di Aldo A. Mola
Un Triumviro a Civezza
«Triumviro della Repubblica Romana/ patriota,
scrittore/ ansioso dell'avvenire d'Italia/ Aurelio Saffi/ 1819-1890/ dimorò in
questa casa/ dei Goglioso/ prima d'intraprendere/ la via dell’esilio.»
È il
testo della lapide murata a Civezza nell'anno 2000 per ricordo della breve
sosta di Saffi, scampato all'irruzione dei quarantamila soldati mandati da
Luigi Napoleone, principe-presidente della Repubblica francese, a diroccare la
Repubblica Romana, spazzare via il triumvirato che la guidava (Saffi, appunto,
insieme a Carlo Armellini e Giuseppe Mazzini) e restituire Roma a papa Pio IX.
Il primo a lasciare la Città Eterna il 2 luglio 1849 fu Giuseppe Garibaldi. Ai
circa 2.000 volontari, che lo seguirono verso la lontana Venezia, che ancora
resisteva al ritorno dell'Austria, promise “lacrime e sangue”. Dopo faticosa
marcia, il Generale sciolse la Legione. Tra i suoi ultimi seguaci, Angelo
Brunetti, detto Ciceruacchio, i suoi figli Luigi e Lorenzo, ancora adolescenti,
e il barnabita Ugo Bassi furono catturati dagli austriaci e fucilati. Morta la
moglie Anita nella tenuta Guiccioli (4 agosto), Garibaldi venne guidato da una
“trafila” di patrioti dal capanno nella pineta di Ravenna a Cala sul Tirreno.
Raggiunse la Liguria, ma la sua presenza era troppo imbarazzante per il
governo. Riprese la via dell'esilio, che aveva conosciuto dal lontano 1834,
dopo il fallimento del primo moto mazziniano: Tangeri e poi New York...
Il 1°
ottobre 1848 Aurelio Saffi era stato eletto deputato alla Camera dei deputati
del regno di Sardegna con il voto di 18 dei 63 aventi diritto nel collegio
genovese di Cicagna.
Sin
dalla promulgazione dello Statuto albertino (4 marzo 1848), invero, nel regno
di Sardegna – unico stato pre-unitario che conservò l'elettività alle cariche
anche dopo la Restaurazione asburgo-borbonica del 1849 – il voto non era
obbligatorio. L'elettore non incorreva in alcuna penalità se non si recava al
seggio. Del pari si dette per scontato che i deputati, liberi da qualsiasi
vincolo di mandato e rappresentanti “della nazione”, dovevano rappresentare non
solo gli elettori e i votanti ma anche chi era privo del diritto di voto. Nel
1861 la legge elettorale del regno sardo, elaborata da politici lungimiranti
quali Cesare Balbo, Luigi Francesco Des Ambrois di Nevache e Camillo Cavour, fu
adottata da quello d’Italia. Suscitò qualche malcontento, sia perché azzerò
alcune norme “più avanzate” vigenti nei domini asburgici, sia perché non ampliò
il diritto di voto, come sollecitato dai seguaci di Mazzini e di Garibaldi e da
quanti rimpiangevano la Costituzione della Repubblica Romana del 1849, fondata
sulla “sovranità popolare”.
A
legge elettorale invariata e con un numero di elettori “politici” fermo a circa
600.000 su 22 milioni di abitanti (quelli dei consigli provinciali e comunali
erano più del doppio rispetto a quanti eleggevano i deputati), la Camera eletta
a inizio 1861 fu rinnovata nel 1865, dopo il trasferimento della capitale da
Torino a Firenze, nel 1867, dopo l'annessione del Veneto euganeo, e nel 1870,
con la “presa” di Roma e del Lazio. I seggi salirono a 508 e tali rimasero sino
alle elezioni del 1921, quando alle urne furono chiamati anche gli elettori del
Trentino e della Venezia Giulia. Nel 1870 votò appena il 44,5% degli aventi
diritto. In Toscana i votanti furono solo il 32%, con la punta minima a Livorno
(16,3%). L'astensione era predicata dal clero su direttiva della Sacra
Penitenzieria vaticana che nel 1866 aveva autorizzato il voto “salvis legibus
divinis et ecclesiasticis”, dal 1868 aveva proclamato il “non expedit” (“non è
opportuno”), precisando poi che quella formula significava “prohibitionem”. Tuttavia
in molti collegi i cattolici andavano ai seggi per impedire l'elezione di
candidati “pericolosi”: garibaldini, mazziniani e, pessimi tra tutti, massoni,
in un'età nella quale Pio IX bollava le logge come “sinagoghe di Satana”.
Rivoluzionari alle urne
Sic stantibus rebus, la “sinistra”
sentì l'urgenza di riflettere su quanto fosse opportuno e/o necessario fare per
accelerare le riforme di cui tutti sentivano bisogno e per “guarire la gran
piaga della miseria “ (parole di Garibaldi). Occorrevano convergenze tra
pionieri del Risorgimento e liberali già militanti nella sinistra democratica
dai tempi del connubio di “centro-sinistro” (sic) tra Cavour e Urbano
Rattazzi. Proprio la prudenza dei governi della Destra Storica presieduti da
Giovanni Lanza e Marco Minghetti spingevano i riformatori a passare
dall'“astensione” alla “partecipazione”. L'intransigenza repubblicana ormai
faceva il gioco dei reazionari. A dare l'esempio era appunto Garibaldi, via via
rieletto deputato nei collegi di Corniglio, Nizza Marittima, Milano, Corleto,
Napoli... “Rivoluzionario”, innalzava l'insegna “Italia e Vittorio Emanuele”.
Insomma, bisognava passare il Rubicone e fare i conti con la “monarchia
rappresentativa”. Come poi spiegò Giosue Carducci, erano stati i “patrioti” a costringere
Vittorio Emanuele II a prendere sulle spalle il “brut fardèl” dell'unificazione
nazionale, a invadere Legazioni, Umbria, Marche e, annesso il Mezzogiorno, a
irrompere in Roma. “Monsù Savoia”aveva anche lasciato Torino per Firenze. E
pagava il prezzo più alto: la “scomunica” e l'esclusione dai sacramenti
fulminata da Pio IX contro il re, il governo, il parlamento, l'intera classe
dirigente della Terza Italia. I democratici “adulti”, dunque, non potevano
voltare le spalle alla monarchia rappresentativa.
Il Marco Aurelio della Terza Italia: dai
ceppi...
Nell'estate del 1874 il governo del regno
d'Italia era presieduto dal bolognese Marco Minghetti, con l'antico mazziniano
Emilio Visconti-Venosta agli Esteri, Antonio Scialoja all'Istruzione, Silvio
Spaventa ai Lavori Pubblici, Onorato Vigliani alla Giustizia: patrioti seri e
intemerati. Garibaldini, mazziniani e radicali raccolti nella Consociazione
romagnola decisero di discutere la linea da tenere nelle imminenti elezioni
politiche. Il 1° agosto, da Caprera, Garibaldi scrisse a Celso Ceretti, ad
Aurelio Saffi e al colonnello Cesare Valzania: «Ai fratelli nostri dei paesi
che andate a percorrere, un saluto di cuore; e procurate di inculcare
nell'animo loro che Massoni, Carbonari, Internazionali, ecc. devono schierarsi
sotto il vessillo repubblicano, che, uniti, potrà condurci al compimento della
nostra missione.» Era una dichiarazione di guerra contro la Corona? Niente
affatto. Da anni l'Eroe esortava i “progressisti” a scendere nell'arena
parlamentare. Bisognava stare in Parlamento per usare le leve del potere a
beneficio degli esclusi dal voto, dei “dimenticati”.
Il 2
agosto avvenne l'inverosimile. Ventotto “consociati romagnoli” si radunarono a
Villa Ruffi, sul colle di Covignano, presso Rimini. A presiederli fu Aurelio
Saffi. Il ministro dell'Interno, Gerolamo Cantelli di Rubbiano, li fece
arrestare come pericolosissimi cospiratori. Furono tradotti in catene nel
carcere-fortezza di Spoleto. In realtà stavano prendendo le distanze dai
rivoluzionari veri, che diffondevano in Italia il programma della Commune
soffocata nel sangue a Parigi. Lì gli internazionalisti (o comunardi) che non
caddero durante l'espugnazione della città da parte delle truppe inviate dal
governo, provvisoriamente insediato a Bordeaux, furono fucilati contro il muro
del cimitero Père Lechaise o deportati nella Nuova Caledonia. Della loro utopia
non doveva rimanere traccia. Quel dramma segnò la drastica divisione delle
“sinistre” non solo in Francia ma in tutta l'Europa e oltre Atlantico. Lo
spartiacque fu appunto la condotta sull'“emancipazione popolare”.
Gli
internazionalisti non avevano dubbi: in tutte le sue componenti la borghesia
era complice della “reazione”, patto scellerato tra somma Corone e Altari.
Quindi andava eliminata a costo di un bagno di sangue. Un'altra
“internazionale”, però, quella ispirata dalla massoneria universale, riteneva
invece che al “progresso” si arrivava attraverso l'educazione, persona per
persona. Gli internazionalisti paleo-marxisti erano contrari a qualsiasi
collaborazione con le “istituzioni”, dalle amministrazioni locali ai governi.
All'opposto, i “democratici”miravano a valersene per accelerare il
miglioramento delle moltitudini. Alla luce della storia diffidavano delle
“masse” e delle “rivoluzioni”, che si traducevano in stragi e riportavano
all'indietro le lancette dell'incivilimento.
Quello,
appunto, era il rovello di quanti si raccolsero a Villa Ruffi. Tra loro
spiccavano due politici di lungo corso: Marco Aurelio Saffi (1819-1890) e
Alessandro (Sandrino) Fortis (1841-1909). Entrambi nativi di Forlì,
rappresentano due stagioni del “secolo lungo” che in Italia andò dalla
Restaurazione del 1814-1815 alla nuova Guerra dei Trent'anni” (1914-1945).
...all'esilio.
Primo dei quattro figli del conte Girolamo,
laureato in legge e filosofia a Ferrara, nel 1843 il ventiquattrenne Saffi si
trasferì a Roma ove entrò nella cerchia del console degli Stati Uniti d'America
G.M. Green. Eletto deputato alla Costituente istituita da Pio IX, dopo la fuga
del papa da Roma a Gaeta, Saffi fu tra quanti tra l'8 e il 9 febbraio 1849
proclamarono l'abolizione della sovranità pontificia e l'avvento della
Repubblica proposta da Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino, e da
Garibaldi (Mazzini arrivò a cose fatte).
Crollata
la Repubblica, l'11 luglio Saffi partì con il medico Vincenzo Goglioso alla
volta di Genova. In una lettera alla madre descrisse con toni lirici la vista
dal mare della costa ligure e della Superba. Ai due fu negato l'approdo. Pochi
mesi prima a Genova era divampata una rivolta repubblicana, schiacciata da
Alfonso La Marmora con pugno di ferro perché il regno usciva dalla sconfitta di
Novara, doveva scrollarsi di dosso le condizioni più grevi della pace con
l'impero d'Austria e non poteva certo accogliere a braccia aperte esponenti
della appena naufragata Repubblica Romana. Sbarcarono a Porto Maurizio e
raggiunsero casa Goglioso a Civezza, borgo arroccato sopra San Lorenzo. Pochi
giorni dopo carabinieri e gendarmi li arrestarono e li tradussero a Genova.
Espulso dal regno di Sardegna (15 agosto), Saffi raggiunse Ginevra, poi
Losanna. Su pressione dell'Austria, anche il governo elvetico gli intimò di
andarsene. Raggiunse Mazzini a Londra. “Lettore” di italiano all'università di
Oxford, conobbe e sposò Giorgina Crawford, nata a Firenze e mazziniana. Ne ebbe
quattro figli dai nomi patriottici, come Attilio ed Emilio, in onore dei
fratelli Bandiera, nel 1844 fatti fucilare da Ferdinando II di Borbone nel
vallone del Rovito (Cosenza). Nel 1860 raggiunse Mazzini a Napoli. Il 7 aprile
fu eletto deputato nel collegio di Acerenza (Basilicata). Si dimise con altri
esponenti della sinistra democratica nel 1864 per protesta contro le misure
repressive del “brigantaggio meridionale” che, ormai privo di sostegni dall'estero
e dopo la truce stagione delle esecuzioni sommarie, chiusa grazie alla Legge
Pica, andava affrontato con riforme socio-economiche anziché con le armi. Nel
1867, dopo una seconda stagione in Gran Bretagna, ove conobbe lord Palmerston,
che lo apprezzò, Saffi tornò nella sua tenuta di San Varano, presso Forlì, nel
cui collegio era stato eletto deputato. Dal 1873 assunse la guida dei
mazziniani con Maurizio Quadrio, genero di Garibaldi, e Federico Campanella,
gran maestro del Grande Oriente incardinato nel Mezzogiorno e forte di migliaia
di affiliati, tra i quali parecchi ecclesiastici.
Il Magistero di Aurelio Saffi
Ammanettati, incatenati due a due e tradotti in
treno a Spoleto, gli “arrestati di Villa Ruffi” (come Saffi, Fortis, Felice
Dagnino… subito vennero detti) furono ammassati tutti insieme in uno stanzone,
senza che neppure fosse stato spiccato nei loro confronti un ordine di cattura.
Pura “bestialità” come deplorò Giosue Carducci. Per un attimo si temette il
peggio. L'anarchico russo Michail Bakunin diramò il Manifesto del comitato
italiano per la rivoluzione sociale che incitò: «Allo schiavo esser suo primo dovere
quello di insorgere e ai soldati quello di disertare.»
Seguirono
altri arresti: il “fratello”Andrea Costa, allievo di Carducci e dal 1882 primo
deputato socialista, e Alberto Mario (non massone), di cui molto e bene ha
scritto Gianpaolo Romanato. Le elezioni dell'8-15 novembre 1874 segnarono
l'avanzata delle sinistre, soprattutto nel Mezzogiorno. Saffi fu eletto
deputato nel collegio di Rimini. Mentre Cantelli progettava di dichiarare fuori
legge le opposizioni democratiche con la condanna al domicilio coatto da uno a
cinque anni per gli avversari del governo, il primo a intuire la necessità di
una svolta vera fu Vittorio Emanuele II, che nel 1875, affiancato dal generale
Giuseppe Medici, antico garibaldino, ricevette Garibaldi al Quirinale.
Sorreggendosi sulle grucce per i perenni postumi della ferita subita ad
Aspromonte, il Generale illustrò al re il progetto per fare di Roma una città
moderna: arginare il Tevere, aprire un porto commerciale a Ostia e collegarlo
con un canale alla Città Eterna, dotata di area industriale. “Agricoltore”(come
sin dal 1848 si era fatto registrare alla Camera dei deputati), Garibaldi
parlava non solo per chi disertava le urne, ma soprattutto per chi, essendo
privo del diritto di voto, si attendeva riforme vere dalle classi dirigenti.
Il 18
marzo 1876 il governo Minghetti fu messo in minoranza. Il Re incaricò Agostino
Depretis, massone, di formare il primo ministero nettamente di sinistra, con
all'Interno Giovanni Nicotera, sopravvissuto di misura alla spedizione guidata
da Carlo Pisacane nel Mezzogiorno, finita tragicamente presso Sapri. Vittorio
Emanuele II precorse e “benedisse” la svolta con il conferimento del laticlavio
senatoriale ad antichi cospiratori definitivamente alleati della Corona:
Vincenzo Malenchini, Giovanni Battista Michelini, Mariano d'Ayala, Giovanni
Garelli, Achille Rasponi, Vincenzo Sprovieri, Angelo Bargoni, Francesco Magni,
Giuseppe Manfredi, Jacopo Moleschott...
Eletto
un'ultima volta dalla sua nativa Forlì nel 1887, alla testa dell’Associazione
democratica bolognese e promotore dell'unificazione dei Supremi consigli del
Rito scozzese antico e accettato, con i “fratelli” Carducci e Ceneri il 28
dicembre 1886 Saffi venne chiamato dal gran maestro Adriano Lemmi nella celebre
loggia “Propaganda massonica”: un concentrato di personalità di spicco della
Terza Italia, vera e propria “vetrina” di esperienze e di valori patriottici
per far quadrato attorno alla Corona, pilastro del rinnovamento civile, come si
vide con il nuovo codice penale (dovuto a Giuseppe Zanardelli iniziato
trent'anni prima in una loggia di Torino) che abolì la pena di morte, ponendo
l'Italia all'avanguardia della civiltà.
Quel
“mondo” va riscoperto e compreso oggi, quando le votazioni segnano la
divaricazione tra eletti e delusi, tra mestieranti del potere e quanti
s’interrogano sul futuro della democrazia parlamentare. Il dubbio è destinato a
divenire più assillante col rinnovo del Parlamento europeo: un appuntamento che
sta all’Italia odierna come gli eventi di un secolo e mezzo addietro stettero a
quella appena nata, quando i “popoli d'Italia” nel volgere di pochi anni furono
avviati all'unità e alle libertà grazie a leggi d'avanguardia e con le enormi,
costose ma indispensabili infrastrutture che fecero da volano per il progresso
civile ed economico-sociale.
Quando
il 10 aprile 1890, appena settantenne, si avviò all'Oriente Eterno, Marco
Aurelio Saffi aveva motivo di ritenersi pago del ruolo svolto per l'Italia e
per la Fratellanza Universale, nella cui Famiglia era entrato nel marzo 1862,
quando fu iniziato massone nella loggia “Dante Alighieri” di Torino. Curatore
delle opere di Mazzini, era del tutto contrario ai repubblicani “intransigenti”
che gareggiavano con i socialisti nell'opposizione contro le Istituzioni, a
tutto vantaggio dei reazionari e dei clericali, nemici giurati del Risorgimento
e dello Stato d'Italia.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA. Marco Aurelio Saffi (Forlì, 13
ottobre 1819-10 aprile 1890), Acquerello di Angela Suozzo.
La sua
figura e i suoi “tempi” sono stati rievocati a Forlì nel Convegno “Aurelio
Saffi: eroe dimenticato del Risorgimento” organizzato dall’Associazione
Culturale Aurelio Saffi, con interventi di Roberto Slaviero, Presidente del
Collegio circoscrizionale Emilia-Romagna del Grande Oriente d'Italia; Umberto
Pasqui e Claudio Servadei. Nell'occasione Alberto Urizio Kovereck ha presentato
il sontuoso volume, linguisticamente limpido e riccamente illustrato, “R∴(ispettabile)
(Loggia) A. Saffi, Or∴(iente) di Forlì” (ed. Risguardi, pp. 192).
Sulla scorta di innumerevoli documenti d'archivio (riprodotti in fotografia e,
quando necessario, trascritti a beneficio del lettore), esso ripercorre la vita
della massoneria in Forlì dalle origini al forzato scioglimento (1925) e dalla
rinascita (1945) alle nuove persecuzioni subite dall'Ordine con la
strumentalizzazione dell'“affare P2” e l'inchiesta avviata dal procuratore
Agostino Cordova, durata dieci anni e finita nel nulla. Solo bolle di sapone?
No, perché i massoni furono ripetutamente messi alla gogna, con gravi e spesso
irreparabili danni. Il “caso Italia”, unico in Europa e nel mondo civile,
merita di essere approfondito, anche per ricordare che la massoneria è vietata
solo nei regimi fondamentalisti e dai partiti che continuano a giurare sulla
veridicità dei “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”.