NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 10 ottobre 2023

Luigi Cadorna Restaurato il mausoleo a Pallanza

Da Tripadvisor
di Aldo A. Mola

     L'Italia di Luigi Cadorna è raffigurata nell'altorilievo in bronzo di Davide Calandra sovrastante lo scranno del presidente della Camera dei deputati a Monte Citorio. Lo si può osservare più volte al giorno in televisione. Al centro domina la Monarchia costituzionale, fiancheggiata dalla Diplomazia e dalla Forza, il cui impiego, insegnò Carl von Clausewitz in “Della guerra” ne è la prosecuzione con altri strumenti. Luigi Cadorna, come suo padre Raffaele, suo zio Carlo e suo figlio Raffaele, fu militare nutrito di pensiero politico e istituzionale, con una visione ampia della storia dei popoli. Fu anche, e rimane, specchio dei nodi irrisolti dell'Italia nata dalla lunga preparazione risorgimentale ma infine sorta nel volgere di pochi mesi e, di seguito, impegnata a consolidare i muri portanti a scapito della armonia tra le sue componenti.

     Il Regno d'Italia che, mutata la forma istituzionale, continua nella Repubblica, nacque nel marzo 1861 dal concorso della diplomazia e della spada sotto le insegne dei sovrani sabaudi, sue fondamenta. Alla sua base esso ebbe lo Statuto promulgato il 4 marzo 1848 dal re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia-Carignano. Quel cammino coronato da Vittorio Emanuele II, primo Re d'Italia, e, dopo gli anni di Umberto I (1878-1900), da Vittorio Emanuele III, durante il cui regno lo Stato raggiunse il massimo di espansione territoriale con il confine al Brennero e al Quarnaro e l'annessione di Fiume.

    La premessa del percorso che condusse alla proclamazione del Regno fu il regio editto del 27 novembre 1847, che rese elettivi i componenti dei consigli comunali, provinciali e divisionali, e lo Statuto che trasformò la monarchia amministrativa in monarchia rappresentativa e istituì il Senato di nomina regia e vitalizia e l'elezione della Camera dei deputati. Quelle riforme generarono l'avvento di una vastissima e partecipe classe dirigente, politica e amministrativa, formata dall'intreccio e dalla somma di nomine e di esiti delle leggi elettorali, prospettate dallo Statuto e via via deliberate dal Parlamento.

      Come ribadito dalla Costituzione della Repubblica, già lo Statuto precisò con chiarezza identità e prerogative del Capo dello Stato: “comanda tutte le forze di terra e di mare”. Non fu altrettanto preciso quando enunciò che il re “dichiara la guerra, fa i trattati di pace, di alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l'interesse e la sicurezza dello Stato il permettano...”. All'alba della monarchia rappresentativa non distinse con la differenza tra deliberare, dichiarare e proclamare la guerra, tre “momenti” separati per la diversità dei suoi “attori”.

      Lo Statuto tacque su corpo diplomatico e assetto delle forze armate, in specie sul comando dell'esercito: un interrogativo che si pose all'indomani della prima non fortunata fase della guerra del 1848. Il nodo Re-ministro della guerra-comandante dell'armata era e rimase ingarbugliato perché per Statuto il potere esecutivo apparteneva “al re solo”, però “responsabile” non era il sovrano; lo erano i ministri.

L’equivoco” (come scrisse l'insuperato Piero Pieri nella “Storia militare del Risorgimento”) venne temporaneamente risolto il 7 febbraio 1849 con la nomina del generale polacco Wojchiech Chrzanowski al comando dell'Armata “sotto la sua responsabilità, in nome del Re”, come “general maggiore dell'Esercito”, “con “comando effettivo”. L'ambiguità si ripresentò nel 1859 quando, aggredito dall'Austria, il regno di Sardegna entrò in guerra forte dell'alleanza con Napoleone III, e nel 1866, quando, i generali Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini ebbero il comando delle due armate schierate contro l'impero d'Austria e operarono senza l'indispensabile coordinamento.     

   La legge 29 giugno 1882, n.831 istituì il Capo di stato maggiore dell'esercito. Ne furono titolari Enrico Cosenz (1882-1893), Domenico Primerano (sino al 1896, dopo Adua), entrambi già allievi della borbonica Scuola Militare Nunziatella di Napoli, e il torinese Tancredi Saletta. Quando nel 1908 questi fu collocato a riposo il generale più anziano e quindi vocato alla successione (“l'anzianità fa grado” recitava un efficace brocardo) era il cinquantottenne Luigi Cadorna (Pallanza, 4 settembre 1850-Bordighera, 21 dicembre 1928) dal 1907 al comando della Divisione militare di Napoli. Come egli stesso scrisse in Pagine polemiche e venne ribadito nella biografia scrittane da Perluigi Romeo di Colloredo Valls (2021), con procedura inconsueta la “successione” fu subordinata ad “accertamento”.  Secondo il regio decreto 14 novembre 1901, n. 466 tra le questioni di ordine pubblico e di alta amministrazione da sottoporsi al Consiglio dei ministri vi erano “le nomine e destinazioni dei comandanti di corpi di armata e di divisioni militari; le nomine del capo di stato maggiore dell'esercito e del primo aiutante di campo di S.M. il Re”.

   In vista della sostituzione di Saletta, da tempo malato, l'8 marzo 1908 il generale Ugo Brusati, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, chiese a Cadorna di dichiarargli “schiettamente” se davvero, come pareva da voci in circolazione, subordinasse la nomina a capo di stato maggiore all'ampliamento per legge dei suoi poteri soprattutto in vista di una guerra. La risposta fu netta: “S(ua) M(aestà) che dallo Statuto è creato Comandante Supremo, è pur dallo stesso dichiarato irresponsabile. Ma il comando non può neppure esistere senza un responsabile il quale perciò non può essere che il capo di S(tato) M(aggiore). Ma la responsabilità ha per necessario correlativo: 1. La libertà d'azione nella condotta delle operazioni; 2. La libertà d'azione nella preparazione della guerra in ciò che ha rapporti colle operazioni; 3. La esclusione dagli alti comandi di coloro che non ispirano la necessaria fiducia”. Cadorna non intendeva mettere in discussione le prerogative statutarie del sovrano ma osservò che il decreto legge 4 marzo 1906 aveva definito i poteri del capo di stato maggiore in tempo di pace ma non in guerra. “A deliberare, concluse, dev'essere uno solo: il responsabile”.

    Il 1° luglio 1908 capo di stato maggiore venne nominato il casertano Alberto Pollio di due anni più giovane di Cadorna. Imperando Giolitti, che impose a Vittorio Emanuele III l'immediato collocamento a riposo di Vittorio Asinari di Bernezzo, per alcune sue parole di sapore irredentistico, Cadorna ritenne ormai improbabile l'ascesa al vertice dell'esercito. La sua esclusione da comandi operativi negli anni seguenti ne suscitò reazioni sdegnate. Il 23 agosto 1912 a proposito della ventilata nomina del generale Ragni a governatore civile e militare della Libia al figlio Raffaele scrisse: “Nominare un altro senza neppure dirmi crepa sarebbe un vero schiaffo datomi in piena guancia”. Avrebbe risposto con la richiesta ipso facto del collocamento a riposo.    

 
    La notte del 1° luglio 1914, quattro giorni dopo l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo a Sarajevo per mano di un terrorista serbo eterodiretto, Pollio morì improvvisamente a Torino. Sulle cause e le circostanze del suo decesso furono ricamate insinuazioni e leggende. Dal 20 marzo 1910 Cadorna era comandante della IV divisione militare (Genova-Piacenza). Ormai prossimo al congedo per motivi di età, stava progettando di prendere casa in Liguria. Il 10 luglio fu nominato capo di stato maggiore. Presidente del Consiglio da quattro mesi era Antonio Salandra, in successione a Giolitti; ministro degli Esteri era il catanese Antonino Parternò Castello, marchese di San Giuliano, il “politico” italiano più stimato da Vittorio Emanuele III. Nel volgere di poche settimane esplose la Conflagrazione europea: sequenza di mobilitazioni, ultimatum, dichiarazioni di guerra. Appena insediato, sulla scia del predecessore Cadorna approntò il piano di intervento a fianco di Vienna e Berlino, cui Roma era legata dal trattato difensivo del 20 maggio 1882. Il progetto, da Cadorna pubblicato nel 1925, rimase agli atti.

    Mese dopo mese divenne chiaro che la guerra sarebbe durata a lungo e che per l'Italia, vulnerabile su tutti i confini terrestri e marittimi e dipendente dall'estero per il proprio sistema produttivo e alimentare, sarebbe stato impossibile rimanerne fuori. Di lì la preparazione e, di seguito, la “mobilitazione occulta” orchestrata da Cadorna tra difficoltà e ritardi per portare lo strumento militare al livello necessario.     

    Senza informarlo, il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, dopo lunga segreta trattativa fecero sottoscrivere dall'ambasciatore d'Italia a Londra Guglielmo Imperiali l'“arrangement” del 26 aprile 1915. Solo il 6 maggio Cadorna fu sbrigativamente informato che l'Italia doveva intervenire entro due settimane. Ministro della guerra era il maggior generale Vittorio Zupelli. Il suo predecessore, Domenico Grandi, il 23 settembre 1914 aveva comunicato al governo le condizioni dell'esercito in vista di una mobilitazione generale concludendo che non si trovava nel complesso nelle condizioni desiderabili “per affrontare senza preoccupazione una campagna di guerra”. L'esercito avrebbe fatto “come sempre, il proprio dovere”, meglio se si fosse sentito “sospinto e accompagnato dal consenso del Paese” il cui miglior giudice però era il governo. Venne sostituito.

    Salandra e Sonnino compirono tre errori agli occhi della storia sconcertanti. Nel loro carteggio ammisero di essere andati oltre il consenso esplicito del re, del governo e senza maggioranza in parlamento. Impegnarono l'Italia a entrare in guerra entro 30 giorni dalla firma contro “tutte le potenze” dell'Intesa. A differenza di quanto aveva progettato San Giuliano, fautore di una Quadruplice Intesa, l'“accordo” (non vero e proprio Trattato) comportò l’“adesione” alla Triplice Intesa, non l'inclusione “alla pari”. Perciò l'Italia fu tenuta all'oscuro degli impegni assunti al suo interno dalla Triplice intesa. Il peso della guerra venne scaricato sul capo di stato maggiore, non consultato neppure sui “compensi” chiesti da Salandra e Sonnino, quasi la difesa dei futuri confini dell'Italia fosse una variabile esclusiva della “politica” anziché un pegno vincolante sotto il profilo militare per un Paese dal dominio coloniale già vasto, costoso e impegnativo: dall'Eritrea alla Somalia e alla Libia.

    Il precario equilibrio del governo Salandra-Sonnino fu sull'orlo di precipitare. Il 13 maggio 1915 il consiglio dei ministri verbalizzò: “considerando che intorno alle direttive del governo nella politica internazionale manca il concorde consenso dei partiti costituzionali che sarebbe richiesto dalla gravità della situazione, delibera di presentare a S.M. il Re le proprie dimissioni”. A mobilitazione ormai avviata, consultato per la seconda volta da Vittorio Emanuele III Giolitti, secondo il quale l’“accordo di Londra” non vincolava lo Stato ma solo il governo, declinò l'invito a formare un nuovo esecutivo. Nessun altro se ne fece carico. Al Re non rimase che inviare alle Camere il governo in carica. Il 17 maggio il consiglio dei ministri approvò “il disegno di legge da presentare alla Camera per delegazione di poteri legislativi in caso di guerra e per l'esercizio provvisorio”. Benché in larghissima maggioranza contraria all'intervento, il 20 maggio la Camera approvò la proposta con l'opposizione dei soli socialisti e molte assenze tra i costituzionali. L'indomani altrettanto fece il Senato, pressoché unanime.

  

   All'opposto di Giolitti, che prevedeva una guerra di molti anni, Salandra aveva lasciato intendere, e forse ne era persino convinto, che il conflitto sarebbe terminato entro l'autunno. Dal canto suo, perfettamente a giorno sulle condizioni effettive dello strumento militare, logorato dall'impresa di Libia e da decenni di investimenti inadeguati, Cadorna riteneva che l'Italia non potesse affrontare una guerra “grossa” (cioè di largo impiego di uomini e armi) belliche e “lunga”. Le condizioni effettive dell'esercito nella primavera del 1915 erano quelle pochi mesi prima descritte dal ministro Domenico Grandi e poi documentate nell'“Inchiesta sugli avvenimenti dall'Isonzo al Piave: 24 ottobre-9 novembre1917”. Disponeva di una mitragliatrice per ogni chilometro di fronte. Pressoché inesistente erano l'artiglieria pesante e l'aviazione. Si producevano 2500 fucili al mese, a fronte di un milione di uomini da mettere subito in campo. Occorrevano ufficiali e sottufficiali preparati.

   

    Eletta per la prima volta a suffragio maschile quasi universale nell'ottobre 1913, la Camera che nel maggio 1915 si era sentita ricattata da Salandra rimase in agguato.  Contro l'opinione (corrente non solo all'epoca) secondo la quale il Parlamento “non fa crisi” quando lo Stato è in guerra, nel giugno 1916, dopo la spedizione austro-ungarica di primavera, la Camera sfiduciò Salandra. Il nuovo esecutivo, presieduto dall'anziano Paolo Boselli, con sette ministri senza portafoglio e molti esponenti tiepidi nei confronti dell'intervento, ebbe all'Interno il siciliano Vittorio Emanuele Orlando che doveva garantire il sostegno del Mezzogiorno senza “provocare” le opposizioni. La “politica” risultò sempre più divaricata rispetto alle esigenze vitali dell'esercito illustrate da Cadorna a Boselli in quattro lettere del 6, 8 e 13 giugno e del 18 agosto 1917 mentre da mesi in Russia, dopo il rovesciamento dello zar, imperversava la rivoluzione. Con grado invariato, anche se correntemente detto “Comandante Supremo” e “Generalissimo”, Cadorna chiese ripetutamente quali misure il governo intendesse adottare per reprimere la propaganda socialista-pacifista e combattere “i nemici interni, altrettanto se non più temibili di quelli che abbiamo di fronte” (8 giugno) e così prevenire “il crescente spirito di rivolta tra le truppe” (13 giugno) anche a cospetto di gravi reati militari compreso il passaggio al nemico (18 agosto). Cosciente dei rischi cui erano esposti che il Paese e la Monarchia mentre dilagavano renitenza alla leva e diserzioni, a cominciare dalla Sicilia, Cadorna non esitò a deplorare: “il governo sta facendo una politica interna rovinosa per la disciplina e per il morale dell'Esercito, contro la quale è mio stretto dovere protestare con tutte le forze dell'animo”. Boselli (che aveva “paura fisica” di Cadorna) non rispose.

   Trattenendo l'irritazione, Orlando attese il suo momento. Questo venne con l'offensiva austro-germanica del 24 ottobre 1917. Secondo il piano predisposto anni prima da Cadorna, il fronte venne arretrato sulla linea dalla destra del Piave al Grappa, debitamente fortificato e ribaltò la sconfitta (non una “disfatta”) in battaglia d'arresto. Va ricordato che due mesi prima, a cospetto della decisione di Cadorna passare dallo schieramento offensivo al difensivo, inglesi e francesi ritirarono i cannoni avaramente “prestati” all'Italia.

   Lo stesso 24 ottobre, ancora ignara di quanto stesse avvenendo al fronte, la Camera sfiduciò il governo Boselli. All'emergenza militare si aggiunse quella politica. Mentre Cadorna orchestrava l'arretramento, in un colloquio con il Re Orlando subordinò l'accettazione dell'incarico di formare il governo alla sua sostituzione. Nuovo Comandante Supremo fu nominato Armando Diaz, che, a parte aspetti estrinseci, operò nel solco del predecessore, compresa l'applicazione del codice penale militare, consolidò l'Esercito grazie allo sforzo del sistema produttivo interno, sorretto dal lancio di nuovi prestiti nazionali e dall'assicurazione sulla vita dei combattenti per intervento dell'INA, e respinse le ingerenze del governo sul punto essenziale: il comando. Quando Orlando insisté per un'offensiva accampando che era meglio una nuova Caporetto che la stasi non rispose. A differenza del presidente del Consiglio era consapevole che una seconda sconfitta avrebbe rischiato la fine dell'Italia.

     Per alto senso del dovere verso la Patria Cadorna accettò di guidare la delegazione dell'Italia a Versailles, sede del comando interalleato. Era stato sempre il più coerente fautore della conduzione unitaria della guerra europea e, uomo del Risorgimento, contro i criteri di Sonnino (sino all'ultimo contrario alla dissoluzione dell'impero austro-ungarico), aveva propugnato l'offensiva dell'Italia su Lubiana e Zagabria per suscitare la rivolta dei “popoli senza Stato” che divampò nell'Europa orientale nell'ottobre 1918 e determinò il collasso degli Imperi centrali. A quel punto, però, Cadorna era già stato richiamato in Italia, “a disposizione” della Commissione d'Inchiesta sugli avvenimenti del 1917.

     Per giudizio unanime dei più illustri generali e storici militari dei diversi Stati in lotta, Luigi Cadorna fu il comandante più capace e lungimirante della Grande Guerra. 

  

Aldo A. Mola

       

DIDASCALIA. Il Mausoleo del conte Luigi Cadorna sul Lungolago di Pallanza. Il suo restauro viene festeggiato alle 10 di sabato 14 ottobre a Pallanza, con interventi del prefetto Michele Formiglio, del sindaco Silvia Marchionini e una Allocuzione del colonnello Carlo Cadorna. Su Luigi Cadorna v. Pierluigi Colloredo Valls, Luigi Cadorna. Una biografia militare, 2021, con ampia bibliografia; Luigi Cadorna-Carlo Cadorna, Caporetto? Risponde Luigi Cadorna, Roma, BastogiLibri, 2020; e Luigi Cadorna, La guerra alla fronte italiana fino all'arresto sulla linea della Piave e del Grappa, edizione anastatica, con introduzione di Aldo A. Mola, Roma, BastogiLibri, 2019.    

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