Siete cortesemente invitati a un Nostro
Incontro di Studio e di Ricerca
dedicato al Patrimonio Storico Italiano,
con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.
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Siete cortesemente invitati a un Nostro
Incontro di Studio e di Ricerca
dedicato al Patrimonio Storico Italiano,
con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.
L'ESPANSIONE COLONIALE.
Il successore di Vittorio Emanuele Il, Umberto I, sali al trono paterno riaffermando i motivi conduttori della politica di alleanza con gli ispiratori del risorgimento e delle libertà statuarie. Ormai il regno d'Italia era cosa compiuta, si trattava di rafforzarlo e soprattut
to di affrontare quei gravi
problemi che i tempi ponevano all’ attenzione dei governi.
Il rapido svolgersi degli
avvenimenti, non aveva dato tempo a vittorio Emanuele di maturare taluni
aspetti del processo di unificazione durante il quale alla vecchia classe
dirigente subalpina si era a poco a poco sostituito un coacervo di individui e
di indirizzi i cui fini non sempre coincidevano con i dettami della politica
sabauda, e l'astensione dei cattolici dalla vita politica togliendo al trono
quello che avrebbe potuto rappresentare un valido sostegno, rafforzava la
necessità di stringersi alle correnti moderate contro coloro che nel
risorgimento avevano perseguito più un ideale rivoluzionario che una meta di potenziamento
nazionale. Insomma necessitava una revisione di atteggiamenti, che non avevano
più ragione di sussistere e che a lungo andare avrebbero potuto rivelarsi
estremamente pericolosi, per portare l'Italia fuori dell'isolamento politico in
cui si era ridotta. Questi fini furono raggiunti con la prima adesione alla
Triplice Alleanza stretta fra Austria, Italia e Germania.
Opportuna sembrava anche
un'espansione coloniale in Africa, anche per controbilanciare l'influenza
francese nel Mediterraneo e nel 1885 l'Italia occupava il suo primo territorio
africano: Massaua sul Mar Rosso; si tentò in seguito di approfittare dello
stato di confusione
generatosi in Abissinia per la
successione del Negus Giovanni e il ministro Crispi riuscì ad estendere
l'occupazione all'altopiano di Keren e di Asmara e successivamente a firmare
col potente Menelik il trattato di Uccialli con cui questo accettava il
protettorato italiano; altre concessioni si ottennero da piccoli sovrani locali
e nacque così la Colonia Eritrea, primo successo della politica coloniale
italiana.
La situazione interna non era
però tranquilla, i primi moti italiani a carattere socialista cominciavano a
manifestarsi dove le condizioni di vita più disagiate favorivano il malcontento
e la volontà di ribellione delle popolazioni incolte, facile preda della
demagogia e della rivoluzione; in Sicilia sorsero i fasci dei lavoratori nella
fine del 1893 ed il governo dovette ricorrere alla forza, altre manifestazione
si ebbero in Italia e fino a Carrara; il sovversivismo socialista cominciava a
fare i primi proseliti.
Intanto il subdolo Menelik
tentava in Abissinia di sottrarsi ai patti giurati, ribellandosi al
protettorato italiano; il contrasto diplomatico, alternato a scaramuccie
scoppiò presto risolvendosi in una guerra Iniziata con l'occupazione del
territorio dell'infido ras Mangascià, governatore di Tigré, che provocò entro
l'anno, nel dicembre 1895 un assalto di Menelik con centomila guerrieri. Il 7
cadde la piccola colonna di duemila uomini del Maggiore Toselli massacrata sull’Amba
Alagi, poi l'orda sommerse il piccolo presidio del forte di Makallè comandato
dal Maggiore Galliano resistette quaranta giorni, riuscendo a salvare la
situazione. Il governatore, generale Barattieri
che fino ad allora si era
tenuto sulla difensiva
anche per le difficoltà pratiche
che intralciavano le operazioni, spinto dal governo e dall'opinione pubblica
italiana decise l'avanzata per incontrare il nemico ad Adua, il 1 marzo 1896;
la battaglia fu un disastro per le truppe italiane sopraffatte dagli abissini:
duemila furono
i prigionieri, più del doppio i
morti.
• • •
In Italia il ministero Crispi
che l'impresa coloniale
aveva voluta e attuata, cadeva
sotto il peso dell'indignazione pubblica.
•
Il marchese di Rudini successo
al Crispi nel governo concluse la pace rinunciando al Tigre e al protettorato e
restringendo il territorio italiano all'Eritrea.
La sconfitta militare
peggiorava la situazione politica, dall'insuccesso traevano forza i partiti
sovversivi che delle libertà statuarie si servivano nei tentativi di
distruzione dello stato stesso; la rivoluzione si annidava ora nel nord e le
paurose sommosse costrinsero il parlamento ad affidare il governo al generale
Pelloux e a votare delle leggi restrittive delle libertà, ormai convertite in
licenziosi tentativi di sovvertimento politico e sociale; pure le elezioni del
190o portavano il numero dei deputati socialisti da 16 a 33 e fra loro ve ne
erano alcuni a cui l'immunità parlamentare apriva le porte delle galere in cui
i loro delitti li avevano gettati.
Di fronte alla grave
situazione poco potettero le buone intenzioni del Re impedito dai legami
costituzionali a porre rimedio a tanti danni.;
la Monarchia aveva avvinto più
forte a se gli animi dei cittadini, anche per opera della bella e affascinante
Regina Margherita, ma i sovversivi rifugiati sotto le garanzie costituzionali
potevano in pratica portare a compimento indisturbati i loro piani che
provocavano un senso di smarrimento e di disagio nel paese.
Di questo stato di cose fu
vittima Umberto I; già in passato aveva subito due attentati: uno a Napoli nei
primi mesi di regno e uno a Roma nel 1897 e sempre era sfuggito al pugnale dei
sicari. La terza volta la rivoltella dell'anarchico Gaetano Bresci gli fu
fatale, troncando la sua vita a Monza il 29 luglio 1900; come non pochi dei
suoi avi, il Re Buono fu vittima della
rivoluzione. (*)
Il successore e figlio di
Umberto I, Vittorio Emanuele III non credette di reagire con energia
all'ondata. rivoluzionaria che investiva la nazione; pensò che una politica più
rigida avrebbe inasprito gli animi e le situazioni, e preferì non intralciare
l'opera di inserimento delle masse che
i ministri, soprattutto il piemontese Giovanni Giolitti, andavano realizzando.
Le riforme sociali proseguirono, anche se talvolta rappresentarono più che
espressioni di umana comprensione per gli umili, dei pericolosi esperimenti
politici che non raggiunsero il loro scopo di svuotare di contenuto le istanze
delle sinistre socialiste.
Le migliorate condizioni
generali della situazione interna e il prestigio estero, rafforzato dal rinnovo
della triplice alleanza, permisero però il proseguimento dell'espansione
coloniale, che la disfatta di Adua aveva tragicamente e bruscamente troncato.
La breve guerra di tredici mesi, condotta dal settembre del 1911 all'ottobre
del 1912 dall'Italia contro la Turchia si chiuse con il trattato di Losanna per
il quale la Tripolitania e la Cirenaica passarono all'Italia, che dal canto suo
promise di sgombrare le isole del Dodecanneso nel Mare Egeo che erano state
occupate durante le operazioni belliche; in realtà anche per il sopravvenire
della guerra mondiale, in cui la Turchia si trovò contro l'Italia, le isole
Egee non vennero più abbandonate.
Si chiuse così il primo
cinquantennio di vita del regno d'Italia festeggiato con solenni cerimonie e
con la grande esposizione di Torino; molti problemi sembravano risolti e molti
altri avviati a soluzione; la vittoria e la conquista libica rendevano gli
animi fiduciosi in giorni migliori, mentre tutta l'Europa stava per essere
travolta in una terribile tempesta.
(*) La morte di Umberto I
commosse tutta l'Italia ed al grave lutto partecipò anche l'Episcopato che fece
celebrare. ovunque solenni funerali. Famoso restò soprattutto l'atteggiamento
del Vescovo di Cremona, monsignor Geremia Bonomelli che superando gli intralci
posti dalla questione romana, ancora aperta, rese pubblica una preghiera
composta in quella circostanza dalla Regina Margherita non «sottrarre al popolo
religioso un esempio luminosissima di fede, di pietà e di fortezza cristiana, piuttosto
singolare che raro». Il Cardinale Ferrari, Arcivescovo di Milano e parecchi
Vescovi, accorsero a Monza, a benedire dire la Salma, che come quella di
Vittorio Emanuele II fu tumulata con solennissima pompa nella Basilica
del Pantheon, in un monumento costruito in in faccia a quello del Padre della
Patria.
di Aldo A.Mola
Re costituzionale, “per volontà di Dio e per
volontà della Nazione”
Il 14 marzo 1861, con 294 presenti e votanti su
443 membri (neanche due terzi), la Camera dei deputati approvò all'unanimità la
legge, presentata tre giorni prima da Camillo Cavour, presidente del Consiglio
dei ministri, e già sanzionata dal Senato il 26 febbraio precedente, che
recita: «Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e i successori il titolo di
Re d’Italia.» Così nacque il Regno d'Italia. Non di forza propria ma per
partenogenesi arrenotoca. Il sovrano assunse il titolo di re dello Stato sul quale
già regnava. La mattina del 17 marzo, una domenica, Re Vittorio firmò il
decreto, sottoscritto da Cavour e da altri ministri. A Torino e a Firenze
l'evento fu festeggiato con i rituali 101 colpi di cannone. L'indomani la legge
venne pubblicata nella “Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia”: da quel giorno,
a rigor di norma, andrebbe datata la nascita della Nuova Italia. Un mese dopo,
il 17 aprile 1861, la Camera approvò un'altra importante legge, già delibata
dal Senato il 24 marzo: gli atti di governo e ogni atto del sovrano andavano
intestati in nome di Vittorio Emanuele II, «per grazia di Dio e per volontà
della Nazione Re d’Italia». Su 232 presenti i voti favorevoli furono appena
174; i contrari 58.
Il
Regno sabaudo nacque europeo, ma la sua strada fu subito in salita. Dopo
sessant'anni di dominio straniero, prima
napoleonico e poi asburgico, e la lunga gestazione fatta di cospirazioni
settarie (massoni e carbonari), di moti, insurrezioni, repressioni, carcere
duro, supplizi, esilio e di battaglie (con “regolari” e volontari in campo), in
meno di due anni, tra il 1859 e il 1860, nacque un'Italia quasi unita, quasi
indipendente e quasi libera, con un re, Vittorio Emanuele II di Savoia, che se
ne accollò le sorti a cospetto
dell'Europa.
A fine
marzo 1861 Cavour ottenne “alla quasi unanimità” la proclamazione di Roma
capitale d'Italia: un atto di fede nel futuro ma, al tempo stesso, di ostilità
nei confronti di Pio IX. Il papa avrebbe rinunciato pacificamente al potere
temporale o si sarebbe opposto? L'“Italia” sarebbe entrata in Roma senza usare
le armi, come promise Cavour, o a cannonate e fucilate, come poi avvenne il 20
settembre 1870?
Ma chi ti conosce, Italia?
Le partite aperte il 14-18 marzo 1861 erano
dunque molte e molto aggrovigliate.
Lo si
percepì dal gelo della Comunità internazionale di fronte alla proclamazione del
nuovo Regno. Il 27 marzo Emanuele Tapparelli d'Azeglio, ambasciatore a Londra,
fu ricevuto come rappresentante del Re d'Italia. L'anglicana Inghilterra fu
seguita il 30 dalla Svizzera, la terra di Giovanni Calvino, ove i
cantoni cattolici pochi anni prima eran stati debellati da quelli “federali”, e
lo stesso giorno dalla Grecia, ortodossa. Il 13 aprile fu la volta degli Stati
Uniti d'America, tolleranti verso tutti i culti ma senza “religione di Stato” e
avviati alla guerra di secessione. E i Paesi cattolici?
Gran
Bretagna a parte, l'Europa stava a guardare, con circospezione. Molti
attendevano di capire le vere intenzioni di Napoleone III, la cui condotta
verso l'Italia era peggio che ambigua. Nell'aprile 1859 aveva fiancheggiato
Vittorio Emanuele II contro l'impero d'Austria per ingrandire il regno di
Sardegna, ma solo sino a Milano, ove l'imperatore entrò precedendo a cavallo il
sovrano sabaudo. Poi aveva concordato a Villafranca l'armistizio con Francesco
Giuseppe d'Asburgo all'insaputa dell'alleato e di Cavour, che si dimise da
presidente del Consiglio subito dopo uno aspro scontro con il re. A malincuore
Napoleone III aveva consentito l'invasione dei “piemontesi” in Umbria e nelle
Marche («fate, ma fate in fretta» intimò ai “missi” di Vittorio Emanuele II), a
patto che non toccassero il residuo Stato pontificio. Di seguito fece prelevare
da Gaeta, ove era assediato e ormai sconfitto, Francesco II di Borbone,
esponente della dinastia più volte rovesciata dai Bonaparte. Lo fece trasferire
nella Roma di Pio IX. Quali giochi faceva il “fosco figlio di Ortensia”,
carbonaro, rivoluzionario, principe-presidente, vindice della “grandeur” della
Francia eterna?
Solo
il 25 giugno 1861 Napoleone III si rassegnò a riconoscere il Regno d'Italia:
dopo l'imprevedibile morte di Cavour, appena cinquantunenne. Lo fece a denti
stretti, con la lettera del 12 luglio a Vittorio Emanuele II in cui ricordò al
«Signore suo Fratello» che aveva propiziato l' “unione”, non l'“unificazione”
dell'Italia. Per placare il malumore dei francesi, sin dagli accordi di
Plombières con Cavour, nel luglio 1858, egli aveva pattuito l'aiuto contro l'Austria
in cambio della Savoia, geograficamente francese, e del Nizzardo,
geograficamente italiano. E ora? Non aveva mai subordinato la politica alle
gonnelle.
Dai
tempi di Carlo Alberto (1831-1849) il regno di Sardegna aveva allestito
un'ampia ed efficiente rete di diplomatici navigati. Erano quasi tutti di
famiglie aristocratiche, doviziose e fedeli alla Corona, preparati e orgogliosi
del proprio ruolo. Vittorio Emanuele II se ne valse anche per corroborare la
strategia matrimoniale propria delle Case regnanti. La sua era la più antica
d'Europa. Nell'ambito degli accordi con Napoleone III aveva “sacrificato” la
figlia Clotilde, andata in sposa a Carlo Gerolamo Bonaparte, cugino
dell'imperatore, massone, dai costumi non illibati ma politico raffinato.
Un'altra figlia, Maria Pia, sposò il re del Portogallo. Pare che lo sposo
potesse/volesse offrire l'Angola come dono di nozze. Vi si contavano meno di
mille portoghesi. Per Lisbona non era un possedimento irrinunciabile. Sarebbe
stata una base importante per Torino, che aveva relazioni con molti Stati
dell'America meridionale. Ma la Gran Bretagna, che dello Stato lusitano era
tutore da secoli, non gradì e non se ne fece nulla.
Continuando a inanellare riconoscimenti in terre non cattoliche, il 6
luglio 1861 l'Italia ottenne quello dell'Impero turco-ottomano, che voleva dire
porte aperte ai traffici marittimi con il Vicino Oriente e il Mar Nero,
fondamentale per l'importazione di semi di filugello, preziosi per bachicoltura
e manifatture seriche, all'epoca di primaria importanza in Italia. Altrettanto
gratificante fu il riconoscimento da parte dei calvinisti Paesi Bassi
nell'agosto del 1861. Oltre a essere importante commercialmente e
finanziariamente, l'Olanda apriva la strada verso Danimarca e Scandinavia,
Stati luterani.
Dieci
anni dopo, sulla fine del 1870, la strategia matrimoniale di Casa Savoia fece
tutt'uno con la grande politica. “Las Cortes” (Parlamento) di Spagna, su
impulso del generale Prim, massone, offrirono la corona al ventenne Amedeo di
Savoia, duca d'Aosta, fratello di Umberto, erede di quella d'Italia. Dopo
accorate pressioni di suo padre, Vittorio Emanuele II, accettò. Sua moglie,
Maria Vittoria Dal Pozzo della Cisterna (1847-1876), nata in una delle Famiglie
più prestigiose e ricche d'Europa, fece di tutto per farsi amare dagli
spagnoli, tra i quali, però, serpeggiavano repubblicani e anarchici, che
ordirono ripetutamente attentati ai sovrani. Amedeo restituì la corona e a
Madrid nacque la prima Repubblica, che finì male. Sul trono tornò un Borbone. L'unione
italo-spagnola avrebbe cambiato il corso della storia europea all'insegna della
fratellanza dei popoli e della pace tra gli Stati. Fu un'occasione perduta.
Le tre piaghe del nuovo Regno
Il neonato Regno però doveva affrontare
gravissimi problemi interni.
In
primo luogo Pio IX aveva risposto alla spoliazione dei propri domini con la
scomunica maggiore del Re, del governo e di tutta la dirigenza
politico-amministrativa sabauda. Sin dalle “leggi Siccardi” contro i privilegi
del clero (1849), gli ecclesiastici del regno di Sardegna avevano intrapreso
una serrata lotta contro il governo, che aveva risposto in termini altrettanto
fermi. L'arcivescovo di Torino era stato arrestato (il generale Alfonso La
Marmora lo prelevò di persona dal Vescovado), tradotto nel forte di Fenestrelle
ed espulso dallo Stato, benché fosse cavaliere della SS. Annunziata e quindi
“cugino del re”. Per gli acidi articoli sulla vita privata del re, don Giacomo
Margotti era stato pesantemente percosso con un nodoso bastone portato in omaggio
“a chi doveva sapere”. Anche don Giovanni Bosco aveva dovuto fare i conti con
la linea anticlericale del governo. Cavour, infine, aveva fatto decadere
quattro canonici eletti alla camera subalpina, non perché avesse bisogno dei
voti di chi prese il loro posto, bensì per evidenziare la divaricazione tra il
programma suo e quello dei “moderati”, contrari ad aprire contenziosi con la
Santa Sede.
Il
secondo fronte della Nuova Italia fu la guerra contro il “grande brigantaggio”
alimentato nel Mezzogiorno da stranieri (parte per dedizione, altri per denaro)
e dai clericali che si valevano di conventi e chiese quali asilo e per il
rifornimento degli insorgenti. Il governo non esitò a usare mano ferrea, memore
delle compagnie di Santa Fede del cardinale Fabrizio Ruffo e consapevole del
rischio che deflagrasse l'unità nazionale, proclamata ma non ancora radicata.
Non
bastasse, nell'estate 1862 Giuseppe Garibaldi, circonfuso dalla gloria di
liberatore del Mezzogiorno dal dominio borbonico, allestì alla luce del sole e
nell'inerzia del governo, presieduto da Urbano Rattazzi, la spedizione “Roma o
morte”, reclutando volontari con il sostegno della rinascente massoneria
italiana e ottenendo sussidi da quanti, all’estero, avevano conti aperti con
Roma dai lontanissimi tempi delle guerre di religione. Per Garibaldi l'impresa
aveva varie motivazioni. La più esplicita era, appunto, la liberazione di Roma
dal papa-re, restaurato dai francesi dopo il naufragio della Repubblica romana
da lui proclamata nel 1849, molto prima che ci arrivasse Mazzini. Riprendeva
inoltre il cammino interrotto nell'estate del 1860, quando, sconfitti i
borbonici nella battaglia del Volturno, nella quale mostrò doti di autentico
condottiero, si vide tagliare la strada su Roma da Vittorio Emanuele II,
accorso in Campania proprio per imbrigliare una deriva che avrebbe comportato
la sconfessione da parte di Napoleone III. In terzo luogo, ormai morto Cavour,
Garibaldi riproponeva da lontano la disputa sulla cessione del Nizzardo alla
Francia, che per lui costituì una questione aperta sino a quando compì il suo
ultimo viaggio in Sicilia per celebrare il sesto centenario dei “Vespri
siciliani”, dalla valenza smaccatamente antifrancese. Infine intendeva
contrapporre la sua egemonia sulla “sinistra democratica” ai seguaci di
Giuseppe Mazzini, dal quale si era diviso sin da quando aveva assunto la
vicepresidenza della Società Nazionale e che ormai detestava, non solo in
privato, come ostacolo per il coronamento dell'unificazione nazionale.
L'impresa garibaldina rischiò di mettere in discussione la credibilità
del regno quale fattore di stabilità per la precaria “pax europea”, ristabilita
dopo il Quarantotto, la guerra di Crimea e quella franco-piemontese/asburgica
del 1859. Il governo di Torino dovette pertanto intervenire “manu militari” per
“arrestare” (nel duplice senso di fermare e di incarcerare) Garibaldi, per di
più fortuitamente ferito sull'Aspromonte, un mese dopo il prestigioso
riconoscimento del regno da parte dell'impero russo (8 luglio) e del regno di
Prussia (18 luglio).
Una politica estera tra le tempeste
I successi in politica estera non caddero dal
cielo. Erano anche frutto dell'iniziativa personale del re, che, “fons
honorum”, conferiva oculatamente insegne cavalleresche. Particolare rilievo
ebbero i collari della SS. Annunziata assegnati nel 1861 a Carlo XV re di
Svezia e di Norvegia, a Federico VII di Danimarca, ad Abdul-Aziz-Khan, sultano
dell'impero turco (non devotissimo al culto mariano), all'arcivescovo di
Genova, Andrea Charvaz, al consigliere del re del Portogallo, Luigi Antonio
d'Abreu e Lima, ad Augusto, principe di Portogallo: un cammino che proseguì con
lo Scià di Persia, Nasser-Ed Din, e con il bey di Tunisi, Muscir
Mohammed-Es-Sadok… Il 29 marzo 1865 il re conferì il Collare allo sfortunato
Massimiliano d'Asburgo, “imperatore del Messico”. Due anni dopo, il 13 gennaio
1867, fu la volta di Federico Carlo, principe reale di Prussia, e del conte
Ottone di Bismarck Schoenhausen, poi cancelliere dell'Impero di Germania.
Nel
frattempo il regno d'Italia venne riconosciuto dalla Spagna (12 luglio 1865),
ultimo fortilizio borbonico, dai regni di Sassonia e di Baviera (novembre), dal
Brasile, dal Messico e dal Belgio. Nel 1866, il regno sabaudo compì un altro
passo avanti, con l'annessione del Veneto euganeo e di Mantova, città
fortificata d'importanza strategica per l'intera pianura padana, a conclusione
della guerra italo-prussiana/asburgica, importante non solo per l'ingrandimento
territoriale ma anche quale prova della volontà/capacità della nuova e fragile
Italia di entrare nel novero delle grandi potenze con ruolo autonomo rispetto a
Gran Bretagna e Francia, prime fautrici e tutrici della sua nascita
Le
ripercussioni si registrarono nel maggio 1867 con la partecipazione dell'Italia
alla conferenza diplomatica di Londra sulla sorte del ducato di Lussemburgo.
Per la prima volta i suoi rappresentanti sedettero a fianco di quelli
dell'impero austro-ungarico. Fu il punto di arrivo propiziato da diplomatici di
alto livello, cresciuti alla scuola di Cavour: Costantino Nigra, incaricato
d'affari e poi ambasciatore a Parigi, e Isacco Artom. Lo stesso anno, con
l'incontro italo-pontificio avvolto nel necessario riserbo, fu raggiunta
l'intesa di reprimere congiuntamente il brigantaggio che ormai non giovava a
nessuno. Altro premeva sull'orizzonte per l'accreditamento dell'Italia nel
“concerto europeo”: fermare iniziative avventate e destabilizzanti (come la spedizione
garibaldina naufragata a inizio novembre nei pressi di Mentana) e reprimere
atti terroristici, come venne considerato l'attentato messo a segno alla
caserma Serristori in Roma.
Le tre “Esse”: dall'ingresso in Roma al
Mar Rosso
L'annessione della Città Eterna all'Italia
continuò nondimeno a costituire il “porro unum necessarium” di una vasta
schiera di patrioti: non solo mazziniani (ridotti ormai a esigua frangia) e
garibaldini, di molto maggiore consistenza, anche per la mai deposta insegna
“Italia e Vittorio Emanuele”, ma anche di liberali, convinti che senza la
soluzione della “questione romana” il regno sarebbe rimasto incompiuto e quindi
vulnerabile per il groviglio di anticlericalismo e di estremismi di varia
ascrizione. Lo si vide con l'“Anticoncilio” radunato a Napoli il 9 dicembre
1869, in contrapposizione al Concilio ecumenico vaticano inaugurato il giorno
precedente in Roma.
La
soluzione venne dall'esterno, con la terza “s” propizia all’Italia: dopo le
battaglie di Solferino e Sadowa, la sconfitta di Napoleone III a Sedan.
Pressato da Quintino Sella, il governo presieduto da Giovanni Lanza ordinò al
IV corpo dell'Esercito comandato da Raffaele Cadorna di irrompere in Roma con
le armi: una battaglia breve e sanguinosa, che aprì una ferita profonda non
solo tra cattolici e liberali in Italia ma anche in molte capitali. Il Belgio
fu sul punto di ritirare l'ambasciatore da Firenze, ove dal 1865 era stata
trasferita la capitale.
L'avvento della Repubblica a Parigi non modificò la politica estera
della “sorella latina”, venata di diffidenza e di sorda ostilità nei confronti
dell'Italia, considerata ingrata e persino pericolosa. Abbandonato ogni sogno
di ulteriore ingrandimento sul confine orientale, lunghissimo e militarmente
svantaggiato, l'Italia investì per decenni sulle difese a occidente, perché da
lì erano arrivate le “invasioni” negli ultimi secoli.
La
geografia dettava la politica. Perciò, malgrado tutti i guai di casa, la Nuova
Italia dovette imboccare anche la via dell'espansione Oltremare. Sbarrata la
costa meridionale del Mediterraneo dalla Francia, che impose il suo
protettorato sulla Tunisia, si avventurò nel Mar Rosso, in Somalia, si convinse
di rappresentare l'Etiopia. Tutti passi più lunghi della sua gamba, ancora
adolescente, ma coerenti con la scelta compiuta nel maggio 1882: la firma del
trattato difensivo con l'impero austro-ungarico e con quello di Germania, i cui
“kaiser” ostentavano ammirazione, ricambiata, per la terra amata da Federico II
Staufen, “stupor mundi”.
Nella nascita e nei
decenni sino alla conflagrazione europea del 1914 l'Italia ebbe occhiuti
sorveglianti, poi alcuni alleati, ma nessun amico. Dopo secoli di dominio
straniero e di divisioni interne, destinate a durare, imparò a fare da sé.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: L'ingresso in Milano di Napoleone
III e di Vittorio Emanuele II dopo la vittoria di Magenta (4 giugno 1859) sugli
asburgici di Francesco Giuseppe d'Austria (dipinto di G. Bertini). Luigi
Napoleone Bonaparte, imperatore dei francesi col nome di Napoleone III,
carbonaro, cospiratore, arrestato e a lungo detenuto, sognò da Capo di Stato di
restituire alla Francia il ruolo di comprimario della storia europea. Sposò
l'aristocratica spagnola Eugenia di Montijo y Taba. Per l'Italia operò di
concerto con Camillo Cavour e, ancor più, con Vittorio Emanuele II. Più volte
bersaglio di attentati che seminarono morti e feriti, aveva una visione
planetaria del ruolo civile dell'Europa. Mentre combatteva a fianco del
Piemonte contro l'impero d'Austria stava conquistando l'Indocina che per un
secolo fu croce e delizia del colonialismo francese. Immaginò Massimiliano
d'Asburgo, fratello di Francesco Giuseppe d'Austria, suo rivale storico,
imperatore del Messico. Tradito e arrestato, Massimiliano fu fucilato a Querétaro
per ordine di Benito Juárez. Se vittorioso avrebbe cambiato la storia delle
Americhe e, con essa, quella del pianeta. Già allora politici e statisti
lungimiranti pensavano in termini “mondiali”, anziché nazionali e meno ancora
nazionalisti. Non decidevano su impulsi passionali, ma con visioni razionali.
Aldo A. Mola
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Italiano,
con particolare attenzione
alla Storia del Regno d'Italia.
Invito MUSEO ARA
PACIS AUGUSTAE
di Fabio Torriero
Archiviato il viaggio di Stato
in Italia di Re Carlo III, qualche riflessione dobbiamo pur farla. Non si
tratta, infatti, di ricordare la semplice cronaca di un viaggio (da Roma a
Ravenna), che è stato un indubbio successo. E non solo per l’amore che il
sovrano ha per il nostro paese, ma anche e soprattutto per un messaggio
universale che resterà scolpito nella nostra memoria collettiva.
Carlo, durante il lunghissimo
periodo di eterno erede, sembrava un uomo insulso, astratto, privo di
personalità; totalmente emarginato e condizionato dalla leadership pesante,
pressante e carismatica della madre, la regina Elisabetta.
La sua “postura regale” si
limitava a suggestive quanto vuote dissertazioni intellettuali, ambientaliste,
umanitarie, artistiche. Una sorta di fuga dotta dalle incombenze e competenze
pratiche di futuro re.
Per non parlare poi, della
tragica vicenda che lo ha legato al “matrimonio farsa” con Lady D, dove è
uscito con le ossa rotte, apparendo come un padre irresponsabile, ambiguo,
plagiato dalla “strega”, ora regina Camilla, che, al contrario di ogni previsione,
ha avuto il merito di risalire la china mediatica, trasformandosi con
discrezione e compostezza, da dannata a consorte degna di rispetto e
ammirazione pubblica. Della serie, il vero amore (non quello pianificato a
tavolino per ciniche ragioni dinastiche), alla fine vince sempre, come una
bella fiction.
Nel suo viaggio tricolore,
dove politica, cultura, rappresentanza e divertimento, l’hanno fatto da
padroni, Carlo ha ben rappresentato la vocazione europeista del Regno Unito;
una strategia dialogante, conciliante, moderatrice, che gli stessi governi inglesi,
sia laburisti, sia conservatori, non sono mai riusciti a comunicare bene. Sia
per la Brexit, sia per finalità geo-economiche.
Specialmente ora, in una fase
storica estremamente delicata, in cui si odono clamori bellici, si paventano
crisi economiche, finanziarie e migratorie, un “ambasciatore dell’identità”
come lui, è stato un flusso benefico.
Ma la cosa che è emersa nel
suo intelligente, gentile quanto erudito discorso (in parte in italiano), nel
nostro parlamento riunito, è stato lo stile sobrio, elegante che ha saputo
trasmettere.
E non è solo il risultato di
una sua capacità individuale, ma è il Dna stesso della monarchia.
Carlo III, grazie al suo
intervento, tra l’altro molto apprezzato, ha restituito agli italiani, alla
politica e agli osservatori, un dono che stiamo smarrendo: il rispetto della
dialettica parlamentare, la sacralità delle istituzioni, la mistica dello Stato-persona,
l’importanza dei simboli identitari viventi che uniscono le nazioni, oltre le
ideologie e le contrapposizioni.
Tutto in poche ore. Tutto in
una visita. E l’abbraccio della gente, gli applausi sperticati e trasversali
dei parlamentari, accorsi in massa, emozionati, interessati, qualcuno pure con
la cravatta rosso-blu in omaggio ai colori della Corona inglese, hanno
costituito la prova più evidente della “voglia di monarchia in repubblica”, o
quanto meno, del bisogno da noi di una monarchia come quella inglese.
Una tale opzione sarebbe un
buon correttivo e uno deciso stop alla nostra attuale becera politica e
comunicazione politica. Dove regnano non sovrani, che hanno studiato per questa
funzione arbitrale, ma guitti, populisti, spot-man, deputati e senatori volgari,
ignoranti, impreparati. Forse la gente è stanca di risse mediatiche e di slogan
vuoti. Da Trump a Putin, passando per Macron e la Von Der Leyen. E ci siamo
limitati ai generali. I caporali si commentano da soli.
Fonte:
Effetto-Carlo III. Il complesso monarchico della Repubblica. Un messaggio pedagogico » LO_SPECIALE
2) VITTORIO EMANUELE II E LA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA
Duri giorni aspettavano il
nuovo Re di Sardegna e non lieti furono gli inizi del suo regno; il Piemonte
era costretto a subire le condizioni di pace imposte dall'Austria, che il
maresciallo Radetzky aveva dettato nell'incontro di Vignale (*), ma lo Statuto
e le sue istituzioni rappresentative erano riconosciute e confermate. Pure la Camera,
ove i demagoghi tentavano di sfruttare il momento di depressione, recalcitrava
a ratificare la pace con l'Austria, e Vittorio Emanuele II era costretto a
scioglierla, firmando quel proclama di Moncalieri, redatto da Massimo
d'Azeglio, presidente del Consiglio dei ministri, che suonava come grave monito
ai sovvertitori e ai ribelli.
Cominciò così quel decennio di
preparazione, che avrebbe portato alla seconda guerra d'indipendenza e che ebbe
il suo artefice in Camillo Benso di Cavour; il merito principale di Cavour fu
quello di comprendere che il problema della unità italiana avrebbe potuto avere
uno sviluppo soltanto se impostato come problema di politica europea e non
ristretto puramente ad un rapporto bilaterale fra Piemonte ed Austria, e di
aver agito per portarlo di fronte all'attenzione delle potenze. A questo scopo
nel 1855 stipulava a Torino un accordo con Francia e Inghilterra per l'invio di
un corpo di spedizione sardo in Crimea per la guerra che si combatteva contro
la Russia, ed al Congresso di Parigi, che ne segnò la fine, il ministro sardo
potette alfine esporre le rivendicazioni italiane, completando l'opera con un
avvicinamento alla Francia di Napoleone III che avrebbe potuto divenire un
potente alleato.
Il Regno sardo non poteva
agire da solo: aveva bisogno di un alleato e lo trovò nella Francia,
tradizionale avversaria del predominio austriaco, ed in Napoleone III che, trasformatosi
da presidente della repubblica in imperatore, voleva accrescere il prestigio della
Casa unendosi con legami di parentela e di alleanza ad un’antica dinastia
europea; infatti la figlia di Vittorio Emanuele II, la dolce e santa
principessa Clotilde, si sacrificava accettando di sposare il cugino dell'imperatore,
il grossolano e volgare Girolamo Bonaparte, dissoluto e miscredente, ma
Napoleone III s'impegnava ad intervenire in difesa del Regno di Sardegna se
questo fosse stato attaccato dall'Austria (*).
Cominciò allora una sottile
opera di provocazione da parte di Cavour, che fu presto coronata da successo;
l'Austria inviò un ultimatum al Gabinetto sardo perché fossero licenziati i
volontari e ridotto l'esercito, il ministero reagì e l'austriaco Giulay iniziò
le ostilità passando il Ticino a capo di 125.000 uomini. Il 29 aprile 1859, la
guerra comincia, Vittorio Emanuele II è a capo del suo esercito di 90.000
uomini, Napoleone III scende in Italia con 117.000 soldati (*).
I piemontesi riportarono le prime
vittorie a Montebello Vinzaglio e Confienza; dopo la battaglia di Magenta Vittorio Emanuele
e Napoleone entrarono a Milano.
Infine ecco la giornata di Solferino
e S. Martino, 24 giugno 1859, sul campo
sono il Re di Sardegna, l’imperatore dei Francesi e Francesco Giuseppe Imperatore
d’Austria.
La battaglia dura 14 ore
lasciando vincitori i franco-piemontesi. La vittoria della guerra sembrava
ormai vicina, ma Napoleone III all'insaputa dell'alleato firmava con l’imperatore
austriaco l'armistizio di Villafranca; le condizioni del suo impero, dove vivo regnava
il malcontento contro di lui e contro la guerra costrinsero ad affrettare il
ritorno a Parigi.
Vittorio Emanuele II
resistendo alle sollecitazioni di Cavour e tutti coloro che avrebbero voluto
spingerlo ad un colpo di testa, firmò l’armistizio sia pure con riserva e non ebbe
a pentirsene: la Lombardia, che l’Austria cedeva alla Francia, passò sotto lo
scettro sabaudo (*). Durante la guerra si erano intanto sollevate le
popolazioni del ducato di Parma, di Modena, del granducato di Toscana e della
legazione pontificia di Bologna, oltre a talune altre parti dello stato
pontificio. Dopo la pace di Villafranca i commissari regi colà inviati avevano
dovuto dimettersi ma le terre erano restate in armi chiedendo l'annessione al
regno di Sardegna. Cavour, tornato al potere dopo alcuni mesi di ritiro, chiese
ed ottenne da Napoleone III il consenso all'annessione in cambio della
cessione della Savoia e della contea di Nizza alla Francia e i baratti furono
compiuti nei primi mesi del 1860 nonostante che alcune proteste si levassero
in Parlamento, fra cui particolarmente violenta, quella di Garibaldi, nizzardo
di nascita.
Maturava intanto un'altra
impresa, di particolare importanza, la conquista della Sicilia, resa più facile
dalla morte del Re Ferdinando II e dall'ascesa al trono del giovane figlio
Francesco II. (*) Confidando nelle voci di rivolta in Sicilia, una
spedizione comandata da Garibaldi venne allestita con il segretario aiuto del
governo piemontese e 1087 volontari salpavano nel maggio del 1860 da Quarto,
presso Genova, nonostante la riluttanza di Cavour che invano aveva tentato di
dissuadere Garibaldi e di indurre il Re ad impedirgli di partire. La conquista
della Sicilia fu facile e compiuta in poche decine di giorni. Più lunga la conquista
del continente, mentre a Torino si cominciava a guardare con preoccupazione a
Garibaldi che autoproclamatosi dittatore avrebbe potuto anche cedere alle
suggestioni di Mazzini, mai sazio di cospirazioni e di intrighi e proclamare la
repubblica; il 7 settembre Garibaldi entrò a Napoli da cui il giorno prima era
partito Francesco II per chiudersi nella fortezza di Gaeta, il 10 il Governo
Sardo inviava un ultimatum al governo pontificio per ottenere lo scioglimento
dei corpi stranieri al servizio del Papa e il giorno dopo, prima che all'ultimatum
pervenisse una risposta qualsiasi, i soldati invadevano le Marche e l'Umbria
che in meno di un mese cadevano completamente nelle mani piemontesi, senza che
nessuna potenza d'Europa osasse andare oltre le proteste verbali. Vittorio
Emanuele, lasciata Torino il 29 settembre e entrato ad Ancona, il 15 ottobre
passava in territorio napoletano dove si incontrava a Teano con Garibaldi con
il quale entrava a Napoli il 7 novembre. L'esercito volontario garibaldino era
sciolto e la fine della guerra affidata alle truppe regolari; gli ultimi avanzi
della resistenza borbonica caddero ben presto: Gaeta il 13 febbraio 1861, poi Messina
ed infine il 21 marzo la fortezza di Civitella del Tronto. Il 18 Febbraio
veniva inaugurato il primo parlamento italiano, a Torino, e Vittorio Emanuele II
assumeva per sé e per i suoi successori il titolo di Re d'Italia.
All'unità mancavano però
ancora Venezia e soprattutto Roma che avrebbe dovuto essere la capitale e nella
speranza di conquistarle Vittorio Emanuele scese a fianco della Prussia, contro
l'Austria in quella che doveva essere la terza guerra d'indipendenza nel 1866.
Non fu una guerra fortunata per l'Italia che fu battuta a Custoza e a Lissa sul
mare, pure con la mediazione francese alla pace di Vienna, il 3 ottobre
1866, l'Italia ottenne il
Veneto in cambio dello sgombero del Trentino dove i cacciatori delle Alpi al
comando di Garibaldi erano riusciti a penetrare con successo.
Roma era ormai la spina e il
problema centrale del nuovo regno.
Napoleone manteneva ancora
delle truppe in difesa dell'ultimo resto del potere temporale dei Papi e benché
nulla gli sarebbe importato che esso crollasse definitivamente pure era
costretto a perdurare in un atteggiamento prudente per timore del
partito cattolico che in Francia era uno dei puntelli del suo trono e che era
incoraggiato dalla stessa Imperatrice Eugenia. Si era anzi cercato di venire ad
una regolarizzazione del problema con la convenzione del settembre 1865 per la
quale l'Italia si impegnava a non attaccare il territorio romano e ad impedire
anche con la forza ogni attacco contro dl esso; la Francia da parte sua avrebbe
ritirato le sue truppe da Roma entro due anni;
la convenzione sarebbe entrata
in vigore quando l'Italia trasferendo la sua capitale da Torino ad un altro
luogo, avesse dimostrato a tutti i cattolici di rinunciare per sempre a Roma.
In effetti nel 1865 la capitale veniva portata a Firenze, ma restavano in piedi
le pretese su Roma e il progetto di mettervi piede non appena gli eventi lo
avessero permesso; Garibaldi poi dal canto suo anche contro le truppe regolari,
tentò di conquistare la citta con i suoi volontari provocando gli scontri di
Mentana.
L'occasione favorevole si
presentò quando Napoleone III impegnato nella disastrosa guerra
franco-prussiana non potette più seguire le cose di Roma; il 3 settembre 1870
giunse a Firenze la notizia della disfatta napoleonica di Sedan e il 12 le
truppe entrarono nel territorio pontificio. Il mite Pio IX dispose che la
difesa dovesse « unicamente consistere in una protesta, atta a costatare la
violenza, e nulla più » e ordinava al capo delle truppe papali, generale
Kanzler «di aprire le trattative per la resa appena aperta la breccia»; tutto
avvenne quasi senza spargimento di sangue. Nel luglio dell'anno seguente Vittorio
Emanuele II entrava in Roma definitivamente, ponendo sede nel palazzo del
Quirinale.
Vittorio Emanuele II non visse
però a lungo, né potette assistere al consolidamento del processo unitario da
lui portato a compimento; giovane ancora a 58 anni, mori il 9 gennaio 1878 a
Roma, dopo aver ricevuto l'assoluzione dalle censure ecclesiastiche e i
Sacramenti della Religione. Al primo Re d'Italia furono decretati gli onori del
Pantheon, il grande tempio romano che custodisce da allora le tombe dei Sovrani
Sabaudi, e l'appellativo di Padre della Patria.
(*)In tale incontro con il vecchio maresciallo austriaco che amava e ammirava il giovane monarca sardo, Vittorio Emanuele II pronunciò la celebre «Casa Savoia conosce la via dell'esilio, ma non quella del disonore ».
(*) La principessa Clotilde cercò dapprima di resistere, e solo alla fine si piegò alle pressioni di Cavour, che ebbe dal Re l'incarico di parlare alla principessa„ottenendone l'assenso. La grandezza del suo sacrificio si potrà comprendere leggendo gli scritti di due testimoni oculari che presenziarono alle nozze nella cappella della S. Sindone. Il primo, il canonico Gazzelli racconta: «Ma vidi un contrasto simile. Lei avvolta in candidi veli, meno bianchi tuttavia de] suo pallidissimo volto, immersa in profonda orazione in atteggiamento di vittima che si offra al sacrificio. Lui in piedi, con le mani dietro alla schiena alla napoleonica, in aria distratta, stupito di trovarsi in una Chiesa, ammazzando il tempo coll'osservare i monumenti ».
Il Conte Nicolis di Robilant scrisse: « Durante la cerimonia, la distrazione di Lui, dello sposo, era tale che non s'accorse nímmeno della domanda dì consenso rivoltagli dal celebrante Mons. D'Augennes Arcivescovo di Vercelli. L'abate Gazzelli dovette richiamare la sua attenzione e spiegargli di che si trattasse onde ottenere un frettoloso - certainement oui oui - Detto il quale si, il PrmeilY completamente ignaro dei riti della Chiesa si credeva di aver fatto tutto; e stava per ricominciare l'ispezione della cupola del Guarini, maestosa nel suo barocco, quando il canonico Gazzelli dovè richiamare una seconda volta la sua attenzione per la cerimonia dell'unione delle destre e dell'anello». Tuttavia anche vicino ad un marito del genere, Clotilde seppe vivere santamente ed elevarsi al grado eroico delle virtù cristiane
(*) Un grazioso acrostico dell'epoca, venne costruito sulle cifre dell’anno 1859.
Infatti queste cifre (1+8+5+9) fanno 23 composto da lettere iniziali delle seguenti parole: Vittorio Emanuele Napoleone Terzo Italia Tutta Redimeranno Eternamente.
(*) La pace di Villafranca
provocò due violenti scontri fra Vittorio Emanuele e Cavour che avrebbe voluto
che il Re si rifiutasse di accettare la pace. Quella volta il Sovrano mostrò
più sangue freddo e più lungimiranza del suo illustre ministro, resistendo ad
ogni sollecitazione nella certezza che ogni atto inconsulto avrebbe avuto
gravissime conseguenze; della scena un interessante resoconto ci è stato
lasciato dall'amico di Cavour Nigra, che fu presente al colloquio.
(*) Francesco II era figlio di Ferdinando II e della
Venerabile Maria Cristina, figlia di Vittorio Emanuele I di Savoia, morta nel
darlo alla luce. Buono e di animo mite, nel brevissimo regno ondeggiò tra
l'influenza della matrigna Maria Teresa d’Asburgo e quella della moglie Maria Sofia
di Baviera. Dopo la resa di Gaeta si ritirò a Roma, dove visse nello splendido
palazzo Farnese, oggi ambasciata di Francia.
(*) Prima dell'ingresso
ufficiale, Vittorio Emanuele II pose piede in Roma il 30 dicembre 1870 per
soccorrere la città colpita da una violenta inondazione del Tevere. I giornali
dell'epoca fecero grande scalpore intorno a questo avvenimento gli uni
stigmatizzando i riguardi, a loro avviso eccessivi usati dal Re verso Pio IX,
gli altri censurando la venuta del Re come una grave offesa al Papa.
Quando appena ventenne iniziai la mia collezione di cartoline sulla Famiglia Reale dei Savoia fu quasi una risposta ad una curiosità che mia nonna materna, Giuseppina De Conti (classe 1920), mi aveva instillato fin dall’infanzia. Spesso mi raccontava ciò che aveva vissuto fin dai tempi della scuola e in gioventù, avendo ben fisse nella mente date e nomi che mi fecero conoscere una parte della storia d'Italia a me sconosciuta. Mi parlava di Re Vittorio Emanuele III, il Re soldato, dei figli tra i quali naturalmente il Principe Umberto (futuro Re d’Italia), e naturalmente della Regina Elena che lei adorava. Mi descriveva nei minimi particolari l’albero genealogico di Casa Savoia, conosceva a memorie date di nascita, matrimoni e relative discendenze; mi raccontava delle figlie della Regina Elena che seguirono fin dalla giovanissima età le orme materne, sensibili alla sofferenza altrui e prodighe nel confortare gli ammalati e bisognosi.
La mia collezione iniziò in
sordina per conquistarmi rapidamente il cuore, non mancavo adogni appuntamento
domenicale dei mercatini della zona, scartabellando tra album che riservavano
sempre la sorpresa di trovare pezzi interessanti, talvolta particolari e unici,
cartoline che mi catapultavano in pagine di storia relegate irrispettosamente
ai margini del nostro glorioso passato. Ho raccolto oltre 500 cartoline, oltre
a manifesti e libri, che illustrano la storia della Reale Famiglia Savoia dal
1896 fino al periodo dell'esilio. Nella cartolina postale più datata si può
leggere la descrizione precisa che un cittadino fa del passaggio del corteo
nuziale dell’allora Principe Vittorio Emanuele III e della Principessa Elena
del Montenegro. L’ha narrato in un modo talmente entusiasta e con una tale dovizia di particolari da
sentirmi, leggendo, partecipe anch’io di quell’evento, come se avvenisse in
quel preciso istante. E’ in gergo quella che un tempo chiamavano "istant
card", e la considero uno dei pezzi più pregiati e ai quali sono più
legata.
Sfogliare gli album della mia
piccola collezione è come viaggiare nel tempo e mi ha insegnato a conoscere ciò
che i programmi scolastici, ahimè, hanno volutamente ignorato. Dall'evento
funesto che vide Re Umberto I vittima inerme di un vile attentatore, fino alla
preghiera che la Regina Margherita rivolse al suo amato consorte, passando per matrimoni,
visite istituzionali, lutti, inaugurazioni, la guerra Italo-turca, l’accordo
con il presidente francese Émile Loubet , i festeggiamenti delle nascite in
Casa Savoia fino a nuovi matrimoni, il battesimo del Principe Umberto e delle
sorelle e le foto delle famiglie che poi formarono. Potrei proseguire ancora
elencando tutte le immagini che immortalano momenti di vite e di storia che
hanno lasciato segni indelebili nel nostro recente passato e che dovremmo
onorare per il bene che hanno donato all’Italia e ai loro amati concittadini.
Grazie a mia nonna materna ho
imparato quanto una famiglia regnante significasse per un Paese, quel sentirsi
parte di una comunità dove la Famiglia Reale era proprio il perno della società
che vedeva in essa un punto fermo in termini di morali, di unità e di tradizione;
essa impersonava la Patria stessa, la fedeltà, il coraggio e la fede , presenza
che era il fondamento sul quale l’Italia poggiava le sue basi per e al tempo
stesso univa tante anime diverse in un’unica famiglia con un sola bandiera. La
monarchia fu e resta essenziale vista sotto la prospettiva di unità e
appartenenza ad una tradizione cristiana e cattolica, rispettosa di ogni
tradizione nazionale e locale, custode del passato e proprio per questo forte
nel proiettarsi verso l’avvenire, conscia delle potenzialità degli italiani.
Essa è il fuoco di un amor di Patria quasi denigrato oggigiorno e dileggiato da
molti. Ecco, la monarchia potrebbe essere la roccaforte di una rinascita che
dia impulso alla nostra comunità attualmente smarrita, disorientata e orfana di
valori obnubilati da decenni di trascuratezza culturale e materialismo.
È solo un'osservazione
semplice la mia, ma ricordo ancora la voce di mia nonna materna, classe 1920 e
di come parlava con entusiasmo di Casa Savoia, e con il passare degli anni io
ascoltavo con piacere i suoi racconti e contemporaneamente collezionavo
immagini che la riportavano ai tempi della sua infanzia e della sua gioventù. Lei
riportava quasi in vita, narrando, un punto di riferimento che le era poi
mancato, io imparavo e credo fosse quello il suo intento: far sopravvivere
quella sua memora in me. E’ stato uno scambio generazionale costruttivo,
ricostruendo con semplicità una collezione che mi tiene unita ai ricordi dei
miei avi, avendo come filo rosso la storia di Casa Savoia che entra quindi tra
le memorie affettive della mia famiglia così come lo sarà di molte altre
famiglie italiane.
C’era stato poi un evento
nella nostra famiglia. Mia nonna Giuseppina mi raccontava che suo padre (classe
1881) quando era ancora un ragazzo andava spesso a lavorare i campi nella zona
del Cansiglio, dove era nato, e scendendo verso valle aveva incontrato una
comitiva diretta verso il Cadore. Un uomo gentilmente gli chiese
un’informazione ma furono gli illustri passeggeri a rendere quel momento
indimenticabile! Erano il re e la Regina d’Italia. La Regina Margherita e il Re
Umberto I erano infatti assidui frequentatori del Cadore e amanti delle
Dolomiti. Ma nonna rammentava ancora con quanto entusiasmo avesse raccontato
quell’episodio anche a loro, quand’erano piccoli, fiero di aver avuto l’onore
di un tale incontro; un evento che narrò fino alla sua prematura scomparsa.
La Famiglia Reale Savoia teneva
unite nell'abbraccio dell'amore per la Patria ogni famiglia, condividendo gioie
e dolori, nascite e lutti, tradizione e fede. Tutto ciò io l'ho sempre visto
nella figura nobile e umile della Regina Elena e nella sua famiglia, capace di
sopportare l'esilio senza lamentarsi né recriminare diritti, solo amando fino
all'ultimo la propria Patria. Il tempo forse restituirà giustizia e Verità, loro
che come ogni famiglia italiana. Hanno conosciuto sacrifici, gioie,
umiliazioni, dolore, ma anche amore, quello che non è mai mancato loro
rimanendo sempre vivi nel cuore degli italiani.
Questo lo intuisco da ogni cartolina e dalle
parole che hanno viaggiato nel corso di decenni o da più di un secolo tramandando sentimenti
d’affetto e ammirazione, dalle frasi in cui traspariva questo incontro tra
momenti personali ed eventi pubblici, o dimostrazioni di stima verso la Casa
Regnante. Da lì ho compreso quanto la monarchia personifichi quel senso di
unità e simbiosi che i miei nonni conobbero e mia nonna materna mi trasmise.
La mia collezione vorrebbe
evitare che una parte importante della nostra storia italiana cada nell’oblio,
che la memoria di questa Casa Reale non finisca tra le pagone appannate di un
libro dimenticato nel cassetto della storia , ma riviva con lo stesso affetto che
mia nonna materna ebbe per una Famiglia alla quale sentiva di appartenere, passandomi il testimone di questo suo
profondo sentimento di unità, legato ai principi imprescindibili di un tempo che
le sue parole e ogni singola cartolina riescono ancora a raccontare.
Monia Pin
Siete invitati a una Nostra Conferenza, dal Titolo
LINK NOSTRA CONFERENZA
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