremo in alto sulla Terrazza del Bollettino della Vittoria,

e concluderemo con la visita alla Cripta del Milite Ignoto

e al Sacrario delle Bandiere.

   (IL PERCORSO MUSEALE PREVEDE MOLTI GRADINI)

DOMANI   SABATO   POMERIGGIO

     18  GENNAIO  2025   ORE 15

INGRESSO  DEL  VITTORIANO    (CANCELLATA)

PIAZZA VENEZIA    ROMA

INGRESSO GRATUITO

La puntualità è cosa gradita      DURATA  2 ORE

PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA

In ALLEGATO ulteriori informazioni e le modalità di partecipazione.

Cordialmente.

         Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro

 


mercoledì 15 gennaio 2025

Corre voce… (ma speriamo che non sia vera)



Corre voce che si stia progettando una traslazione delle venerate salme di Re Umberto II e della Regina Maria José.

E’ una voce flebile, inapparente, tenuta sottotono, che si dice a mezza bocca.

Con la preghiera che nessuno sappia.

E perché nessuno deve sapere?

Perché detta traslazione avverrebbe non già nell’unico luogo che si addice ad un Re d’Italia, la Basilica di Santa Maria ad Martyres, più conosciuta nel mondo come "Pantheon", ma in un altro luogo, lontano dalla capitale del Regno d’Italia, quel Regno che rese l’Italia una e libera e che tale è rimasta nonostante lo sfacelo di una guerra malamente persa.

 

La traslazione, corre voce, avverrebbe alla chetichella, come già è stato per le altrettanto venerate salme di Re Vittorio Emanuele III e della Regina Elena.

Già allora ci siamo dati tanti pizzichi sulla pancia per non urlare al mondo il nostro dolore.

Ma c’era una brutta situazione in Egitto, terroristi islamici potevano profanare la tomba del Re Soldato (noi crediamo abbiano da fare cose più impegnative), si voleva riunire i Sovrani separati dal Mediterraneo…

L’abbiamo mandata giù. Con estrema difficoltà ma lo abbiamo fatto.

Senza mai dimenticare che a dispetto di un mondo intero che vuole che quella sia la sepoltura definitiva noi siamo ostinati nel volere il Pantheon perché è l’unico luogo di sepoltura che spetta al Re che ha completato l’Unità d’Italia e a cui è stato fatto carico di tutte le scelte sciagurate di intere generazioni di politici, (loro sì fuggiti!, in URSS, in Vaticano, in camion con un cappotto tedesco), che non ascoltarono i suoi consigli.

L'abbiamo mandata giù ma abbiamo pianto dalla vergogna nel vedere la salma del nostro Re tornare avvolta in una bandiera stinta, lacera, seppellita in fretta e furia, senza poter ricevere l'affetto del suo popolo, per mettere l’opinione pubblica davanti ad un, bruttissimo, fatto compiuto.

Non in questo modo e non in quel luogo ha da ritornare il nostro Re Umberto II.

Abbiamo ottima memoria per quello che riguarda le cose di Umberto: nelle sue disposizioni testamentarie erano previsti tre soli luoghi:

-Cimitero dei poveri di Cascais qualora fosse mancato in Portogallo;

-Reale abbazia di Hautecombe se fosse mancato in altro luogo, come poi avvenne;

-Pantheon se fosse mancato in Italia.

 

NESSUNO, sottolineiamo e scriviamo in maiuscolo e grassetto, si può e si deve permettere di fare questo affronto alla volontà del Re.

Nessuno può osare mancare così tanto grossolanamente a disposizioni tanto chiaramente espresse.


Il Re ha, per amore della Patria, rinunciato al Trono ma mai, MAI!, ha rinunciato alla sua dignità regale.

Più sotto gli amici troveranno scritte queste parole del Sovrano:

Mi si chiama il Re di maggio. Ma faccio parte di una famiglia che ha regnato per mille anni. E non un Savoia avrebbe accettato, durante tutto questo tempo, di sminuire la figura del proprio padre. Neppure, come nel mio caso di Re pressoché dimenticato, per mendicare un ritorno di fiamma e di ricordo“.

 

Per questo Re, per quest’uomo, cui la malasorte non ha risparmiato alcun tipo di dolore non si può accettare che subisca da morto anche l’onta di una sepoltura cui non ha mai neanche pensato quando era in vita.


Re Umberto II non ha mai accettato compromessi. Ricordiamo, ancora, quando negli ultimi mesi di vita del Sovrano si era acceso il dibattito sul suo ritorno, da Londra arrivò, per il tramite dei suoi gentiluomini, il netto chiarimento: ”Sua Maestà non ha chiesto e non chiede nulla.”

Non possiamo non provare sdegno per la “diminutio” che verrebbe inflitta alla dignità regale di un Re che ha speso la sua intera vita in condizioni difficilissime per conservarla tale.

E pubblichiamo questa nota su questo blog da 2000 lettori con l’unico scopo di rompere le uova nel paniere a quanti si ritengono in diritto di mancare di rispetto alla memoria del Re, accettando per lui morto ciò che lui da vivo neanche avrebbe preso in considerazione.

 

A tale proposito riportiamo gli stralci delle sue interviste ove eventuali smemorati possano rinfrescare la memoria e schiarirsi le idee.

 

Intervista di Giovanni Mosca 1973

qui l'intervista completa

“Perché è venuto fin qui Mosca? E infrangendo tutte quelle etichette alle quali, pur dopo 27 anni di esilio, sono rimasto fermo? Nato Re, muoio Re, pur non avendo altro popolo che quello degli scogli su cui vedo infrangersi l’Atlantico. Mi sono chiuso in me stesso, è la mia forza. Ventisette anni passati senza poter rivedere la terra che si è amata, e che ancora si ama, sono lunghi e duri. E’ una pena terribile“.

Se è ancora vietato tornare ai vivi, possono però ritornare i morti.

“Mosca cosa è venuto a fare? Il mio pensiero sulla sepoltura dei miei genitori lo conoscono tutti. A Superga no, al Pantheon sì. Altrimenti le salme restano dove sono. Avrebbe per caso intenzione di indurmi a cambiare opinione?

 

E perché no? Non sono mai stato Re, e certe questioni di principio, che pur comprendo mi sono lontane. Vedo nella offerta di Andreotti…

 

“Pensa sia stato Andreotti? Lo ricordo giovanissimo. Me lo presentò De Gasperi. Il migliore, mi disse, dei miei collaboratori: non sarà un uomo politico qualunque, gli sto infondendo il senso dello Stato; gli manca solo un po’ di grinta. Ma quest’ultima frase Andreotti non la sentì.”

Andreotti, prima ancora che democristiano, è cristiano. Il gesto da lui compiuto non tanto è un atto politico quanto di pietà.

“E gliene sono grato“.

Anche fosse soltanto un atto politico? Anche lo avesse compiuto per guadagnarsi i voti dei monarchici che hanno aderito alla destra nazionale?

“Anche. Sono voti che debbono tornare ai partiti democratici, e se i miei morti siano serviti a questo, ammiro l’atto abile. Penso però che se anche ci sia un po’ di calcolo, c’è in compenso, tanta pietà cristiana. Ed io, ripeto, sono grato, anche se non commosso. Non sono un sentimentale. Lo fossi non avrei sopportato 27 anni di esilio. Nessuno conosce l’Italia, angolo per angolo, quanto me. Nessuno immagina quanto io la rimpianga. C’è nella lingua portoghese una parola, saudade, che è qualcosa di più  che rimpianto, qualche cosa di più che nostalgia.. E’ intrisa di dolore. Ma l’esilio, da noi, è di casa. Trecento chilometri a Nord di qui c’è quell’altro angolo di Portogallo dove morì Carlo Alberto“.

Carlo Alberto è a Superga.

“Quando morì non era Re d’Italia. Se accettassi Superga, riconoscerei davanti a tutto il mondo che, a differenza di Vittorio Emanuele II e di Umberto I, mio padre non è degno del Pantheon.”

Per la maggior parte degli italiani Superga e il Pantheon sono la stessa cosa. Quel che importa per essi è il gesto di Andreotti. Lo si giudica umano, generoso. Rompe, sia pure soltanto verso i morti, l’impietoso ostracismo nei riguardi di Casa Savoia. Se lei si ostina ad ignorarlo, corre il rischio di deludere molti, e di farsi mal giudicare anche da chi le è devoto.

 

“Gli italiani sono dei sentimentali. Io, qui, continuo e debbo continuare ad essere Re. Vedo che non sorride. La ringrazio. L’ironia sarebbe facile. Mi si chiama il Re di maggio. Ma faccio parte di una famiglia che ha regnato per mille anni. E non un Savoia avrebbe accettato, durante tutto questo tempo, di sminuire la figura del proprio padre. Neppure, come nel mio caso di Re pressoché dimenticato, per mendicare un ritorno di fiamma e di ricordo“.

Ho parlato con dei giovani. Non conoscono neppure tutti i nomi dei presidenti della repubblica. Tanto più ignorano i Re scomparsi prima ancora che nascessero. Si meravigliano che si parli ancora di doveroso rimpatrio delle salme. Ma poiché il governo lo ha concesso, la sua ostinazione sembra loro assurda.

“Ebbene, io, come Filippo II, assurdamente avvolto “nel manto mio regal”, vado più in là di questi giovani. Che i poveri corpi di mio padre e di mia madre giacciano in terra straniera o in terra italiana, poco mi importa. Anzi se tornassero in Italia, non potrei più andarli a trovare. Accetterei il sacrificio soltanto se li sapessi sepolti nel Pantheon. E poi, vi sono dei doveri cui non si può mancare. Io quello di venerare mio padre per quanto di grande e di glorioso ha compiuto, e di essere certo che, un giorno, su ciò che oggi gli viene addebitato come errore o colpa, la storia darà un giudizio più sereno“.

Nell’attesa non esita a farsi giudicare male da tanti italiani.

Precisamente. Fare il proprio dovere costa“.

Superga, dicono molti, potrebbe essere l’anticamera del Pantheon.

“Al contrario, è stata fatta per escludere appunto, il Pantheon. Mia madre, perciò, rimarrà a Montpellier, sotto la pietra in cui non è inciso che Elena. E sa che, tempo fa, un gruppo di devoti fanatici mi fece sapere di essere pronto a trafugare le spoglie dal cimitero di Montpellier, per portarle in Italia, da cui nessuno avrebbe – secondo loro – più avuto il coraggio di allontanarle? Dovetti faticare molto per convincerli a rinunciare all’impresa. Mio padre rimarrà laggiù, lontano, salvo che anche in Egitto non avvenga ciò che è già avvenuto in Tunisia, Libia, Algeria, dove molte chiese cattoliche sono diventate moschee. In questo caso sarei costretto a cercare altra sede in terra straniera. Non sono più Re d’Italia, ma per esilio ho il mondo.

 

Altra intervista aprile 1973, Domenica del Corriere.

qui l'intervista competa

«Che i poveri corpi di mio padre e mia madre giacciano in terra straniera o in terra italiana poco mi importa» dice a chi gli è vicino Umberto. «Non posso accettare: se tornassero in Italia, non potrei più andare a trovarli. Accetterei il sacrificio soltanto se li sapessi sepolti al Pantheon. A chi gli dice che Superga potrebbe essere l’anticamera del Pantheon risponde scuotendo la testa: «Al contrario Superga è stata offerta per escludere appunto il Pantheon».

La sera scende su Villa Italia. La luce calante scava rughe sul volto di Umberto. Rughe che prima, col sole, erano impercettibili. Umberto si rende conto che forse l’occasione non gli sarà mai più offerta. «Non posso tradire mio padre» dice «Non posso dire: ecco. Accetto. Eccovi i suoi resti, metteteli a Superga, non è degno del Pantheon.»


«Vogliono questo?» si chiede. E non sembra attendere risposta.

 

 

giovedì 9 gennaio 2025

A 152 anni dalla nascita della Regina Elena di Savoia.


Emilio Del Bel Belluz

Una volta lessi in un vetusto libro una citazione scritta a inchiostro, da una vecchia penna stilografica con il pennino in cattivo uso, lo si notava dalla carta che era graffiata. La dedica che il proprietario del libro aveva fatto diceva: “L’anima è eterna, e quello che non fa oggi, può farlo domani”.

Queste parole le trovai molto interessanti e ogni tanto mi ritornano in mente, quando mi capita di pensare ad una Mamma, ad una donna speciale che era la Regina Elena. L’otto gennaio 2025 sono trascorsi 152 anni dalla sua nascita. Il cielo che la vide venire al mondo era Cettigne, in  Montenegro, figlia del Re Nicola I. Si dedicò con abnegazione alla sua famiglia e nel soccorrere coloro che erano bisognosi, orfani ed indigenti.

Dove c’era dolore e sconforto Ella arrivava come consolatrice. Nei suoi quarantasei anni di regno ha seminato il bene e soltanto il bene. Ella era solita dire che una giornata non era passata inutilmente solo quando lasciava una scia di bene. Basti ricordare quando trasformò le lussuose stanze del Quirinale in un ospedale per ricoverare migliaia di feriti della Grande Guerra.

Ella stessa si prodigava nel curarli e nell’infondere speranza, e voglia di vivere. Fu anche la fondatrice della Scuola per infermiere “Regina Elena, trasmettendo alle giovani il compito di essere preparate non solo professionalmente, ma anche d’essere vicine con affetto e tenerezza ai degenti. Nel 28 dicembre 1908, le città di Messina e Reggio Calabria furono gravemente lesionate da un terribile sisma.

Anche in quell’occasione la Regina Elena era presente, vestita con umili panni e un cappello per non essere riconosciuta, per portare aiuto e consolazione tra i feriti. Il Giornale d’Italia del 1909 la definì: “ Suora di dolce conforto”.

L’8 gennaio, giorno del suo compleanno, il Nobel Guglielmo Marconi Le telegrafò la seguente frase: “Unanime l’augurio che Dio conservi lungamente all’Italia la Regina.”

Lo scorso anno si è parlato molto della possibile Beatificazione della Regina Elena che da anni é stata proclamata Serva di Dio. In questo nuovo anno si riaccende la speranza che la Regina possa finalmente essere innalzata agli onori degli altari.

La Sovrana può essere considerata la Mamma di tutti gli italiani, l’angelo del focolare a cui rivolgersi come esempio. Alcuni giorni fa,  in un capitello che è localizzato a poca distanza dal posto dove abito,  a Motta di Livenza , qualcuno nella notte di Natale ha messo dei fiori davanti alla sua immagine, che la ritrae con il volto sorridente vestita da crocerossina.  

Viene ricordata la sua figura che si prodigava nel soccorrere e confortare tutti i soldati feriti  nella Grande Guerra. In un libro che uscirà a breve trovai una testimonianza di una suora che raccontava della sua vita spirituale : “ Nel 1914, entra tra le suore Dorotee dei Sacri Cuori, a Vicenza. Divenuta Suor Edmonda ; brava infermiera , viene inviata tra i ciechi di guerra a Roma, vicino al Palazzo Reale del Quirinale.

In questo campo di lavoro, ha modo di incontrare la Regina Elena che spesso, accompagna le figlie maggiori,  Iolanda e Mafalda, in quell’ambiente “ perché imparino a vivere “.  La Regina Elena avendo saputo che Suor  Edmonda aveva una sorellina di nome Elena, le regalò una graziosa bambola di porcellana. Anche la principessa Iolanda in occasione del suo matrimonio, le offrì una bomboniera di grossi confetti”. 

Qualche anno dopo la bambina a cui fu donata una bambola di porcellana a 15 anni partì per Roma ed entrò nell’Istituto delle suore della Santa Famiglia di Bordeaux.  Questa è una della tante storie che si ricordano ancora, a dimostrazione che il bene fatto dalla Regina non verrà mai dimenticato.

Alla morte della Sovrana, in terra di Francia, migliaia di persone parteciparono ai suoi funerali. Era gente umile che aveva constatato che la Regina Elena aveva un cuore davvero grande. Ripenso alle parole che disse Vitalino Brancati: “L’anima è eterna, e quello che non fai oggi, puoi farlo domani.”


3 gennaio 1925 un sussulto della Grande Guerra



di Aldo A. Mola

Grande Guerra, militarizzazione...

I cantastorie raccontano che con il discorso del 3 gennaio 1925 Benito Mussolini «soppresse la democrazia per istituire la dittatura fascista in Italia». Lo ha ripetuto Antonio Scurati in “la Repubblica”, in occasione del centenario. Il suo primo volume della serie “M” (cioè Mussolini “figlio del secolo”) ebbe il pregio di dire la verità scomoda, ma non ne trasse la somma: il duce del fascismo era l’effetto, non la causa, della Grande Guerra sul corpo degli italiani.

   La militarizzazione di cinque milioni e mezzo di maschi, rinserrati per anni tra prima linea e retrovie per la riorganizzazione dei reparti falcidiati negli attacchi frontali, e quella, parallela, delle donne addette alla produzione bellica nelle fabbriche “ausiliarie”, a loro volta in stato di guerra, che equiparava gli scioperi al tradimento della patria e li puniva con pene severissime, avevano già introdotto nel Paese un regime di fatto. La vita quotidiana, dalle “zone di guerra” alle regioni popolate di manifatture e industrie metalmeccaniche, cinghia di trasmissione tra fronte interno e linee di combattimento, in pochi anni avevano creato un'Italia diversa da quella vagheggiata nel primo quindicennio del Novecento, contrassegnata da moltitudini di scioperi economici, miglioramenti retributivi, anche nelle campagne, e crescita civile, suggellata dal conferimento del diritto di voto a tutti i maschi che avessero prestato servizio militare, benché analfabeti. Il fautore di quella riforma altamente politico-patriottica, Giovanni Giolitti, aveva osservato che chi aveva messo la vita a disposizione dello Stato aveva acquisito diritti politici al pari degli “intellettuali” che propugnavano la più grande Italia, impegnata nella colonizzazione interna e nella conquista di spazi Oltremare. Tra costoro, alla dichiarazione di guerra dell'Italia contro l'impero turco-ottomano per il dominio sulla Libia, il mite Giovanni Pascoli scrisse che “la grande proletaria si era mossa” e ne cantò le legioni. Altrettanto fece Giacomo Puccini che nel 1918 musicò l'Inno a Roma di Fausto Salvatori per la vittoria sugli Imperi Centrali, con i famosi versi «Tu non vedrai alcuna cosa al mondo maggior di Roma». Non era certo fascismo e neppure nazionalismo, bensì la giustificazione dell'unità nazionale e, al tempo stesso, la celebrazione della “missione” della Nuova Italia che, per avere il suo posto nel mondo, doveva essere essere in continuità con l'Antica Roma. Del resto, negli stessi anni, la Germania erigeva il monumento ad Arminio, distruttore delle legioni di Augusto, e la Francia s’identificava con la “beata” Giovanna d’Arco, fiera nemica degli inglesi, pur apprestandosi a combattere a fianco di costoro contro i tedeschi, spregiativamente detti “boches”.

...e trauma psicologico di massa.

In pochi anni, tra il 1917 e le “paci” del 1919-1923, non si rimescolarono solo i confini degli Stati, con la caduta di quattro imperi (russo, germanico, austro-ungarico e turco-ottomano) e con la nascita di un mondo nuovo sul quale s'affacciarono gli affaristi degli Stati Uniti d'America e del Giappone, che ebbe mano libera nell'Estremo Oriente. Accadde di più: l'avvento di una generazione che aveva appreso a convivere con la morte: non quella degli “eroi” caduti in combattimento, ma quella dei corpi abbandonati, difficili da recuperare all'indomani della battaglia, rimasti spesso senza croce, talvolta non identificabili perché nel vortice del combattimento avevano perduto la “piastrina”. Vennero poi tutti sublimati nel Milite Ignoto, la più partecipata cerimonia della storia italiana, celebrata dal re quale sommo sacerdote dell'Unità nazionale.

   La trasformazione delle coscienze (percepita da un prete che arrivava da studi di medicina e psicologia, quale Agostino Gemelli) investì anche il mondo femminile: quello delle fabbriche, ove la promiscuità introdusse pratiche un tempo considerate sconvenienti, e quello delle campagne, ove le donne svolsero i compiti dei mariti, risucchiati per mesi e anni dalla “città militare”, completa dei bordelli dai quali uscivano svezzati a costumi un tempo “colpevoli” ma ormai consueti, come convenivano il vescovo castrense Angelo Bartolomasi e padre Giovanni Semeria, fotografato con Gabriele d'Annunzio e alti ufficiali in colloqui nei quali si plasmava l'uomo nuovo, dalla “moralità” profondamente diversa rispetto all'anteguerra.

   Il libro di Scurati, alla pubblicazione, fu subissato di critiche severe da parte di storici che ne evidenziarono sbagli, errori e incongruenze. L’autore si difese opponendo che la sua non era opera di storia ma romanzo. Sennonché il romanzo ha il dovere e il pregio di interpretare lo “spirito del tempo”. Lui lo ridusse al “caso Mussolini”, mentre il dramma della Grande Guerra riguardò la miriade di italiani che avevano combattuto in condizioni estreme. Era il caso degli “arditi”, con le “fiamme nere” sul bavero, “avanguardia di morte”, guerrieri democraticamente votati a dare morte, perché quello è il compito, l'abito morale, del milite. Con chi si schieravano le migliaia di cappellani assegnati alle truppe? Con l'esercito combattente del loro Paese, fatalmente in lotta contro quelli nemici, in una guerra feroce, senza quartiere, proiettata nel tempo sino al completo esaurimento delle risorse dello Stato, verso una pace che coincideva con la disfatta della propria civiltà, come appunto avvenne sulla fine del 1918 quando i vinti caddero per fame e ormai incalzava l'epidemia di febbre spagnola, vincitrice suprema su tutti.

   Da lì arrivava la divaricazione fra la dirigenza politica d'anteguerra, usa a ritmi ormai arcaici, e il Paese che esigeva immediate e profonde riforme. Non solo diritto di voto per tutti (donne comprese), ma riconoscimento del contributo dato alla Vittoria, da tradursi immediatamente in trattamento economico e condizioni sociali “da vincitori”. “Terra ai contadini” e compartecipazione alla proprietà delle fabbriche o almeno della loro direzione e degli utili furono rivendicazioni ricorrenti in tutta Europa. Quella svolta epocale fu subito chiara agli scrittori nati in trincea, come Giuseppe Ungaretti, o a quanti descrissero la biblica “fornace ardente” dei combattimenti e i suoi riflessi permanenti sulla psiche dei milioni di sopravvissuti. Scurati, invece, stigmatizzò Mussolini, uno dei tanti. Uno che tuttavia, piaccia o meno, dalla primavera del 1919 si fece portavoce e interprete della necessità di una svolta radicale.

 

Mussolini in campo: dal marzo 1919...

All'adunata di Piazza San Sepolcro a Milano (23 marzo 1919), dalla quale viene datato il fascismo, parteciparono ebrei, massoni, ex ufficiali, professionisti, “intellettuali”, i cui esponenti apicali si presentarono alle elezioni del 16 novembre 1919. La pattuglia capitanata da Benito Mussolini comprese nomi da ricordare per capire: Filippo Tommaso Marinetti, capofila del Futurismo, Enzo Ferrari, Cristoforo Baseggio (massone), Guido Podrecca, anticlericale d'assalto, Arturo Toscanini, “maestro di musica” già famoso e futuro antifascista irriducibile, Agostino Lanzillo, economista d'avanguardia, e Amleto Galimberti, “operaio metallurgico”. La lista andò incontro a un fiasco solenne ma ebbe la simpatia di Guglielmo Marconi.

  A un secolo dal Discorso del 3 gennaio 1925 è necessario, finalmente, passare dalle narrazioni ai fatti e ai documenti. Contrariamente a quanto è stato e viene ripetuto (anche da Antonio Carioti nel “Corriere della Sera”), con esso Mussolini non ammise affatto la responsabilità del rapimento e della morte di Giacomo Matteotti (peraltro in circostanze mai del tutto chiarite, neppure nel profluvio di libri usciti nel suo centenario). A riguardo Mussolini fu molto netto. Aprì l'intervento richiamando il suo primo discorso da presidente del Consiglio, il 16 novembre 1922, quando alla Camera aveva avuto la fiducia non solo di fascisti e nazionalisti ma anche di demosociali, liberali e dei popolari, tutti presenti al governo con loro esponenti, incluso il giolittiano Rossi di Montelera. Di seguito domandò “formalmente” se nella Camera o fuori di essa qualcuno voleva valersi dell'articolo 47 dello Statuto, in forza del quale «la Camera dei deputati ha il diritto di accusare ministri del re e di tradurli dinanzi all'Alta corte di giustizia», come era accaduto in passato. Respinse l'addebito di aver fondato una Ceka, cioè una polizia segreta per compiere delitti politici, come quella, aggiunse, che nella Russia sovietica «aveva giustiziato senza processo dalle 150.000 alle 160.000 persone». Per lui la violenza («che non può essere espulsa dalla storia», come affermò anche Benedetto Croce nelle sue opere) «per essere risolutiva deve essere chirurgica, intelligente e cavalleresca». Ora le gesta «di questa sedicente Ceka [lì ne ammise implicitamente l'esistenza, senza confessarne la paternità, NdA] sono state sempre inintelligenti, incomposte e stupide». Si riferiva alle «aggressioni minori» ai danni di Alfredo Misuri e Cesare Forni, picchiati selvaggiamente perché fascisti “dissidenti”. Rievocò poi l'inaugurazione della legislatura e il suo discorso del 7 giugno 1924, nel quale disse che le opposizioni avrebbero potuto «sorpassare il fascismo come esperienza storica» e ottenne un «successo clamoroso», come riconosciuto dalle opposizioni stesse. Senza nominare Matteotti, Mussolini domandò poi, riferendosi all’«atmosfera idilliaca» creatasi nella Camera a seguito del suo intervento: «Come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, di far commettere non dico un delitto ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell'avversario che io stimavo perché aveva una certa “crânerie”, un certo coraggio, che rassomigliavano al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le tesi?»

   Mussolini, dunque, non solo non ammise affatto, ma respinse nettamente l'imputazione di essere il mandante del rapimento e della morte del segretario del Partito socialista unitario. Molto oltre confutò invece l'affermazione che il fascismo fosse «un’orda di barbari accampati nella Nazione ed un movimento di banditi e di predoni» (o una banda di delinquenti, come ha scritto il giornalista Aldo Cazzullo in un libro del 2022, centenario della mai avvenuta “marcia su Roma”). «Ma poi, o signori, – proseguì Mussolini andando al punto – quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di Tito? Ebbene, io dichiaro qui al cospetto di questa assemblea ed al cospetto di tutto il popolo italiano che assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano a impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda…»

La lunga marcia verso il regime

   Nel volgere di un anno, fra il 3 gennaio 1925 e il 31 gennaio 1926 l'assetto formale dello Stato mutò, con ritmo accelerato, nella direzione vaticinata dalle consultazioni elettorali del novembre 1919, maggio 1921 e aprile 1924. A quel processo parteciparono attivamente i protagonisti della “rivoluzione” accorpati nel Gran Consiglio, popolato di giovani e giovanissimi: lo squadrista Italo Balbo, massone, poco più che ventenne, il politico Dino Grandi, Giovanni Giuriati, nazionalista, Aldo Finzi, il borghese fidatissimo di Mussolini, poi suppliziato alle Ardeatine, Giuseppe Bastianini, massone come Giacomo Acerbo, Roberto Farinacci, “ras” di Cremona, Francesco Giunta, Achille Starace, Giovanni Marinelli, Alessandro Dudan, Edmondo Rossoni, segretario dei sindacati fascisti, Cesare Rossi, capo ufficio stampa del ministero dell'Interno, retto da Mussolini in persona ed Ernesto Civelli (iniziato alla Gran Loggia), intendente generale della Marcia con il “fratello” Gaetano Postiglione . Era la “cupola” del “movimento” ancora lontanissimo dall'essere partito di massa, ma già proiettato a disegnare lo Stato fascista, soprattutto con l'ingresso di Alfredo Rocco (“invitato” nell'aprile 1925), che poi vi entrò a vele spiegate per dare forma al regime, tra introduzione della pena di morte per i reati contro lo Stato, istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, riforma elettorale e costituzionalizzazione del Gran Consiglio.

   I partiti d'opposizione, o quanto ne rimaneva, dall'indomani dell’“affare Matteotti” scelsero di astenersi dall'Aula, di arroccarsi su un immaginario “Aventino” (considerato dagli studiosi non prevenuti, come Sandro Rogari, il suicidio della democrazia parlamentare), così celebrando la conclusione del decennio di dimostrata impotenza a cospetto dei mutamenti politici in atto. Partiti e sindacati “di sinistra” erano risultati assenti dalla scena nei momenti cruciali di quel periodo: nel maggio 1915, quando si trattava di fermare la corsa verso l'intervento nella Grande Guerra; nell'ottobre 1922, a fronte dell’“insurrezione” delle squadre fasciste, ancora minoritarie nel Paese, contro l'Esercito e i poteri istituzionali, che quei partiti non vollero né seppero difendere, avendoli essi stessi sempre osteggiati e auspicandone il crollo traumatico quale parte del loro stesso piano di guerra; nell'estate 1924, infine, allorché l'opposizione si ridusse ad alimentare la “questione morale”, liquidata sarcasticamente da Mussolini nel discorso del 3 gennaio.

   Il punto di arrivo di quel processo furono le cd. “leggi fascistissime”. Tra queste spicca la «regolarizzazione dell'attività delle associazioni e dell'appartenenza alle medesime del personale dipendente dallo Stato» (legge 26 novembre 1925, n. 2029), precorsa di pochi giorni dall’autoscioglimento delle logge del Grande Oriente d'Italia e della Serenissima Gran Loggia d'Italia, ovvero dal crollo verticale dell'unica organizzazione elitaria della borghesia riformistica, con un piede nell'Ordine e uno nella rivoluzione permanente, con tendenza repubblicana.

   Furono inoltre ridefinite le «attribuzioni e prerogative del capo del governo» (legge 24 dicembre 1925, n. 2263): non più presidente del Consiglio, “primus inter pares”, come era stato da Camillo Cavour a Giolitti, ma primo ministro capo del governo con facoltà di riproporre al Parlamento le leggi bocciate da una Camera e di farle votare. Nelle cerimonie ufficiali il capo del governo ebbe la precedenza sui Cavalieri dell'Ordine Supremo della SS. Annunziata, “cugini del Re” (fra questi figurava Mussolini stesso, cui Vittorio Emanuele III conferì il “collare” dopo l'annessione di Fiume all'Italia, in applicazione della regola non scritta secondo cui l’onorificenza spettava agli statisti che procuravano l'ingrandimento del territorio nazionale).

   A coronare il processo di riforma fu infine la legge 31 gennaio 1926, n. 100 sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, previa deliberazione del Consiglio dei ministri e udito il parere del Consiglio di Stato: vera e propria sostituzione del Parlamento, relegato in posizione secondaria e sussidiaria nella formazione delle leggi.

   Quelle norme, coordinate in un progetto coerente, furono liberticide ma al tempo stesso ottennero il consenso dell'elettorato, certificato nelle elezioni del 29 marzo 1929. Esse vennero varate nel corso dell'Anno Santo 1925, tuttora da studiare nei suoi molteplici aspetti e ripercussioni. Il minimo che se ne può dire in questa sede è che il Giubileo di papa Pio X coincise con la liquidazione del poco che rimaneva del Partito popolare italiano, del quale la Santa Sede non aveva mai sentito bisogno, con il severo monito al clero di astenersi da questioni politiche e con la facoltà conferita ai vescovi di assolvere i massoni dalla scomunica loro comminata dal Codice di diritto canonico del 1917.

 

Il Re isolato

E il Re? Prese atto della volontà popolare espressa dalla Camera elettiva e dal Senato popolato di a-fascisti e, ancora, da antifascisti dichiarati. Sovrano scrupolosamente costituzionale, Vittorio Emanuele III non poteva non sanzionare e promulgare leggi approvate dalle Camere che, egli confidò a chi gli chiedeva di “scendere in campo” contro il governo, erano i suoi occhi e i suoi orecchi. Per farlo gli occorreva un voto parlamentare di sfiducia verso l'esecutivo o almeno un suo robusto pronunciamento in Aula. Ma ormai l'opposizione era svanita, in parte di sua stessa iniziativa, in parte perché dichiarata decaduta per assenza ingiustificata.

   Quale fosse allora il clima del Paese venne poi scritto nella voce “Italia” dell'Enciclopedia Italiana diretta da Giovanni Gentile, pubblicata nel 1933, scritta da Alberto Maria Ghisalberti, all'epoca incaricato di storia contemporanea all'Università “La Sapienza” di Roma  futuro presidente dell'Istituto per la storia del Risorgimento italiano. Dopo il 1922, essa recita, “l'ardua fatica, sulla quale il Duce aveva invocato l'aiuto di Dio, s’iniziava. Ordine, lavoro e disciplina venivano dati alla nazione turbata, s’«inquadrava» e si rafforzava lo stato, si dotava la rivoluzione di uno strumento armato, la milizia, si ricostituivano le forze militari, si affrontava in pieno l'assillante problema del riassestamento economico e finanziario. Sin dal primo tempo venivano migliorati i servizi pubblici, specie il ferroviario, attuata una politica marinara di vasto respiro, gettate le basi di un radicale riordinamento scolastico, iniziato il risanamento della moneta, bandita (autunno 1925) la battaglia del grano, che ha permesso l’affrancamento dai mercati stranieri, cominciate e condotte a termine centinaia di iniziative in tutti i campi, per le quali ci sarebbero voluti decenni sotto i passati regimi […]. Tramontata per sempre la concezione demoliberale, lo stato si è ordinato su basi corporative. […] E quando la violenza di alcuni dissennati in un cupo episodio di passione partigiana soppresse un deputato di opposizione [Giacomo Matteotti, NdA], i rappresentanti di questa ne vollero far responsabile il fascismo e i suoi capi con una campagna di denigrazione senza esempio e senza limiti. Ma la “secessione dell’Aventino” fu stroncata dal memorabile discorso del Duce del 3 gennaio 1925 e, superata l’artificiosa questione morale, il fascismo riprese il suo cammino vittorioso. E il popolo fu con lui, come attestarono le elezioni plebiscitarie del 1929 e il grandioso e pur controllato accrescersi di iscritti al partito e alle sue organizzazioni.» Quest'ultimo avvenne col favore, ma Ghisalberti non lo scrisse, del giuramento obbligatorio di fedeltà al duce oltre che al Re e con l'obbligo della tessera del PNF per adire i concorsi e gli uffici pubblici. Era la “tessera del pane”, bene accetta dalle moltitudini alle quali poco importavano la “dottrina” e la “mistica” fascista, purché si stesse meglio e non si corressero rischi di nuove guerre sui confini d'Italia. Quando una ne venne, catastrofica, il regime crollò: su decisione non degli “antifascisti” ma di Vittorio Emanuele III, che il 25 luglio 1943 revocò Mussolini e lo sostituì con Pietro Badoglio.

 

Aldo A Mola

 

DIDASCALIA: Ritratto a olio di Benito Mussolini, dipinto da Franck O. Salisbury (1927). Il duce, col distintivo del PNF, tiene in mano una carpetta intitolata “Governo”.

INCIPIT. FIAT LUX


DAI  MACCHIAIOLI  AI  FUTURISTI
La Conferenza con immagini,
occasionata dall’80° Anniversario della Morte di Marinetti,
metterà in luce il nesso essenziale tra Scienza e Arte,
Innovazione e Immaginazione,
dai Macchiaioli ai Futuristi, da Volta a Marconi.
Un’epoca tra Otto e Novecento
dove il Processo di Unificazione Nazionale
viaggiava alla Velocità
del Processo di Modernizzazione Tecnologica.
LIBRERIA  HORAFELIX
VIA REGGIO EMILIA, 89   ROMA
GIOVEDI’  23  GENNAIO  2025   ORE 18
INGRESSO  CON  CALICE   FUTURISTA     € 5
INFO E PRENOTAZIONI    338 4714674  

lunedì 6 gennaio 2025

La visita di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena a Treviso

 





Anni fa, mentre passeggiavo sotto ai portici di Portobuffolè, uno dei borghi più belli d’Italia sito in provincia di Treviso, passavo da una bancarella all'altra presa dalla mia passione per le cartoline riguardanti la Reale Casa Savoia. I mercatini dell'antiquariato allora erano un'abitudine domenicale che raramente perdevo, all'epoca era più semplice trovare pezzi di tutto rispetto, con prezzi che variavano a seconda della scena, dell'evento, che fosse viaggiata o no, e anche le parole scritte davanti o sul retro facevano la differenza. Alcune infatti sono la testimonianza di vite passate e sentimenti che sembrano ancora emanare tutta la loro energia, altre attestano invece fatti storici e visite che i Reali facevano presso ogni città d'Italia.

Una domenica mi imbattei in qualcosa di diverso, quel pomeriggio fui folgorata da due manifesti datati 1903 e che annunziavano l'uno l'arrivo di Re Vittorio Emanuele III e della Regina Elena a Treviso e l'altro la loro partenza. Ovvio che non me li feci sfuggire.

La misura dei manifesti purtroppo imponeva qualche piega ma nulla, neanche lo scorrere dei decenni, ha intaccato la ricchezza di linguaggio e la ricercatezza di parole con le quali i Reali furono omaggiati dalle autorità locali.

L'arrivo era indicato precisamente fin nell'orario, le 17:35 del 27 agosto 1903, e un moto di profonda gratitudine annunciava con giubilo alla cittadinanza l'arrivo dei Savoia nel capoluogo della Marca.

Vittorio Emanuele III vi giungeva per sovraintendere le grandi manovre che all'epoca si svolsero in Veneto.

La loro venuta nella città veneta sembrava destare uno spirito patriottico, parlava di avvenire e aspirazioni, parole alle quali ahimè attualmente non facciamo più riferimento. E tutto poi finiva nella gioia di accogliere la Regina Elena, vista come "luce di grazia e beltà" che coronava nobilmente, sia d'aspetto che in sentimenti, questo soggiorno reale a Treviso.

Altresì chiare sono le emozioni che traspaiono dal manifesto di commiato datato 7 settembre 1903, un fiume di riconoscenza immortala nel testo tutto l’affetto con cui l'allora amministrazione comunale scrisse con enfasi i manifesti. Di certo il Re aveva palesato la sua ammirazione per la città e la cittadinanza tanto da lasciare in dono una somma destinata in beneficenza a Istituti "visitati o segnalati per speciali ragioni".

La gratitudine era reciproca, da come si evince leggendo lo storico documento, e si intuisce quanto fossero condivisi questi sentimenti tra il Re e la Regina, quest'ultima sempre pronta a porgere la mano verso il prossimo e lenire sofferenze con la sua materna presenza.

Non sappiamo di certo quali emozioni abbia suscitato nella coppia reale questo soggiorno trevigiano, di certo la nobiltà d'animo della Regina Elena avrà propiziato qualche visita alle persone più bisognose a cui Ella amava andare incontro. Il suo cuore caritatevole emergeva ovunque, la sua sensibilità avrà scorto il più invisibile degli uomini suggerendo al suo amato consorte questo ennesimo slancio di generosità che in lei si materializzava come presenza, si sentiva la mamma di tutti il suo popolo.




Il lascito aveva una valenza economica sicuramente efficace, ma superiore era l'immensa eredità che i cuori della coppia regale lasciarono sicuramente anche a Treviso.

Piego accuratamente i manifesti, un po' spiace riporli in un cassetto perché tra quelle frasi che apparentemente appaiono di circostanza si cela un mondo a noi oggi sconosciuto, uno spirito che parla di Patria e gratitudine e fa sentire l'eco lontana di un’appartenenza alla comunità che attualmente si disperde in un'apparente affermazione di Stato che risulta fioca rispetto all’essere Patria. Etimo quasi ignoto quest’ultimo , la sua scomparsa contribuisce a far scordare le nostre radici, la tradizione, il sentirsi appartenenti ad una comunità che vorrebbe ritrovare sé stessa e il suo spirito, audace e allo stesso tempo solidale. E mentre immagino questa copia regale attraversare elegantemente piazza dei Signori penso alle sensazioni degli stessi, alla realtà toccata con mano, alle necessità alle quali la Regina non si sottrasse, lasciando con il consorte il tenero ricordo del suo passaggio. Come fosse una di quelle poesie che lei vergava da ragazza con entusiasmo e stupore. La farfalla azzurra non aveva smesso di volare e credo che le sue ali amino riempire l'aria della sua Patria di ogni bene, proteggendo la sua amata gente. Ella sapeva unire l'amore per la bellezza alla carità, e questa grazia sottile e sublime traspare anche da questi manifesti che conservo come fossero parte di me, ricordandomi un mondo vicino e lontano, scordato ma vivo, accantonato ma mai vinto.

 

Ecco, mentre i miei occhi scorrono tra queste frasi, io immagino la raffinatezza di un'anima nobile che ha solcato le vie di Treviso a braccetto del suo amato e regale consorte, quando soffiava la brezza di ideali e di valori oramai sfumati all’ombra di effimeri slogan senza anima né di forti principi. La Regina Elena li incarnava tutti, con assoluta grazia e maestria, vivendo per amare. Questo la rese nobile, illustre ed esempio di generosità e carità. Ecco, Ella rifulge anche da questi due manifesti che ci riportano ad un passato che respira tra le parole scelte con accuratezza, per incorniciare un evento che all'epoca coinvolse la cittadinanza nella gioia di accogliere la coppia Reale e di sentirsi uniti alla propria Patria.

 

Monia Pin