NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 28 novembre 2021

La Regina dal cuore gentile

 di Emilio Del Bel Belluz 



Il 28 novembre 1952 moriva in terra d’esilio, a Montpellier, Elena di Savoia, seconda Regina d’Italia, consorte di Re Vittorio Emanuele III e madre di Umberto II, Re d’Italia. Quando si pensa alla Regina Elena viene in mente la figura della madre che si prodigò senza risparmiarsi verso tutti gli italiani e tutto quello che aveva lo dava ai poveri. Basti pensare che nel periodo della Grande Guerra trasformò le sontuose stanze del Palazzo del Quirinale in ospedale militare si mise a curare i feriti, vegliare i  moribondi e lavare i cadaveri.  
Il primo ferito ospitato nell’ospedale della Reggia era un militare bergamasco che venne ricoverato in gravi condizioni, la mattina del 3 agosto del 1915. La Regina si prese cura di quel poveretto come una madre. Lo vegliò giorno e notte, gli teneva la mano, gli asciugava il sudore della  fronte mentre pregava per lui e piangeva in silenzio per non disturbare le sue ultime ore di agonia. Quando morì, fu lei a chiedergli gli occhi, con lo stesso cuore che avrebbe fatto una madre. 
Per la  Sua bontà ineguagliabile  e per la sua abnegazione nei confronti delle persone più sfortunate, Le fu concessa da papa Pio XII, - La Rosa d’oro della Cristianità - e fu nominata “Venerabile”. 
Nel periodo in cui si trovava in esilio, dopo la morte del marito, continuò ad aiutare i poveri attingendo dalle sue sostanze in modo totale, da essere richiamata dal suo amministratore che le fece presente che la sua situazione economica stava diventando difficile. 
Una sentenza antica diceva: “Genitoribus atque magistris, nunquam satis. “ Ai genitori e ai maestri non si rende mai abbastanza”. La Regina Elena si comportò non solo come una madre ma fu un lucido esempio di buona cristiana che aveva donato la sua esistenza al prossimo. Alla sua morte il Papa Pio XII inviò al figlio, S. M. Umberto di Savoia, il seguente telegramma: “Al lutto che ferisce in  Vostra Maestà il cuore di figlio, alla fede che ne consola il dolore uniamo le nostre suppliche alla Divina Misericordia per la eletta defunta Regina Signora della carità benefica ed inviamo per la Maestà Vostra e la Sua Augusta Famiglia la nostra Apostolica Benedizione”. 
Mi auguro che Papa Francesco possa riconoscere il grande percorso umano della Venerabile Regina Elena e il suo ruolo di Madre di tutti gli italiani e possa innalzarla agli onori degli altari.

sabato 27 novembre 2021

Piccola rassegna stampa sui gioielli della Corona depositati alla Banca d'Italia



1899. Il Re a Sassari e la prima sfilata di costumi sardi: così nacque la Cavalcata

 Lo spettacolo clamoroso offerto a Umberto e Margherita in visita nell'isola. Per la Regina è «l'evento più bello e più gradito che mi abbia potuto offrire la Sardegna»

 

ARTICOLO PUBBLICATO IL 21 APRILE 1899

26 NOVEMBRE 2021


Alle 4, di ritorno dal Tedeum, nel Duomo, i Reali vanno al giardino pubblico dove deve sfilare la cavalcata in costumi sardi. 

Gli ampii viali del giardino pubblico sono già affollati, carabinieri e guardie durano fatica a contenere la folla perché resti libero il percorso della cavalcata. 

Anche le adiacenze, specialmente l'emiciclo Garibaldi e la via Carlo Alberto, sono affollati.

Nel giardino pubblico sono due bande, quelle della Scuola di musica e della Società S. Cecilia. Alle 4 precise la fanfara Reale annunzia l'arrivo dei reali con Pelloux, Lacava, la marchesa Villamarina, la marchesa Trotti, il gen. Ponzio Vaglia e tutto il seguito. Sono ricevuti sul palco dal sindaco Mariotti e dal conte d'Ittiri, presidente del comitato dei festeggiamenti.

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I monarchici scendono in campo per il "Made in Italy". "A Natale fate shopping patriottico"


Shopping natalizio Mady in Italia. E’ la campagna lanciata dall’Unione Monarchica Italiana col motto “Compra italiano, sostieni le aziende, sostieni il popolo, sostieni la Patria”. In sostanza, un esplicito invito agli italiani affinché prediligano gli acquisti sotto casa piuttosto che le grandi piattaforme on line.

“Partiamo dal presupposto che in Italia qualsiasi tipo di produzione è una eccellenza - afferma Michele Pivetti, ideatore della campagna e vice presidente dell’UMI -. Oggi le grandi aziende di e-commerce stanno drogando il mercato con prezzi sempre più insostenibili per le piccole realtà locali e per le piccole e medie imprese che dal gettito finanziario del periodo natalizio ricavano grande parte dei loro fatturati”.


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www.iltempo.it













lunedì 22 novembre 2021

VITA DI RE VITTORIO EMANUELE III A RACCONIGI


Racconigi, un Paese di sogno

“Qui a Racconigi mi trovo benissimo. Più vedo questo paese e più mi piace; siamo in mezzo al verde più completo e non lontani dalle colline, e le Alpi si vedono lontane ma non molto. Vado riconoscendo i dintorni a cavallo e in vettura; aspetto quanto prima un'automobile per estendere ancora più le mie gite. La Città di Racconigi è piccola, e lontana abbastanza dalle grandi città. La casa mia è abbastanza grande, vi è un magnifico giardino a Parco di 184 ettari con laghi, canali; e piante ve ne sono di ben 150 qualità e molte altre qualità ne farò mettere. Le proprietà mie intorno a Racconigi sommano a 1300 ettari circa, e sono molto frazionate; poco alla volta me ne rendo conto; ho il mio tavolino pieno di mappe, rilievi ecc.; tutti i giorni giro mattina e sera per conoscere il mio; è tenuto con ben poca cura; ma spero di rimettere ogni cosa a posto in un tempo relativamente breve; delle proprietà private nostre nessuno si era seriamente occupato dopo Carlo Alberto, mentre sono veramente meritevoli di cura, come le sole delle quali posso liberamente disporre. Qui, nei sulè mort (cioè i sottotetti NdA) ho trovato molti interessanti ritratti dei P(rinci)pi e delle P(rincipe)sse di Carignano, e un bel ritratto del tempo della Duchessa Iolanda, moglie di Amedeo IX. Questi ritratti sono subito stati messi in posti di onore”.

   Così il 25 luglio 1901 Vittorio Emanuele III descrisse al generale Egidio Osio, già suo “Governatore”, il primo importante “impatto” con la sua “casa” a  Racconigi, ove era da poco giunto con la Regina Elena e la primogenita, Jolanda, per un soggiorno estivo. Gli dette appuntamento a Roma per il 29, anniversario dell'assassinio di suo padre, Umberto I, e aggiunse: “spero di poter rientrare qui il 31”.

  A Racconigi il trentaduenne re d'Italia era già stato almeno due volte. La prima il 28 agosto 1893 con il ministro della Real Casa Urbano Rattazzi jr, il generale Emilio Ponzio Vaglia e piccolo seguito. L'aiutante di campo Paolo Paulucci delle Roncole (un po' pettegolo) annotò nel Diario che il Castello era l'unica proprietà privata del sovrano con la Palazzina di Caccia di Stupinigi.  Vittorio Emanuele vi tornò “in gita” il 31 ottobre 1898, quando fece una corsa da Torino, in un mese fitto di viaggi da La Spezia a Monza, Torino e ancora Monza, Napoli e Roma (per la “Commissione di avanzamento” dei gradi nell'Esercito) per rifugiarsi infine a Montecristo, lontano dalla capitale.

 

Ubi Rex...

Per le vacanze estive dal 1901 alla vigilia della Grande Guerra Vittorio Emanuele III scelse il Castello di Racconigi a preferenza di altre residenze reali, come Castelporziano, San Rossore e, s'intende, la Villa di Monza, che “chiuse” all'indomani del regicidio.

  Ubi Rex ibi Potestas con tutti i suoi “tentacoli”, la Casa Militare, la Casa Civile e l'esercizio di prerogative e funzioni. Per alcuni mesi l'anno Racconigi divenne la Reggia. Vittorio Emanuele III vi ricevette missioni di Stati anche remoti (Siam, Giappone, Persia, Abissinia...), presidenti del Consiglio, ministri, notabili, artisti e scienziati.

   Nel 1909 il Castello fu scenario della visita in Italia dello zar Nicola II Romanov, da anni programmata ma rinviata per gravi motivi: la guerra russo-giapponese, la prima rivoluzione in Russia, la crisi del 1908. Arrivato per mare a Marsiglia e proseguito in treno, lo “csar” (come all'epoca si scriveva) arrivò in Italia da Modane-Bardonecchia. Vestiva “militare” come Vittorio Emanuele III, che lo accolse alla modesta stazione di Racconigi il 23 ottobre 1909 e lo condusse in carrozza al Castello, in tempo per la prima conviviale. Venne lasciata su altra carrozza la statuaria guardia del corpo, due metri di stazza, mantello rosso sino ai piedi. L'incontro di Racconigi suggellò la lunga svolta della politica estera voluta dal re d'Italia, che, senza rompere l'alleanza difensiva con Berlino e Vienna, dal 1901 aveva avviato relazioni nuove con Parigi e ribadita l'amicizia con la Gran Bretagna, meta del suo viaggio di Stato nel 1903.

   Nei nove anni da quando l'aveva scelto per le vacanze, il Castello era migliorato molto ma non aveva i fasti del Quirinale, del Palazzo Reale di Torino e di altre splendide residenze “di Stato”. Però offriva il pregio più importante: la sicurezza, garantita dal presidente del Consiglio e ministro dell'Interno, Giovanni Giolitti, che stese all'intorno una cortina di vigilanza, tanto discreta quanto impenetrabile. Il nonno dello zar, Alessandro II, era stato assassinato dinnanzi agli occhi del figlio, Alessandro III, da una nobildonna anarchica. Il padre di re Vittorio fu ucciso da Gaetano Bresci. Negli stessi anni vennero ammazzati il re del Portogallo, presidenti di Francia e Stati Uniti, primi ministri in Spagna e altrove…: tutti fautori di riforme. Che strano. Stessa sorte toccò a Sarajevo il 28 giugno 1914 a Francesco Ferdinando d'Asburgo che voleva ammodernare il vetusto impero d'Austria-Ungheria.

   Per ricevere degnamente Nicola II il re arredò il Castello. La regina Elena conosceva bene la sontuosità dei palazzi imperiali della Terza Roma a Mosca e a San Pietroburgo. L'Italia non poteva sfigurare. I giornali annotarono tutto: “Continuano a giungere, inviati da Torino e da Roma, carri e furgoni carichi di mobili e di oggetti d'ornamento. Mentre uno stuolo di operai, agli ordini dei giardinieri più esperti s'adopera con tutta lena a spianare i viali del Parco, a cospargerli di finissima ghiaia, a rimuovere aiuole ed a creare artistici parterre di fiori, numerosi falegnami, tappezzieri ed elettricisti si avvicendano in un febbrile lavoro di arredamento, o meglio di rinnovamento delle sale. Una ditta di Torino ha inviato qui i suoi migliori e più abili operai, per surrogare tutte le tappezzerie, tutti i tappeti, tutte le tende. È una profusione spaventosa di mobili ricchissimi, di statue, di candelabri, di piante ornamentali, di lampadine elettriche. Gli appartamenti del primo e del secondo piano saranno tra due o tre giorni completamente trasformati. Questo addobbamento speciale non è però destinato a rimanere ma è soltanto provvisorio”. Chiacchiere, forse anche per depistare.

  La visita rimase impressa nella memoria di Umberto, all'epoca principe di Piemonte, nato nel Castello il 15 settembre 1904. In un’intervista rilasciatagli a Cascais il 4 novembre 1979 Lucio Lami ne pubblicò i ricordi: “Rivedo poi, proprio come in una sequenza cinematografica, la visita a Racconigi dello zar. Soprattutto la vigilia del suo arrivo, perché passai ore a guardare un reparto di bersaglieri che provavamo la sfilata nel viale davanti al Castello, quel bel viale con le piante di aranci. Ero anche affascinato da un grande rullo compressore che andava su e giù sul piazzale, livellandolo a dovere. Dello Zar ricordo perfettamente le mani inanellate; potrei riconoscerlo ancor oggi dalle mani. Poi la sua giubba rossa e la sua voce. Parlava francese, con noi, ma appena poteva preferiva l'inglese. Dal suo paese aveva portato per noi ragazzi un giocattolo gigantesco, un intero villaggio russo riprodotto in legno in dimensioni ridotte; relativamente ridotte, visto che le costruzioni erano alte quasi mezzo metro. C'erano la chiesa, la casa del pope, le isbe, i recinti. Tutto era contenuto in una grande quantità di casse che furono portate in uno dei saloni del Castello, dove vennero aperte alla presenza di tutti. Alcuni di quegli altissimi cosacchi che l'Imperatore s'era portato appresso si misero all'opera per montarlo. Ricordo che lo Zar ci disse: Vi ho portato questo dono perché impariate a conoscere la Russia e sperando che un giorno verrete a visitarla”.

   Mentre i ministri degli Esteri dei due Stati mettevano a punto il Trattato che il 24 ottobre riposizionò l'Italia nel quadro delle Grandi Potenze, poiché la mattina era nebbiosa il re sostituì la partita di caccia con una corsa in auto a Pollenzo  passando da Carmagnola, Sommariva Bosco e Bra per far vedere allo zar il Castello, la vasta tenuta e le rovine romane, l'anfiteatro e i ruderi di un tempio. Nel ritorno a una delle due auto scoppiò uno pneumatico e i suoi occupanti fecero tardare il pranzo “di Stato”.

 

Il Re, la Regina, la nazione nascente

   Il Castello fu anche luogo d'incontro tra i reali, la popolazione e visitatori di tutte le classi sociali. Una volta la Regina Elena accolse a colazione una moltitudine di donne e di ragazze “interessandosi specialmente di quelle più umili e modeste, o meno fisicamente favorite dalla fortuna. A tutte faceva coraggio, le invitava a mangiare ed a portar via senza soggezione quanto avanzavano dalla lauta refezione. – Portate pure a casa – diceva; questa sera avete poi già da far a merenda e la cena”.

  A Racconigi Vittorio Emanuele III alternò vita “pubblica” e “privatissima”. Annotò: “Domenica la Regina ed io abbiamo celebrato il V° anniversario del nostro fidanzamento con una bella passeggiata di 360 km per Cuneo, Tenda, et Breglio. Siamo andati a Ventimiglia, poi lungo la riviera sino ad Oneglia, poi per Pieve del Teco abbiamo passato il colle di Nava e per Garessio, Ceva, Dogliani, Cherasco, et Brà, siamo tornati a casa; in 13 ore di gita”. 

   Lungo il giorno il Re si occupava a lungo delle “questioni di Stato”, chiudendosi nel suo gabinetto col generale Ugo Brusati, primo aiutante di campo, e con altri segretari particolari, sbrigando la corrispondenza. Aprivano i grossi pacchi di carte, specie del ministero dell'Interno, che anche due volte al giorno gli venivano recapitati da Roma.

   Quando poteva, viaggiava in incognito. Un giorno partì dal Castello alle 4 del mattino. Vestito in borghese con cappellino di paglia e accompagnato dal generale Brusati si recò in phaeton guidato da lui stesso e scortato da alcune guardie cicliste a visitare la Tenuta di Pollenzo per esaminarvi di persona le migliorie. All'andata percorse la strada verso Bra sbucando presso il Santuario della Madonna dei Fiori e transitò per Bra verso le 6. Alle 9 rientrò procedendo per strade di campagna, dalla Pedaggera alla salita del gerbido, girando così intorno a Bra. Tornò a Racconigi per Cavallermaggiore, deludendo le aspettative dei braidesi che, ormai avvertiti, lo attendevano nelle vie Vittorio Emanuele e del Santuario.

   La mattina del 25 agosto, una domenica, per desiderio della Regina si tenne nel parco una festa per i fanciulli delle scuole della Città e dei dintorni. Verso le 9, narrano le cronache, gli alunni e le alunne (più di settecento) con i rispettivi maestri e maestre accedevano all'interno del Parco Reale dalla porta cosiddetta Torre Cinile, preceduti dalla banda della Società Operaia Umberto I, che, non appena scorti i sovrani, i quali, per meglio vedere, si erano affacciati da un ripiano dello Scalone, ha cominciato a intonare la Fanfara Reale, mentre i bambini procedendo in fila gettavano mazzetti di fiori, omaggio visibilmente gradito alla Regina. Al termine della sfilata tutti il direttore didattico, cavaliere colonnello Luciano, pronunciò un discorso patriottico. La Regina si intrattenne   affabilmente con i bambini degli asili e con le fanciulle. Il re, in bassa tenuta di generale, fece altrettanto con gli alunni delle scuole elementari. La regina vestiva satin gris perle con largo cappello. Ottenuto il permesso di prendere d'assalto le due lunghe tavole, cominciò la vera festa mentre la banda eseguiva un programma scelto. Un bambino lamentò con un “anziano” di non aver ancora bevuto nulla; l'“anziano” provvide. Era Vittorio Emanuele III. Alle 11 iniziò a piovere e ognuno tornò “a casa”.

 

  Il Castello era anche la “base” per salire nelle valli, in specie sopra Sant'Anna di Valdieri o a San Giacomo d'Entraque, per pesca e caccia al camoscio. Ne hanno scritto Walter Cesana in “I Savoia in Valle Gesso” e Alessandro e Simone P. Milan in “Residenze Reali di Casa Savoia nel Distretto di Caccia di Valdieri in Valle Gesso (1864-1943), libri “di nicchia”.

   Il 28 agosto 1901 i sovrani andarono in automobile a Moretta per visitare il caseificio dei fratelli Barberi. Ne accenna “Moretta. 120 anni di industria agroalimentare” curato da Antonio Battisti, Maria Cristina Moine, Mario Piovano e Domenico Podio per l'UniTre di Moretta (settembre 2021). Lì avveniva la trasformazione della maggior parte del latte del circondario di Saluzzo: “Verso le 9 (venne narrato) l'automobile reale si fermava nell'ampio cortile del fabbricato tra la sorpresa degli operai presenti; discesone il re ha subito pregato il proprietario, Attilio Barberi, venuto ad accoglierlo con alcuni collaboratori, di non interrompere i lavori e gli ha raccomandato il silenzio sulla sua venuta. All'interno gli augusti visitatori si sono molto meravigliati delle potenzialità del macchinario, della modernità dei sistemi di lavorazione, della finezza dei meccanismi delle scrematrici, su cui scorrevano continuamente fiumi di latte, e della coagulazione del latte col caglio. Poscia i reali si sono recati a visitare le stalle annesse al caseificio, dove sono allevati migliaia di suini di tutte le razze. Terminata la visita il re si è congedato e si è congratulato vivamente coi fratelli Barberi. Dopodiché la reale comitiva si è diretta nuovamente verso Racconigi dove giungeva dopo le 10, ora in cui, a causa della fiera nelle strade dove è passato l'automobile reale, cioè via Regina Margherita, Piazza Carlo Alberto e via Umberto I, la molta gente venuta da fuori ha salutato vivamente i sovrani visti per la prima volta. All'ingresso ovest del parco reale detto Porta del Cinile le Loro Maestà e i principi sono scesi dall'automobile e si sono recati facendo pochi passi al grande setificio dirimpetto, detto Potagero, di cui è proprietario il cavalier Sacerdote, ivi accolti dal direttore Giordano, anche se quasi subito è arrivato anche il cav. Sacerdote prontamente avvertito della presenza degli augusti visitatori, ai quali dopo averli ossequiati ha dato loro le più minute spiegazioni. Purtroppo essendo la trattura della seta nella filanda ferma i reali si sono dovuti accontentare di vedere in funzione la sola lavorazione nel filatoio che hanno esaminato attentamente dal “baratrone” all'“incannatoio”. Al termine del sopralluogo, gli operai e le operaie stupefatti della visita inattesa prorompevano in una spontanea ed entusiastica acclamazione ai sovrani i quali a loro volta hanno salutato operai e proprietario mostrandosi vivamente soddisfatti”.

  Una decina di giorni dopo, la domenica 8 settembre, i reali andarono in treno a Saluzzo per assistere allo scoprimento del busto in bronzo di Umberto I (oggi nascosto in un “deposito”, come quelli di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II), opera dello scultore Leonardo Bistolfi, massone, molto apprezzato da Vittorio Emanuele III. Era il coronamento delle feste per il terzo centenario dell'annessione dell'antico Marchesato di Saluzzo ai domini di Casa Savoia. Poi visitarono la Cattedrale, ricevuti dal vescovo monsignor Mattia Vicario, dal capitolo e dal clero e il grandioso “Ospedale” Tapparelli d'Azeglio.

   Erano anni operosi, di progresso e di coesione civile nell'Europa della “Belle Epoque”. Il “sistema” istituzionale, però, era e rimase un triangolo scaleno mentre cresceva la tensione militare tra gli Stati. Anziché appagati dall'espansione coloniale accelerata dal 1880 le maggiori potenze vennero travolte da un'onda di ritorno che si ripercosse sui confini più fatiscenti, a cominciare dall'impero turco, e nei Balcani sino a innescare la Grande Guerra. Tornarono a soffiare inarrestabili venti di guerra. Anche l'Italia intervenne. A fine maggio del 1915 da Roma il “re soldato” si trasferì a Martignacco, presso Udine, in zona di operazioni. Poco a poco Racconigi perse il rango di “capitale estiva” del Regno d'Italia.

   Nei quarantasei anni di trono Vittorio Emanuele III visse per l'Italia, uno Stato che da appena trent'anni aveva Roma capitale quando egli ereditò la Corona, un Paese che nel suo mezzo secolo di regno ebbe alleati, ma nessun vero amico.

domenica 21 novembre 2021

Capitolo XLI: L’otto settembre 1943, l’Italia divisa.

 di Emilio Del Bel Belluz


 Il 25 luglio 1943 venne arrestato Benito Mussolini, una data che non potrà mai essere dimenticata, specialmente da quelli che lo avevano conosciuto. Carnera apprese la notizia dalla radio, e pensò al momento in cui lo aveva incontrato e alle  parole che Mussolini gli aveva detto quando lo ricevette  a Palazzo Venezia dopo l’incontro vittorioso sostenuto contro Paulino Uzcudm. Lo consolò per i fischi di qualche tifoso, perché  avrebbe voluto che Carnera battesse lo spagnolo per Ko e non ai punti. Mussolini gli disse: “ Primo non devi scoraggiarti se il pubblico pretende di più di quanto dovrebbe. Ma, oltre ad essere duro, il pubblico è anche volubile. Cambia opinione sovente, e non è da escludere che se oggi ti fischiano, domani ti applaudiranno”.  
La gente oggi ti ama e l’indomani non ti conosce più. Capita  che nel momento del bisogno le persone facciano finta di non conoscerti. Passano da una parte all’altra della barricata, come se fosse solo un gioco, che Primo non avrebbe mai fatto. Il giorno dell’arresto di Mussolini ne parlò con Pina, e gli dispiaceva che si fosse arrivati a questo. Nessuno conosceva dove Mussolini era stato portato. Lo tenevano nascosto  temendo che qualcuno volesse liberarlo. Pina non disse nulla, aveva molto da fare con i bambini, Carnera non volle continuare a parlare. Quel giorno se ne andò alla trattoria in cui era solito incontrare gli amici. Qualcuno aveva il giornale e stava leggendo a voce alta quello che era successo, Carnera non commentò l’accaduto con gli amici,  non era di buon umore. Si accorse che all’osteria avevano tolto la foto incorniciata di Mussolini, che stava vicino a quella del Re Vittorio Emanuele III e della Regina Elena, una donna che aveva sempre ammirato per la bontà e per il bene che aveva sempre fatto ai poveri. Tutti conoscevano questo lato del suo operato, ma non tutti la ricordavano con affetto. Una Regina che era venuta da lontano, dal piccolo regno del Montenegro. Quel giorno giocò con gli amici a carte e buttò giù qualche bicchiere di buon vino, per alleviare la tristezza che aveva dentro al cuore. Quel giorno di luglio era caldo, l’afa era opprimente, tutto aveva contribuito a infastidirlo. La sera rientrò tardi, Pina aveva già mangiato e i piccoli stavano dormendo placidamente. 
La casa gli sembrò più vuota, però lui non tolse il quadro incorniciato di Mussolini. Lo aveva conosciuto e non gli pareva giusto dimenticare quello che aveva fatto per l’Italia, almeno ci aveva provato a migliorarla e questo non era poco. Le settimane successive lo preoccuparono, perché alcuni impegni di lavoro furono annullati. Carnera lavorò nel suo giardino, aveva deciso in quei giorni di piantare degli alberi, voleva in questo modo ricordare i suoi figli, e per questo volle mettere a dimora due  cedri del Libano. Umberto e Giovanna Maria vedendoli crescere avrebbero potuto avere un punto di riferimento importante: gli alberi hanno una forza che bisogna imitare, ci dicono che nella vita bisogna lottare contro le avversità I cedri del Libano gli erano sempre piaciuti, come amava le querce, ne aveva piantate alcune in un pezzetto di terra che possedeva vicino alla vecchia chiesa. Quei mesi passarono con molte difficoltà. Dal mondo del cinema non lo avevano più chiamato, anche se continuava a sperare di poter recitare in qualche ruolo. Un produttore lo aveva chiamato, mandandogli anche il copione da studiare, ma poi non se ne era fatto nulla. La delusione fu appianata dalla grande forza che aveva accumulato in quegli anni. Non disperò, perché sapeva che la vita donava delle possibilità anche nei momenti che sembravano più duri. La sera  dell’otto settembre del 1943 avevano dato la notizia alla radio dell’armistizio. 
La voce del generale Badoglio doveva essere stata incisa in un disco, perché ascoltandolo gracchiava e diceva: “ Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo della forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze armate anglo-americane deve cessare da parte delle forze armate italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza ”. La guerra però non era finita, il Re e il suo seguito andarono via da Roma. La vita non sarebbe stata più quella di prima. Il 12 settembre con l’operazione “Quercia”, nome in codice, avvenne  la liberazione di  Mussolini dal Gran Sasso ad opera degli uomini di Hitler e , poi, fu fondata la Repubblica Sociale Italiana.  Carnera non era felice che  la guerra continuasse. Anche a Sequals arrivarono i tedeschi assieme ai cosacchi che occuparono il centro del paese. 
Bussarono anche alla casa di Carnera, i tedeschi e quelli della R.S.I. volevano conoscere il campione, farsi fare un autografo o una foto con lui. Ne avevano sentito parlare, e a molti sarebbe piaciuto che si fosse incontrato sul ring con Max Schmeling,  pure lui era stato campione del mondo dei pesi massimi, e  la Germania lo amava. Durante la guerra si era  arruolato con i paracadutisti.  Carnera  era un uomo molto generoso, non si negava a nessuno, aveva sempre la porta spalancata per tutti quelli che lo volevano vedere. Nella sua grande Villa viveva con la moglie, con i suoi due figli, con la mamma, con la cognata Marianna, moglie di Secondo. Il fratello si trovava internato nell’Isola di Man. Allora non era facile vivere, e bisognava in qualche modo adattarsi. Il rapporto che Carnera tenne con i tedeschi fu cordiale, e per loro fece delle esibizioni di boxe in qualche paese, ricevendo in cambio del cibo che non era mai sufficiente. In quel periodo dovette lavorare per i tedeschi, facendo strade, e soffrendo. Quando il pugile Max Schmeling venne a conoscenza che Carnera non se la passava bene s’i impegnò affinché venisse confortato economicamente e per questo lo volle, oltre che aiutare, anche incontrare. Il mondo del cinema si era trasferito da Roma a Venezia, e il tedesco volle che Primo fosse invitato ad un incontro.  
Carnera allora tornò alla ribalta, lo si vide con il puglie tedesco, sorridente che gli stringeva  la mano, e furono fotografati mentre erano in gondola. Lo scopo era quello di far vedere che ci fosse armonia tra i tedeschi e gli italiani. In quei giorni trascorsi a Venezia sotto i riflettori, Carnera gli sembrava d’essere tornato ai bei tempi. La gente lo salutava, lo applaudiva, gli dimostrava cordialità e tutto questo avveniva durante il periodo della Repubblica di Salò.  Primo era lontano dal ring da anni, ma aveva sempre il suo fisico possente, si teneva in forma con degli allenamenti nella palestra che era adiacente alla Villa ed aveva come insegna la scritte:” Mens sana in corporae sana”. In quel periodo difficile insegnava la boxe a  dei giovani, tra cui qualcuno della R.S.I. e qualche soldato tedesco della Wehrmacht, il tutto per raggranellare qualche soldo. La guerra continuava a mietere vittime e in paese, più di qualche famiglia piangeva i suoi cari caduti. Anche la lotta tra partigiani e tedeschi provocava morte e desolazione. Era difficile anche sfamarsi, e a Primo veniva in mente il periodo dell’infanzia, in cui patì la fame e lo costrinse ad emigrare in Francia. La sua casa era meta di persone che venivano a chiedere dei favori. Sapevano che Primo era una persona che contava e generoso com’era, non era capace di rifiutare un aiuto.  Una notte giunse da lui  una madre in pena, perché il figlio era stato fatto prigioniero dai tedeschi. Questa donna era disperata, non faceva altro che piangere, nei suoi occhi si leggeva  la paura dell’uccisione del figlio. Carnera venne a sapere che lo avevano trasferito a Udine e rinchiuso in carcere assieme al medico del paese e che li avrebbero inviati in Germania. L’intervento di Carnera presso le autorità tedesche fu determinante e il giovane Antonio detto “ Toni Musciu “ fu salvato, e riportato in famiglia. Il giovane della classe 1924 aveva solo 19 anni. 
I tedeschi fecero lavorare Primo nell’organizzazione Todt che si occupava della costruzione di strade. Era un lavoro pesante,  ma lui non si lamentava.  Adesso aveva una famiglia da mantenere. Aiutava anche Pina nell’accudire i figli, lei non poteva farcela da sola, avendo anche le incombenze domestiche. In tempo di guerra erano importanti anche i piccoli aiuti che venivano scambiati tra paesani. Primo ospitava anche dei vagabondi che non avevano un tetto sopra la testa. Carnera aveva simpatia per un vecchio che veniva a trovarlo. L’uomo poteva definirsi uno di quelli che portavano le storie di paese in paese. Il cantastorie aveva spesso raccontato la storia di Primo. L’uomo aveva studiato in passato in un collegio, sapeva disegnare molto bene, e raccolse in un libretto una quindicina di disegni a matita che raffiguravano la vita di Carnera. Tutte le volte che lo ospitava gli faceva dono di un nuovo disegno. Il campione era davvero felice nel vederlo, anche se nella sua vita aveva ammirato cose importanti, conosciuto molte persone, nutriva della simpatia per gli uomini che sapevano raccontare degli aneddoti. L’uomo si guadagnava la vita vendendo anche qualche santino della Madonna. Il cantastorie, nella sua semplicità, sapeva trasmettere una certa serenità di cui Carnera in quei tempi ne aveva bisogno. Fu proprio lui a raccontare a Carnera dell’uccisione da parte dei partigiani del grande pugile Bonaglia che era stato campione italiano ed europeo dei pesi mediomassimi. L’uccisione del boxeur era stata una vera e propria esecuzione. 
Gli spararono a bruciapelo, e l’uomo che era denominato lo spaccapietre aveva incontrato nella sua vita anche Max Schmeling a Berlino, e aveva perso per Ko alla prima ripresa. Quel match era stato seguito molto dagli italiani che speravano , invece, in una sua vittoria. Carnera aveva ascoltato le parole del vecchio, e dentro di sé sapeva che Bonaglia era amato da Mussolini ed era morto perché aveva aderito alla RSI. Quella sera l’uomo raccontò a Primo che aveva deciso di smettere con quella vita.  La povertà gli aveva fatto conoscere tante persone gentili, ma non aveva più voglia di lottare, e voleva ritirarsi da una sua parente che era rimasta sola al mondo e gli aveva chiesto d’andare ad abitare da lei. Aveva una casa grande e comoda, non era ricca ma aveva un pezzetto di terra che lavorava prima con il marito, e ora aveva bisogno di qualcuno. Il vecchio volle donare a Carnera quel libretto con i quindici disegni. Era come se avesse deciso di lasciare una parte del suo cuore ad una persona che gli voleva bene. L’indomani l’uomo partì e non lo vide più. Il quaderno lo volle mettere tra i ricordi  che avrebbe rivisto nell’età avanzata. Nei giorni che seguirono Carnera era pensieroso, il cantastorie gli aveva detto di stare attento perché la ritirata dei tedeschi avrebbe favorito le vendette dei partigiani verso i fascisti e i loro collaborazionisti. Carnera  nella sua vita non aveva mai danneggiato e fatto del male ad alcuno, ma non  si sentiva tranquillo. Temeva per il futuro della sua famiglia di cui rappresentava l’unico sostegno. Passarono alcune settimane e i bombardamenti degli aerei  anglo-americani provocarono delle vittime anche a Sequals e nei paesi limitrofi. Carnera aveva una grande fede nella Divina Provvidenza, gliela avevano insegnata sua madre, e la cara maestra. Non ci potevano essere dei momenti, dove la paura e lo sgomento si impossessavano di tutto. 
Ogni evento  lasciava trasparire una sua opportunità. La sua maestra  gli ripeteva spesso la frase:” Dio vede e Dio provvede” ed aveva scritto alla lavagna la citazione di Virgilio: “Labor omnia vincit improbus” e sotto l’aveva tradotta con calligrafia precisa: “ Con uno sforzo sufficiente si può ottenere  qualsiasi risultato”. Queste parole gli erano venute in mente perché aveva ripreso tra le mani un vecchio quaderno delle elementari, e lo aveva mostrato a Pina. La donna si era appassionata a queste parole piene di speranza, e quel giorno erano servite a scacciare la malinconia.  Carnera un giorno stava potando un albero, quando sentì il rumore di un aereo che stava passando proprio sopra la sua casa. Primo pensò subito di mettere in salvo la moglie e i figli, ma proprio in quel momento l’aereo lasciò cadere  una grossa cassa che non si ruppe. Carnera spaventato pensò che fosse una bomba, che sarebbe esplosa da un momento all’altro, invece, dopo aver allontanato i suoi famigliari, si avvicinò alla cassa, aprendola. Al suo interno trovò ogni ben di  Dio, vi erano delle scatolette di carne, di  tonno, della farina, della birra, e tanti altri cibi che da tempo non era abituato a vedere. Anche i famigliari accorsero, la moglie e la mamma gridarono al miracolo, qualcosa di bello e stupendo era successo. Con un carretto caricò la cassa e la portò a fatica in casa e notò che c’erano del latte in polvere, dello zucchero, e  del caffè, sufficiente per offrirne una tazza calda a tutto il paese. Quando ebbe tolto tutto questo ben di Dio si accorse che sul fondo c’era una lettera. Con emozione lesse il suo contenuto:” Caro Primo finalmente ti ho ritrovato.  
Sono il tuo amico Philph La Barba, abbiamo fatto tanta strada dall’ultima volta in cui ci siamo incontrati in America, dove tu sei riuscito a salire in cima al mondo nella categoria dei pesi massimi. Sono sempre stato un tuo ammiratore e questo tu lo sai bene. Il sangue italiano che ti scorre nelle vene è uguale al mio, anche se io ho scelto di rimanere in America. Allo scoppio della seconda guerra mondiale  mi sono arruolato, anche se ho un occhio solo. Per questo mi hanno dato un grosso incarico, sono addetto al vettovagliamento delle truppe americane. Ti assicuro che ho avuto difficoltà nell’individuare il luogo dove vivi. Dal  mio superiore che ti conosce molto bene, avendo assistito ad alcuni tuoi incontri, ho saputo che eri in difficoltà. Allora non ho pensato un solo istante e gli ho chiesto il permesso di mandarti questo primo pacco di cibo, e ti prometto che ne seguiranno degli altri. Il mio comandante  vuole da te una foto con dedica che gliela consegnerai al suo arrivo. All’interno della cassa vi ho messo delle bottiglie di ottimo liquore, bevile alla nostra salute e alla  nostra amicizia. La boxe non è fatta solo di pugni che si danno, ma anche di cameratismo”. Appena finito di leggere la lettera, Carnera ebbe un momento di commozione, si sentiva felice, perché anche dall’America non lo avevano dimenticato. La moglie quella sera per cena aprì delle scatole di carne e brindarono al loro amico.  L’indomani Carnera volle dividere quella cassa con le persone più bisognose del paese, e per questo si recò dal suo amico parroco per comunicargli l’arrivo del pacco di cibo.  Al curato non disse che in quella cassa avevano messo dei liquori, voleva fargli una sorpresa una volta che fosse venuto a  fargli visita. Nelle settimane successive per altre due volte dal cielo piovve quella mamma di Dio, accompagnata dal solito biglietto, che ancora una volta sorprendeva Carnera. Il cibo ricevuto era ancora più abbondante. 
Nella chiesa del paese più di qualche cero era stato acceso da quelli che avevano potuto godere di quei viveri. Intanto, si temeva l’acuirsi degli scontri nell’ultima fase della guerra.  Una mattina presto i tedeschi si ritirarono da Sequals, uno di loro che era amico di Carnera, essendo stato alcune volte in palestra volle salutarlo, sapeva qualche parola d’italiano, e il buon Primo gli augurò di poter fare ritorno nella sua patria sano e salvo. Il militare tedesco aveva una moglie e due figli che sperava non fossero morti nei tanti bombardamenti che c’erano stati. 


La guerra però non era finita, dopo il ritiro dei tedeschi, molti soldati della RSI li seguirono, verso il confine. Temevano d’essere uccisi dai partigiani e non avrebbero in nessuno modo ceduto le armi. Carnera parlava di queste cose alla moglie, mentre dava da mangiare ai figli. Quello che preoccupava molti italiani erano i partigiani, che avevano dato inizio al tremendo periodo delle vendette.

venerdì 19 novembre 2021

“Maria Josè, l’ultima Regina d’Italia”

Come sempre affidiamo al senso critico dei nostri amici la lettura degli articoli che segnaliamo raccomandando la massima attenzione a distinguere i pettegolezzi dai fatti di storia.




All’OFF/OFF Theatre con Elena Croce. Moglie infelice e ferita, del marito si era innamorata al primo incontro


Nell’ultimo fine settimana di novembre, da giovedì 25 a domenica 28 novembre, l’OFF/OFF Theatre accoglie la storia di una donna controversa, l’ultima Regina d’Italia, la cui vita è essa stessa parte della storia di tutti noi. È Maria José, la sposa dell’ultimo sovrano italiano, Umberto II di Savoia, a capo di una nazione che dopo aver visto i due coniugi come regnanti, vivrà un’epoca totalmente nuova. La donna, il suo ruolo, la sua vita, tutto questo va in scena grazie all’interpretazione di un’intensa Elena Croce, protagonista nei panni di Maria José, nel testo scritto e diretto da Silvano Spada, nell’anno in cui ricorrono i vent’anni dalla sua scomparsa.

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https://www.farodiroma.it/

A Vicoforte Elena von Hessen, nipote di Mafalda di Savoia

 

Elena Von Hessen ritratta nella galleria d'arte del nostro amico Piero Renna

L’Istituto nazionale per la guardia d’onore alle reali tombe del Pantheon ha organizzato per sabato 27 novembre una giornata per la celebrazione di Re Vittorio Emanuele III, nel 152° anniversario della sua nascita e nel centenario della traslazione del Milite Ignoto al Sacello dell’Altare della Patria. Alle cerimonie prenderà parte anche Elena Von Hessen, nipote di Mafalda d’Assia, figlia del re tumulato al Santuario morta nel campo di concentramento di Buchenwald e ora sepolta vicino a Francoforte sul Meno.

 

Fonte: http://www.provinciagranda.it/monregalese/2021/11/17/news/a-vicoforte-elena-von-hessen-nipote-di-mafalda-di-savoia-7156/


giovedì 18 novembre 2021

Natale in Casa Savoia e visita al Castello Reale 2021

Dal 20 Novembre al 9 Gennaio 2022, tutti i sabati e le domeniche (aperture infrasettimanali specificate a calendario)




Un viaggio immersivo indietro nel tempo. La mostra percorso ha nel titolo già tutti gli elementi che la renderanno davvero particolare e imperdibile: il “Natale a Casa Savoia”.

Si avrà la possibilità di conoscere le particolarità introdotte proprio dalla casata reale e gli accessori indossati dalle dame fino ad arrivare all’albero di Natale della Regina Maria Cristina.

Non solo lusso però; nel percorso si tratteranno anche temi più intimi quali la cavalleria, i valori religiosi, le tradizioni militari e principi cavallereschi dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme.

Immancabili i riferimenti alla fede e al tema della Natività con un’esposizione di presepi. 

La storia del Castello di Govone è ricca di nomi importanti ed affascinanti che meritano di essere conosciuti, valorizzati ed approfonditi, ed un ampio e articolato progetto pluriennale intende riproporre in varie forme ed eventi proprio tali personaggi ed i rispettivi secoli.

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Di fronte alla corsa per il Quirinale conviene rivalutare la monarchia

ANTONIO GURRADO  

Pagine su pagine di retroscena e indiscrezioni, ipotesi di bis del presidente uscente, candidati ufficiali e ufficiosi, franchi tiratori, voti e soprattutto veti. La rivincita simbolica dei re di fronte al gran teatro per la carica più alta della Repubblica



In Italia quando dici che sei monarchico ti guardano tutti strano, nonostante che siano monarchie varie nazioni dalla storia grande almeno quanto la nostra, come Gran Bretagna e Spagna, ma anche l’Olanda, il Belgio, la modernissima Svezia, l’avveniristico Giappone; nonostante che in Europa i primi decisivi passi verso la democrazia siano stati mossi grazie all’evoluzione plurisecolare della monarchia; e nonostante che al mondo i principali Stati dittatoriali, paradittatoriali o illiberali, tipo la Cina, l’Iran, la Turchia, la Russia, l’Ungheria, per tacer dell’Africa, siano tutti repubbliche.

 

Credo sia perché da noi desta sospetto il sistema dell’ereditarietà del titolo di Capo dello Stato e garante della Costituzione, a fronte di un cristallino sistema di selezione che prevede mesi di retroscena, articolate esegesi di mezze frasi, proposta di rinnovo automatico del titolare, esclusione del rinnovo automatico da parte dell’interessato, candidati prematuri presentati apposta per essere bruciati, ipotesi alternative patafisiche, qualche donna da tirare in ballo per far vedere che si è moderni, escursioni nel semipresidenzialismo di fatto, richiami alla lettera della Carta, nessun pretendente ufficiale, tutti pretendenti sottobanco, franchi tiratori a iosa, voti a Giancarlo Magalli, plauso unanime dell’emiciclo al carro del vincitore, polemiche sotterranee sull’imparzialità dell’eletto, e così via. In Italia quando dici che sei monarchico ti guardano tutti strano, tranne una volta ogni sette anni.


https://www.ilfoglio.it/bandiera-bianca/2021/11/12/news/di-fronte-alla-corsa-per-il-quirinale-conviene-rivalutare-la-monarchia-3361120/

Mio padre ha visto…




Pacchi su pacchi di schede. “Così grossi – raccontava mio padre – che ci si potevano infilare le braccia”. Tutte schede già votate e tutte con la croce sullo stesso segno: a sinistra, sull’Italia turrita, che simboleggiava la Repubblica, contro la Monarchia rappresentata dallo scudo dei Savoia. Il giovane Brigadiere Beltotto vide quelle schede, negli scantinati del Ministero degli Interni. Era la notte del 4 giugno 1946 e i risultati del referendum non erano stati ancora annunciati, ma la voce, nei palazzi romani, già girava: vittoria alla Repubblica! Umberto II si preparava all’esilio di Cascais.
Di ombre su quel risultato si è sempre parlato. Ma ora, a settant’anni di distanza, arriva il ricordo di un testimone oculare dei brogli. Tommaso Beltotto allora aveva venticinque anni e già alle spalle una vita intensa. Controfirmò la relazione del Duca Giovanni Riario Sforza, Comandante in Capo dei Corazzieri Reali, con la descrizione minuziosa di quei sacchi nelle cantine del Viminale. E proseguì la sua vita da carabiniere. Sono passati settant’anni e Beltotto è morto nel 2001. Di quei sacchi non ha più parlato, se non in famiglia. E’ suo figlio Gianpiero a raccontare l’immagine, quasi fotografica, del referendum truccato, così come riferita dal padre. A cosa dovessero servire quei sacchi di schede truccate, il giovane Brigadiere non lo sapeva e non lo sappiamo noi oggi. Erano già state conteggiate come vere o dovevano servire, in caso di bisogno, per ribaltare un risultato sgradito? Di sicuro, erano la prova concreta di un referendum fasullo. Beltotto si era scandalizzato, a quella vista? Era un uomo concreto, realista, a detta del figlio. Quando in televisione o sui giornali qualcuno ipotizzava brogli nel referendum del 1946, sorrideva con ghigno ironico. “C’è poco da ipotizzare, i brogli li ho visti con i miei occhi”, diceva.
Il brigadiere Tommaso Beltotto non era lì per caso, la notte del 4 giugno. Nel settembre del 1943, quando comandava la Stazione dei Carabinieri di Monterotondo, aveva avuto l’ordine di arrendersi ai tedeschi e consegnare le armi. Se ne era ben guardato e si era unito alla Resistenza con i suoi fucili e i suoi militi. Fungeva da anello di collegamento tra le truppe partigiane di montagna e i reparti che operavano a Roma. Fu testimone dei vani tentativi del CLN di bloccare l’attentato di via Rasella. “Insomma – dice suo figlio – aveva la fama di persona equilibrata e devota. Sono convinto che il maggiore Riario Sforza quei sacchi di schede truccate li avesse già visti prima e che avesse bisogno di un testimone affidabile”. Qualcuno, cioè, che non andasse a raccontare al bar l’incredibile scoperta, ma che fosse pronto, nel momento del bisogno, ad attestarne la verità.
Così, quando il Duca Sforza (che pochi giorni dopo verrà ritratto nel salutare per l’ultima volta Umberto II che lascia il Quirinale), dovette scegliere qualcuno che controfirmasse il suo rapporto, la scelta cadde inevitabilmente su Beltotto, che non era suo subalterno, ma che aveva avuto modo di conoscere in quei frangenti delicati e complessi.




 http://www.weeklymagazine.it/2017/10/29/mio-padre-ha-visto/

giovedì 11 novembre 2021

Perché resta attuale il “De Monarchia” di Dante

Il testo dantesco rivela, soprattutto a chi lo esamini alla luce dei principi senza tempo della Tradizione, la sua valenza metapolitica e, dunque, mondato dalle contingenze storiche che ne accompagnarono la nascita, mostra la sua sostanziale attualità in un momento di crisi profonda nel quale il nostro futuro appare incerto e velato da ombre minacciose

di Roberto Russano  

 

Dante politico

Tra le opere composte da Dante Alighieri la Monarchia, o De Monarchia come viene tralatiziamente indicata, costituisce un trattato politico in tre libri risalente agli ultimi anni di vita del genio fiorentino con il quale egli intervenne per sostenere l’origine divina e diretta del potere imperiale contro le pretese papali che riconoscevano all’imperatore una semplice potestas indirecta in temporalibus. Papa Bonifacio VIII appena qualche anno prima della stesura dell’opera dantesca aveva ribadito la tesi pontificia con la bolla Unam Sanctam mentre Dante, da buon ghibellino, aveva sposato, con alcuni temperamenti formali, la “teoria dei due soli”, formulata sul finire del V secolo d.C dal Pontefice Gelasio I in una lettera all’imperatore d’Oriente Anastasio e l’aveva difesa, con dovizia di argomenti ricavati in massima parte dall’ autorità delle Sacre Scritture , nel terzo libro del suo trattato giungendo alla conclusione che “ la facoltà di conferire il potere nella sfera temporale è contraria alla natura della Chiesa”(III,XIV,9).

 

Impero e Chiesa Cattolica

Una lettura superficiale del testo dantesco può trasmettere al lettore l’impressione di trovarsi in presenza di un lavoro inevitabilmente datato, destinato agli specialisti del pensiero politico medievale alla stregua della cospicua messe di scritti che nel corso del medioevo sostennero, nella lunga disputa per la supremazia che coinvolse il papato e l’impero, le ragioni dell’una o dell’altra istituzione o, al massimo dinanzi ad un testo certamente fondamentale per ricostruire il pensiero politico dantesco ma, in sostanza, privo di attualità.

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https://www.barbadillo.it/

11 Novembre

 


Figure del Risorgimento italiano


Il secolo XIX è l’epoca delle macchine e quindi l’epoca della borghesia, inizia e si sviluppa l’industria, in Inghilterra specialmente, successivamente in Francia, in Germania, il capitalismo è l’espressione di questa economia del lavoro operaio, dell’investimento di capitali, delle macchine, dell’industria che sostituisce l’artigianato, e nascono, appunto, nuove classi sociali, la classe operaia e la borghesia, quest’ultima possiede gli strumenti per produrre, le macchine, la terra, i capitali, il proletariato possiede esclusivamente il lavoro e non ha mezzi di produzione in suo possesso. In Italia, che ancora non esiste come Italia ma nelle sue divisioni più o meno regionali, esistono punte di capitalismo specialmente nel Nord ma anche nel Sud, qualcosa esisteva. La nascente borghesia si rende conto di non avere voce, rappresentanza, il potere essendo legato alle monarchie e all’aristocrazia, da ciò la ribellione, anzi la rivoluzione, cambiare sistema, evidentemente l’aristocrazia, l’alto clero, le monarchie si opponevano a concedere rappresentanza alla borghesia e a darle facoltà legislativa, meno ancora la concedevano al proletariato.
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lunedì 8 novembre 2021

Il Milite ignorato: storia o fiabe?


Un Centenario in tono dimesso

I Centenari ricorrono una volta al secolo. Ogni giorno se ne contano a bizzeffe, secondo popoli, paesi e “sensibilità” collettive e/o personali. I più scorrono via nell'indifferenza generale. Alcuni invece hanno un significato particolare perché  l'evento memorando è (o dovrebbe essere) nella coscienza generale. Ne abbiamo avuto esempio nel marzo 2011, quando venne ricordato il 150° del regno d'Italia, sia pure rievocato sotto l'etichetta impropria di “unità nazionale” (nel 1861 mancavano Venezia, Roma, Trento, Trieste...). Tutto lasciava credere che sulla scia del centenario dell'intervento nella Grande Guerra e della Vittoria del 4 novembre 1918 quello della Tumulazione del Milite Ignoto sarebbe stato ricordato degnamente. L'attesa, va detto con franchezza, è andata pesantemente delusa. Senza voler spargere sale sulle ferite, i due “manifesti” approntati con egida dei massimi livelli (inclusa la Presidenza del Consiglio dei ministri, ovvero l'ignaro Mario Draghi) sono risultati grossolanamente sbagliati: errori marchiani, imbarazzanti e inescusabili. Arrampicandosi sui vetri, l'apposita “struttura” ha addotto attenuanti risibili: i tanti impegni (un Centenario si improvvisa all'ultimo minuto...?) e addirittura la difficoltà di accedere a chissà quale “fonte” per sapere come era  fatto l'elmetto del fante italiano.

Fu così che nel “manifesto” del Ministero della Difesa (a quanto pare non affisso: le copie in circolazione diventeranno una sorta di “Gronchi-rosa”) è stato “stampato” un soldato con elmetto francese, anacronistiche stellette sul bavero e un tricolore stropicciato fra le mani, naturalmente senza ombra di scudo sabaudo. Fa il paio con il manifesto precedente, sul quale, anziché un Milite italiano, era raffigurato un soldato americano sullo sfondo di una carta geografica dell’America Latina...

Lo Stato non ha diritto di declassare la Storia a mera fiaba a fumetti. Men che meno nel ricordo del Milite Ignoto, simbolo del sacrificio della Nazione per il coronamento del Risorgimento.

Non bastasse la RAI la sera del IV novembre in “La scelta di Maria” ha narrato il Milite Ignoto focalizzando tre “personaggi”: Maria Maddalena Bergamas, deputata a scegliere la salma da tumulare all'Altare della Patria fra le undici raccolte nella Basilica di Aquileia; uno degli ufficiali incaricati della ricognizione delle sepolture e il ministro della Guerra all'epoca in carica, Luigi Gasparotto.

A parte gli spezzoni tratti da riprese d'epoca (gli unici meritevoli di essere visti), il filmato risulta del tutto privo di valore “didattico”. Il suo filo conduttore è la guerra dell'Italia contro “gli austriaci”, anziché, come in effetti fu, contro gli Imperi Centrali (austro-ungarico e germanico), quello turco-ottomano e il regno dei Bulgari: cioè un conflitto europeo prima ancora che l'Italia vi intervenisse, sbagliando la tempistica, senza adeguata preparazione e con retropensieri (l'arcaico “sacro egoismo”: moneta vecchia in un mondo nuovo) che suscitarono l'irritata diffidenza dei suoi nuovi alleati, in specie Gran Bretagna e Francia.

 

Gli errori del governo prima e dopo la Vittoria

Lo sceneggiato ha enfatizzato il ruolo del ministro Luigi Gasparotto quale artefice e regista della Cerimonia. Gli ha attribuito meriti che non sono affatto suoi e non ne ha ricordato il profilo politico autentico. Insomma, non ha fatto in alcun modo “storia”. Per quanto superfluo e ripetitivo, i primi a celebrare il loro Milite Ignoto furono gli inglesi e i francesi, che dalla Grande Guerra uscirono “più vincitori” non perché fossero prevalsi sul campo di battaglia ma perché seppero prevalere al tavolo della pace.

L'Italia fu la prima potenza in lotta a sconfiggere gli avversari sul fronte bellico, con la battaglia di Vittorio Veneto, che costrinse Vienna ad arrendersi alle condizioni chieste dal Comandante Supremo Armando Diaz: il diritto degli italiani ad attraversare in armi il territorio nemico per colpire la Germania da sud. Quella dell'Italia fu una “vittoria strategica”, come era stata immaginata da Luigi Cadorna sin dalla preparazione dell'ingresso in guerra: irrompere dell'Austria-Ungheria per far esplodere l'insurrezione dei “popoli oppressi” che da metà Ottocento guardavano al modello italiano di Stato nazionale. Sennonché, dopo l'arretramento del fronte dall'Isonzo al Piave tra il 24 ottobre e il 9 novembre 1917, il nuovo governo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, consentì che i vertici militari (Cadorna, il suo vice, Porro, il comandante della II^ Armata, Luigi Capello...) venissero sottoposti a una “Inchiesta” che si risolse in pesante accusa di incapacità, soprattutto nell'interpretazione di molti quotidiani.

Al Congresso di Versailles la delegazione italiana (Orlando, il ministro degli Esteri Sidney Sonnino e i loro pochi e non sempre adeguati consiglieri) si condussero secondo criteri prebellici, tanto da essere sfiduciati alla Camera ancor prima della firma del Trattato tra i vincitori e la Germania, il 28 giugno 1919, quinto anniversario dell'assassinio di Francesco Ferdinando d'Asburgo e della consorte a Sarajevo: quasi una firma in calce all'attentato.

Nei mesi seguenti la polemica imperversò e lacerò il Paese, specie quando, in risposta al Trattato di pace con l'Austria (detto di Saint-Germain) risultò che l'Italia non aveva ottenuto Fiume, da mesi indicata quale annessione indispensabile per non rendere mutilata la vittoria. Sotto la guida del poeta- guerriero Gabriele d'Annunziò, debitamente istruito da logge e da cospiratori in divisa, reparti militari e volontari di vario orientamento (parecchi repubblicani fanatici) decisero di andare a prendere quello che era stato negato. La “questione di Fiume” divenne “italiana” perché si riverberò sull’instabilità del governo presieduto da Francesco Saverio Nitti, più volte in crisi per l'opposizione di socialisti (parte dei quali filosovietici) e del neonato partito popolare italiano, capitanato da don Luigi Sturzo.

 

I socialisti contro l'ordine costituito e la riscossa della monarchia 

L'acme della crisi politica si registrò il 1° dicembre 1919 quando i 156 deputati socialisti uscirono dall'Aula di Montecitorio cantando l'Internazionale proprio mentre Vittorio Emanuele III stava iniziando a pronunciare il Discorso della Corona per l'apertura della XXV legislatura. Da sociale ed economica la crisi stava precipitando in istituzionale. Nitti, che il 20 ottobre 1919 aveva proclamato festivo il 4 novembre rinviando però ogni festeggiamento in vista delle elezioni politiche del 16 novembre, dopo ripetuti rimpasti e il varo di un secondo governo (che durò poche settimane) cedette il campo al vero artefice della ricostruzione dell'Italia, il settantottenne Giolitti, monarchico e liberale senza se e senza ma, che operò di concerto con il re.

Mentre il colonnello Giulio Douhet (citato con elogio nel filmato RAI) mirava a contrapporre il Milite Ignoto alle gerarchie militari, alimentando una lacerazione che andava invece guarita, il governo puntò a restituire alle Forze Armate il prestigio conquistato sul campo. La prima grande “prova generale” avvenne il 4 novembre 1920, con la Festa delle Bandiere militari all'Altare della Patria. Per comprenderne l'importanza va ricordato che nel settembre precedente le regioni industrializzate (Piemonte, Liguria, Lombardia, qualche lembo della Toscana...) erano state teatro della “occupazione delle fabbriche” voluta dall'ala estrema del partito socialista italiano, capitanata dall'“Ordine Nuovo” di Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Palmiro Togliatti “e simili...”, convinti che potesse scaturirne la rivoluzione politica sull'esempio di quanto era avvenuto in Russia nell'ottobre 1917 incluso lo sterminio della Casa Reale.

Come previsto da Giolitti, l'“occupazione” si esaurì. Pochi giorni dopo la Festa delle Bandiere la coalizione governativa registrò due successi di rilievo: la vittoria di blocchi nazionali alle elezioni dei consigli comunali e provinciali (che non si rinnovavano dal 1914) e il Trattato italo-jugoslavo di Rapallo che il 12 novembre restituì a Fiume lo stato di corpus separatum, favorevole al prevalere dell'influenza dell'Italia senza bisogno del ricorso alle armi. Quando fece sgomberare d'Annunzio da Fiume (dicembre 1920), il governo ebbe il consenso della generalità del Paese, avviato alla “normalità”.

Da quel momento anche in Italia venne accelerata la celebrazione del Milite Ignoto, non per contrapposizione tra soldati e gerarchie ma per la loro unione.

Dopo le elezioni politiche del 15 maggio 1921 e l'inaugurazione della XXVI legislatura (11 giugno) in un clima di ritrovata coesione civile e di disciplina (parola d'ordine del re e del presidente del Consiglio), il 20 giugno venne presentato il disegno di legge “per la sepoltura di un soldato ignoto” in Roma, senza indicazione della sede scelta per la tumulazione. La celebrazione, affermò il ministro della Guerra Giulio Rodinò di Miglione, deputato del partito popolare italiano, rispondeva “alla coscienza che un popolo civile, uscito vittorioso dalla guerra”, aveva maturato “non solo della forza acquistata ma anche dei propri doveri verso quanti nella guerra trovarono morte gloriosa”.

Dinnanzi al dissenso del gruppo parlamentare dei Democratici sociali, capitanati dal teosofo duca Giovanni Antonio Colonna di Cesarò, Giolitti rassegnò le dimissioni. Ministro della Guerra del nuovo governo, presieduto da Ivanoe Bonomi, già socialista, poi socialista riformista e infine “democratico”, la più vaga delle etichette, fu nominato Luigi Gasparotto (Sacile, Udine, 3 maggio 1873 - Cantello, Varese, 29 giugno 1954).

 

Luigi Gasparotto: un “garibaldino” in cerca...

Quale fu il suo percorso politico? I videospettatori non ne hanno potuto capire nulla da “La scelta di Maria”. È quindi opportuno ricordarlo, poiché esso costituisce paradigma del marasma che dominò la vita pubblica italiana prima, durante e dopo la Grande Guerra. Figlio di un garibaldino fervente, seguace dell'Eroe nel 1866 e nella campagna del 1867 chiusa con lo sbandamento a Mentana sotto la fucileria francese, laureato in giurisprudenza a Padova, avvocato a Milano dal 1897, iscritto alla Società democratica lombarda, folta di massoni (ma non è affatto documentata la sua affiliazione: l'unico Gasparotto in loggia fu un Giuseppe, avvocato, iniziato il 1° dicembre 1892 alla “Arnaldo da Brescia”), a studi giuridici e ad articoli per la “Critica sociale” di Filippo Turati e Claudio Treves a sostegno del pubblico impiego (da lui definito “proletariato del pensiero”), Gasparotto unì militanza politica e ambizioni parlamentari.  

   Sconfitto nel 1909, fu eletto nel 1913 nel collegio Milano IV ove con 2214 voti prevalse sul cattolico moderato Carlo Ottavio Cornaggia per 134 preferenze su 6258 votanti e oltre 12.000 aventi diritto. Ottenne i il 20% dei voti potenziali. Avversario dell'“impresa di Libia” (per ostilità verso Giolitti più che per cognizione di causa), poi fautore dell'intervento nella Grande Guerra a fianco dell'Intesa anglo-franco-russa, il 27 maggio 1915 si arruolò volontario rinunciando all'esenzione riservata ai deputati e si condusse con valore meritando due medaglie d'argento, una di bronzo e due croci di guerra, cui si aggiunse la francese Legion d'Onore.

Da un Fascio all'altro

Dopo Caporetto fu tra i fondatori del “Fascio parlamentare di difesa nazionale” (10 dicembre 1917), che accomunò interventisti democratici (ignari dei vincoli sottoscritti dal governo) e nazionalisti ed ebbe il sostegno del “Popolo d'Italia” dell'ex socialmassimalista Benito Mussolini. “Fascio”, va ricordato, era un termine largamente usato dalla Sinistra radicale e repubblicana.  Tra i fondatori dell'Associazione nazionale combattenti, nel dopoguerra Gasparotto avversò i governi Nitti e Giolitti. In vista delle elezioni del 1919 propugnò il conferimento del diritto di voto attivo e passivo alle donne. Il disegno di legge, approvato dalla Camera il 5 settembre 1919, decadde per lo scioglimento della legislatura. Candidato nella lista degli ex combattenti e eletto a Milano e nella circoscrizione Udine-Belluno, optò per il secondo. Tra i componenti del gruppo parlamentare Rinnovamento nazionale, nelle elezioni politiche del 1921 fu candidato nelle circoscrizioni di Milano-Pavia e Udine-Belluno nelle file del Blocco nazionale comprendente liberali, democratici, ex combattenti e fascisti. Vicepresidente della Camera (13 giugno 1921), fu voluto da Bonomi al dicastero della Guerra (4 luglio 1921-26 febbraio 1922). La sua opera di ministro è sapidamente ripercorsa da Angelo Gatti. Gasparotto propugnò la “nazione armata”: riduzione della “ferma” a 12 mesi per formare un esercito bilanciato di 20 divisioni, sorrette da centri di mobilitazione permanente, pronti a mobilitarne altre 20 divisioni in caso di guerra. Dall'infanzia entrambi i sessi dovevano essere formati con esercizi pre-militari, da affiancare all'insegnamento scolastico orientato al culto della tradizione mazziniano-garibaldina. In concreto puntava alla militarizzazione permanente dei cittadini, poi propugnata dal regime, sino alla retorica mitizzazione degli “otto milioni di baionette”.

Come scrive il suo biografo Lucio D'Angelo, Gasparotto mostrò notevole indulgenza verso il fascismo, come la maggior parte dei demosociali e dei liberali. Il movimento era considerato utile per ripristinare l'ordine dopo il biennio rosso e il perdurante dilagare della scioperomania. D'intesa con Cesare Maria De Vecchi, futuro quadrumviro, e il nazionalista Luigi Federzoni, tra il settembre e l'ottobre 1921 Gasparotto condusse in porto la complessa ricerca del Milite Ignoto e la sua tumulazione al Sacello della Dea Roma sulla terrazza dell'Altare della Patria: una Cerimonia il cui “Sommo Sacerdote” non furono né lui né Bonomi ma il Re, Vittorio Emanuele III, pressoché ignorato dalla “Scelta di Maria” otre che dalle rievocazioni “ufficiali” del Centenario.

Il 17 dicembre 1922 Gasparotto votò a favore del presidente del Consiglio Benito Mussolini, fidente nel “suo cuore di soldato e di cittadino”. Del nuovo governo faceva parte il demosociale Colonna di Cesarò, ministro di Poste e Telegrafi. Già propugnatore dell'alleanza di liberali, nazionalisti, fascisti e demosociali nel rinnovo del consiglio comunale di Milano (dicembre 1922), alle elezioni del 6 aprile 1924 si presentò nelle file della Lista Nazionale comprendente nazionalfascisti e tanti “ex” liberali, come Orlando ed Enrico De Nicola, popolari, democratici... Eletto vicepresidente della Camera, Gasparotto rimase in Aula anche dopo l'”affare Matteotti”, come la pattuglia dei “liberali doc” (Giolitti, Marcello Soleri ed Egidio Fazio) e i Comunisti d'Italia.

Dopo lo scioglimento della Camera (1928) si appartò dalla vita politica. Sulla scia di Garibaldi, scrisse romanzi storici quasi subito obliati. Vi si riaffacciò nel 1942. Nominato commissario dell'Associazione nazionale ex combattenti da Pietro Badoglio (11 agosto 1943), riparò in Svizzera per sottrarsi al prevedibile arresto. Chiamato in Italia (come Luigi Einaudi e altri) su indicazione di Bonomi, presidente del consiglio in successione a Badoglio, Gasparotto fu ministro dell'Aeronautica e successivamente dell'Assistenza postbellica nel governo De Gasperi. Aderì all'evanescente Democrazia del Lavoro (come Bonomi e Meuccio Ruini). Candidato all'Assemblea Costituente per l'Unione democratica nazionale (comprendente anche monarchici) ebbe un esito modesto ma risultò eletto nel collegio unico nazionale.

Da laicista coerente, alla Costituente avversò l'inserimento dei Patti Lateranensi nella Carta e propose la sostituzione del servizio militare obbligatorio con un esercito di volontari. Senatore di diritto nella I^ legislatura repubblicana, declinò l'offerta della presidenza della Camera Alta propostagli dalla maggioranza governativa (democristiani, socialdemocratici, repubblicani e liberali) in vista della discussione della riforma elettorale che previde il “premio” in seggi alla coalizione che ottenesse il 50% dei voti più uno. Dai socialcomunisti e da brandelli di “laici” essa fu demonizzata come “legge truffa”. Avrebbe garantito quella stabilità di cui l'Italia aveva bisogno anche dopo la sua adesione all'Alleanza Atlantica e alla Nato, di cui egli era stato fautore.

La tormentata vita politico-partitica-parlamentare della prima metà del Novecento ebbe dunque in Luigi Gasparotto un esponente di seconda fila ma interessante, sia per la sua opera di deputato e di ministro, sia per far comprendere perché non rese corpo un partito “di centro” (liberale, democratico, riformatore) capace di ammodernare l'Italia. I “costituzionali” si frantumarono in tanti gruppi parlamentari, clan regionali, clientele di capifila contrapposti da animosità inestinguibili (Giolitti, Nitti, Orlando...) e a volte inetti (Facta). Il torto peggiore di quei “centristi” fu la loro incapacità di accettare lealmente l'istituto monarchico, a tutto vantaggio degli avversari del Risorgimento: clericali e socialcomunisti.  

Il figlio di Gasparotto, Poldo, comandante delle formazioni partigiane di “Giustizia e Libertà” in Lombardia, venne assassinato nel campo di concentramento di Fossoli, vicino a Carpi: una pagina tragica. L'itinerario politico di Luigi Gasparotto i Luigi aiuta a comprendere l'ingovernabilità che anche oggi  affligge l'Italia, sempre in cerca di stabilità istituzionale e bisognosa non di “manifesti” erratici né di fiction televisive ma di verità storica.

Aldo A. Mola