NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 30 novembre 2017

Armando Diaz: conferenza del Circolo Rex

CIRCOLO DI EDUCAZIONE E CULTURA POLITICA

REX

“il più antico Circolo Culturale della Capitale”

***

Dopo  Caporetto, poco si scrive della resistenza sul Piave  e  sul Grappa ed a chi si deve questa battaglia d’arresto e la successiva  battaglia  vittoriosa di Vittorio Veneto che pose  fine  alla  guerra  consacrando la vittoria dell’Italia  ed  il  completamento della sua Unità. Eppure  tutto  ciò  ha  un  nome: Armando  Diaz  e  su  questo  tema  parlerà

domenica  3 Dicembre, ore 10.30

Dr. Gian  Luigi  Chiaserotti: 

"Armando  Diaz , il  Duca  della  Vittoria”


Sala Roma, presso “Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), o 16/B (ingresso con ascensore)
raggiungibile  con  le  linee  tramviarie  “3”  e  “19”  ed  autobus, “ 910” ,” 223”  e “ 52”
***

Ingresso libero

mercoledì 29 novembre 2017

Io difendo la Monarchia II cap - i parte

Capitolo II

La crisi si aggrava nel dopoguerra

La decadenza del Parlamento - Si chiama in causa la Corona - I nuovi partiti in Italia - L’atmosfera del millennio - Le forze dell’interventismo battute - La reazione fascista - Un giudizio di Bonomi e uno di Nitti – Milano e l’Italia - La crisi del 1919-1922 e quella del 1860-61 - Rivoluzione e costituzione nel pensiero di Cavour.

Il Parlamento non riacquistò più il prestigio perduto nella crisi dell'intervento. I gruppi più accesi dell'interventismo continuarono a considerarlo la sede del neutralismo e del disfattismo. Il partito socialista e i gruppi politici del neutralismo non videro più in esso il presidio sufficiente della loro libertà. Nell’anno 1917 le difficoltà divennero maggiori e i fautori della pace presero coraggio per promuovere quelle agitazioni cittadine e quella propaganda disfattista nell'esercito che fu denunziata da Cadorna. Quando poi si verificò la rotta di Caporetto e l’antico interventismo insorse, il Parlamento fu messo in stato di accusa dalle due parti.
L’Italia aveva perduto il suo centro politico e stentava a riacquistarne uno nuovo. Gli studiosi italiani devono approfondire questo fenomeno per vedere come esso si è compiuto, attraverso quali fasi è passato,        a       quali leggi ha obbedito.
Nel 1919 il prestigio della Monarchia costituzionale decade in relazione con la caduta dell'istituto parlamentare. I partiti non si accorgono del grave pericolo in cui viene a trovarsi        lo Stato con il decadere dei suoi istituti fondamentali.
Accade infatti che la Corona non viene lasciata fuori dalla mischia come sarebbe doveroso, ma viene presa a partito. Più essa, presentendo il pericolo, si mantiene estranea all’urto delle fazioni, più essa viene chiamata in causa.
Gli uni pretendono che essa restauri la dignità nazionale, senza tener conto dell'atteggiamento dell'assemblea legislativa e delle grandi forze organizzate del lavoro, gli altri domandano che essa compia degli atti di forza contro le minoranze aggressive. Insomma i partiti politici, mentre si rivelano incapaci di raggiungere un
accordo ragionevole tra loro e mentre si affidano alle forze delle organizzazioni armate per vincere la loro battaglia, richiedono alla Corona un superiore giudizio
arbitrale che essa non - può pronunciare senza l'ausilio del Parlamento e senza gettarsi nella mischia. Si erano evidentemente compiuti nel corpo sociale italiano e in
tutto il suo tessuto popolare, dei fenomeni che di solito gli storici non possono afferrare nel momento stesso in cui essi si svolgono perché non presentano segni esteriori molto evidenti. Col diminuire dell'influenza britannica nel Continente, con l'immissione di nuove categorie sociali nella vita politica del paese, veniva cadendo, nella pubblica coscienza, quell'istituto parlamentare che non aveva purtroppo profonde radici nella nostra vita politica. Entrava così in crisi la nostra rivoluzione
liberale dell'ottocento e la crisi ancora dura e pare anzi farsi più violenta e più acuta
Dal 1861 al 1918 l'Italia aveva progredito sotto il governo della Monarchia costituzionale. L’Italia era divenuta una grande Potenza, ma i suoi istituti fondamentali, invece di acquistare vigore si andavano indebolendo. Associazioni di partito, organizzazioni operaie cominciarono a porre al numero uno del loro  programma la questione istituzionale.


Era questo un fatto nuovo. Il socialismo aveva una autorevole rappresentanza in Parlamento sin dall'ultimo decennio dell’ottocento. Il socialismo era per sua natura
repubblicano, ma non aveva mai posto tale pregiudiziale nella lotta politica. Durante il periodo giolittiano l’opposizione del socialismo si era attenuata; il marxismo, si disse, era stato risposto in soffitta. Turati era stato in dubbio se entrare o no in un ministero Giolitti, Bissolati aveva salito in giacchetta le scale del Quirinale.
Ora d’improvviso la lotta politica si faceva più accesa e più settaria.
Le correnti di sinistra domandavano la repubblica o quanto meno la Costituente. Anche il fascismo nel suo primo programma di piazza San Sepolcro (23 marzo 1919)
si proclamava agnostico, ma con tendenza alla Repubblica; domandava la  costituente e l’abolizione della Camera Alta.
Ma esaminiamo ora con calma gli avvenimenti tra il 1919 e il 1922. Fu quello un tempo assai agitato presso a poco eguale al tempo attuale per altro assai più profondamente sconvolto. Gli uomini e i partiti seguivano atteggiamenti contradditori e mutevoli secondo l'evolvere della situazione e secondo l'istinto delle masse.
Dall’ottobre 1917 aveva trionfato in Russia la rivoluzione bolscevica. I paesi vinti dell'Europa e soprattutto Germania e Ungheria sembravano presi da quel contagio.

L'Italia non aveva perduto la guerra, ma per le molte difficoltà interne e per una esasperata polemica attorno alla Conferenza della Pace sembrava dominata dalla psicologia postbellica di un paese vinto. Cominciarono a premere sui poteri dello Stato i grandi partiti e innanzi tutto il socialismo, divenuto più aggressivo e più avverso allo Stato di quanto non fosse nel 1915. I suoi capi più autorevoli apparivano superati dalla volontà delle masse. Esse non erano più in soggezione dinnanzi alla superiore cultura, alla calda eloquenza, alla specchiata onestà del vecchio Turati, ma ascoltavano volentieri nuove suggestioni, obbedivano a impulsi più violenti e sbrigativi. Si affermava come capo un Bombacci che sulla piazza di Bologna prometteva la rivoluzione e il comando al popolo nei prossimi mesi e la forca ai nemici.

Compariva poi sulla scena un nuovo grande partito di masse: il Partito Popolare che un sacerdote siciliano Luigi Sturzo era venuto organizzando con grande energia e indiscussa autorità. Era un partito che a volte sembrava perseguire un riformismo gradualista, a volte concorreva
demagógicamente, per non perdere le masse rurali, con le richieste, del socialismo; aveva un programma di decentramento  amministrativo e assumeva a sua insegna lo scudo con la croce, simbolo del libero comune. In complesso si affermavano pensieri, sentimenti e simboli diversi da quelli di anteguerra. Una rivoluzione si era compiuta. 
Durante la guerra il popolo italiano era andato cercando, nella profondità dei tempi, la sua essenza, il suo genio, il suo vero essere; ed ecco oggi esso esplodeva in nuovi aspetti e nuove formazioni. Sorgevano così le grandi associazioni dei reduci che parlavano un nuovo linguaggio e agitavano programmi di riforme.
I reduci erano il fenomeno nuovo della vita italiana. Avevano programmi confusi: a volte parlavano con la voce dei maggiori partiti, a volte trovavano una voce diversa. I Fasci italiani di combattimento „ non erano un movimento di reduci, ma molti ex combattenti che avevano l’orgoglio della guerra combattuta vi entravano con intenzioni risolute e con aspirazioni audaci. Insomma tutto il vecchio mondo politico era crollato e il Parlamento che n’era il cuore e il cervello era caduto dalla coscienza del maggior numero.
La lotta politica si svolgeva altrove. Essa aveva altri modi, altro fine, altri idoli, altra eloquenza, altro spirito. I vecchi partiti già svuotati di contenuto e divisi al tempo del l’intervento, erano ora in dissoluzione; i nuovi partiti obbedivano a idealità diverse da quelle dell’anteguerra. La Francia e l’Inghilterra che avevano vinto la guerra avrebbero potuto diffondere le energie e le idee della conservazione sociale, ma esse non riuscivano a influenzare la vita degli altri paesi. La sconfitta determinava la caduta di quattro imperi: dei Romanoff, degli Hoenzollem. degli Asburgo, degli Osmanli.

E insieme determinava la caduta delle vecchie classi politiche della borghesia intellettuale e parlamentare. La guerra aveva distrutto tante barriere ed ecco che molte altre di natura morale ne sorgevano. La distanza tra la classe dirigente di Londra e di Mosca, di Parigi e di Berlino era molto maggiore nel 1919 di quel che non fosse nel 1914. L’Europa intanto si saturava dell’ideologia di un grande vinto: la Russia. La rivoluzione proletaria seduceva le menti, eccitava l'entusiasmo di grandi folle, appariva come la nuova mèta dei popoli.
E anche essa era contro il Parlamento (1). Ma caduto in Italia il Parlamento, caduto il governo della borghesia intellettuale e professionale, che cosa rimaneva di quella classe di governo che aveva costituito il nuovo Regno?
La bandiera rossa sventolava su alcuni dei comuni più grandi del nord: una bandiera che non era simbolo della nazione italiana. Nasceva un nuovo regionalismo, segnacolo di disunione e di separazione (in Sicilia, in Sardegna, nel Molise), non di unità nazionale.
La vecchia classe politica era sfiduciata. Essa non aveva l’autorità morale sufficiente per domandare il voto ai reduci dalle trincee. Non osava neppure difendere il vecchio sistema elettorale basalo sul collegio uninominale. Il paese era nelle mani del primo uomo 
d'eccezione come del primo avventuriero privo di scrupoli. Scrive Machiavelli nel Principe quando si intrattiene sulle virtù di alcuni uomini dell’antichità arrivati al principato: « Ed esaminando le azioni e la vita loro non si vede che quelli avessero altro della fortuna che l'occasione la quale dette loro materia da potere introdursi dentro quella forma che apparve loro; e senza quell’occasione la virtù dell'animo loro si sarebbe spenta e senza quella virtù l’occasione sarebbe venuta invano ».
Ora dunque in Italia si presentava l'occasione di prendere il potere dello Stato. E a Mussolini se mancava la virtù in senso proprio non mancava la virtù in senso machiavellico e cioè la volontà, il proposito fermo, la forza per condurre a termine la grave impresa.
L'occasione si combinava storicamente con il dono e la virtù dell'azione. Le vecchie forze politiche non avevano nè la volontà nè l’energia per mantenere il
potere che, in definitiva, era considerato, nei lieti e onesti tempi ormai perduti per sempre, un grave peso senza utile personale. Gli Orlando, i Salandra, i Giolitti, i Sonnino non pensavano neppure di poter trarre un personale profitto dall'esercizio del potere. Essi vivevano in case di vetro, esposti alla critica della stampa e della tribuna parlamentare e dovevano chiudere gli uffici professionali o abbandonare gli studi e i particolari interessi nel periodo in cui erano in carica. Dal loro ufficio traevano solo fastidi, amarezze, sospetti ed ingiurie
Se il Parlamento del 1915 parve superato e privo di autorità a termine della guerra, anche l’esercito non poté sfuggire al contagio dell’indisciplina. I suoi quadri erano enormemente cresciuti e la disciplina si era venuta indebolendo.
Fiume e il fiumanesimo ebbero un'influenza perniciosa sulla compagine militare. La massa degli ufficiali di complemento, prossima a riprendere le attività civili,
portava nelle caserme le vaghe aspirazioni, i tumulti disordinati, i disparati programmi che agitavano le masse. In un momento in cui più si sentiva la necessità
di rafforzare il centro morale dello Stato, si avvertiva da per tutto la disintegrazione del tessuto nazionale. Rimaneva la Monarchia.

Il prestigio del Re era grande in tutto il paese: durante la guerra egli aveva servito con umiltà, costanza e intelligenza: a Peschiera, dopo Caporetto, aveva difeso l’esercito e aveva espresso la sua incrollabile fiducia nella resistenza dell'Italia. Un rinnovamento della classe politica e di tutta la struttura del paese sarebbe stato
possibile facendo perno sulla Monarchia. E invece le nuove forze, i grandi partiti, le masse erano agnostiche e si manifestavano antimonarchiche. Insomma lo stato
italiano, debole per troppo recente costituzione, sembrava non poter reggere alle conseguenze di una guerra così lunga, aspra e sanguinosa.

(1) Il bolscevismo nel 1917 aveva sciolto con le mitragliatrici — monito a quegli Italiani che sognano una Repubblica legalitaria — la costituente per instaurare il governo del soviet.

venerdì 24 novembre 2017

Il ricordo della Regina Elena a 65 anni dalla sua scomparsa

Martedì 28 novembre a Palazzo Cisterna il Centro Pannunzio ricorda la figura storica femminile con una conferenza e una mostra sui soggiorni dei Savoia in valle Gesso


Martedì 28 novembre alle 17 il Centro culturale Mario Pannunzio proporrà un ricordo della Regina Elena. L’appuntamento è a Palazzo Dal Pozzo della Cisterna, sede storica della Città Metropolitana di Torino e fino al 1940 residenza della famiglia Savoia Aosta.

Il 28 novembre 1952 a Montpellier moriva all’età di 81 anni Elena del Montenegro, meglio nota come Elena di Savoia, in seguito al matrimonio con Vittorio Emanuele III. Nel sessantacinquesimo anniversario della scomparsa la penultima Regina d’Italia, sesta figlia di Re Nicola I del Montenegro e madre di Umberto II, sarà ricordata a Palazzo Cisterna con un incontro promosso dal Centro Pannunzio in collaborazione con l’Associazione internazionale Regina Elena Onlus e con il Centro studi Principe Oddone. 
Di animo sensibile e pragmatico, la Regina Elena si tenne sempre lontana dalle questioni politiche, ma il suo impegno in numerose iniziative caritative e assistenziali le assicurò simpatia e popolarità. Il matrimonio con Vittorio Emanuele III fu celebrato il 24 ottobre 1896 a Roma. 
La coppia ebbe cinque figli: Iolanda di Savoia (1901-1986), Mafalda di Savoia (1902-1944, deceduta in un campo di concentramento nazista), Umberto di Savoia (1904- 1983, ultimo Re d’Italia), Giovanna di Savoia (1907-2000) e Maria di Savoia (1914-2001). Terminata la Seconda Guerra Mondiale, il 9 maggio del 1946 il Re Vittorio Emanuele III abdicò a favore del figlio Umberto, che aveva già nominato Luogotenente del Regno il 5 giugno 1944 al momento della liberazione di Roma dai nazifscisti. 
All’atto dell’abdicazione, Vittorio Emanuele III assunse il nome di Conte di Pollenzo e andò in esilio con Elena ad Alessandria d’Egitto. Elena rimase in Egitto fino alla morte del marito avvenuta il 28 dicembre 1947. Tre anni dopo si scoprì malata di cancro e si trasferì in Francia a Montpellier e nel novembre 1952 si sottopose a un difficile intervento chirurgico nella clinica di Saint Cóm dove morì il 28 novembre.
In occasione dell’incontro di martedì 28 novembre alle 17 verrà inaugurata a Palazzo Cisterna la mostra “Sua Maestà Elena”, un racconto fatto di immagini dei soggiorni reali in Valle Gesso. L’allestimento sarà ospitato fino a venerdì 1° dicembre nella sede della Città metropolitana e sarà visitabile dalle 9 alle 18. 

La mostra trae spunto dal libro di Walter Cesana “I Savoia in Valle Gesso - Diario dei soggiorni reali e cronistoria del distretto delle Alpi Marittime dal 1855 al 1955” promosso dall’Ente di gestione Aree Protette delle Alpi Marittime ed edito dall'associazione Primalpe.

http://www.torinoggi.it/2017/11/24/leggi-notizia/argomenti/eventi-11/articolo/il-ricordo-della-regina-elena-a-65-anni-dalla-sua-scomparsa.html

giovedì 23 novembre 2017

Simeone II di Bulgaria ad Assisi, omaggio alla madre Regina Giovanna

Re Simeone con il sindaco di Assisi, Stefania Proietti
SIMEONE II di Bulgaria, insieme alla consorte  Margareta di Spagna, ha reso omaggio alla tomba  della madre Giovanna di Savoia, sepolta nel cimitero monumentale di Assisi, nella tomba della comunità del Sacro Convento La visita in occasione dei 110 anni della nascita di Giovanna di Savoia (13 novembre 1907), devotissima di San Francesco e terziaria francescana, ebbe proprio ad Assisi, il 25 ottobre 1930, a era sposata con Boris di Bulgaria: un matrimonio che fece epoca. Simeone di Sassonia-Coburgo Gotha, re di Bulgaria dal 1943 al 1946 e successivamente primo ministro dal 2001 al 2005, insieme alla consorte ha deposto fiori sulla tomba della madie; presenti il sindaco Stefania Proietti, Camillo Zoccoli, Ambasciatore del Sovrano Ordine di Malta in Bulgaria, esponenti del mondo diplomatico bulgaro e il professor Massimo Zubboli, referente in Assisi della famiglia reale di Bulgaria.
OLTRE alla visita al cimitero cittadino (Giovanna di Savoia, nella cappella dei conventuali, è vicina ad alcuni frati che ebbero ruoli diversi in occasione delle nozze de 1930), Simeone II è stato accolto al Sacro Convento dal Custode padre Mauro Gambetti che ha portato il saluto agli ospiti. Successivamente, nel refettorio, gli ospiti hanno consumato il pasto insieme ai frati della comunità.
FRA LE PROSSIME iniziative, la possibilità di presentare in Assisi, n prossimo anno, il volume «Simeone II di Bulgaria. Un destino singolare. Autobiografia. Dopo 50 anni di esilio l'unico Re divenuto Primo Ministro», pubblicato quest’anno per i tipi della Gangemi editore. Non è la prima volta che Simeone II giunge in Assisi per rendere omaggio alla tomba della madre.
GIOVANNA di Savoia infatti, quartogenita di Vittorio Emanuele III e di Elena del Montenegro (sorelle Iolanda, Mafalda, Maria Francesca, e il fratello Umberto, ricordato come il Re di maggio), morta il 26 febbraio del 2000 a Estoril, non volle essere sepolta a Sofia, capitale del suo ex regno, ma in Italia, ad Assisi.

Maurizio Baglioni 

da La Nazione 17/11/2017

Messina commemora la Regina Elena

Si è celebrata nello splendido scenario della Chiesa dello Spirito Santo di Messina, gremita di fedeli e legata alla memoria del santo del “Rogate Evangelico”, Annibale Maria Di Francia, la Solenne Celebrazione Eucaristica in suffragio della Regina Elena, benefattrice della Città di Messina all’indomani del tremendo terremoto che, all’alba del 28 dicembre 1908, colse la popolazione ancora nel sonno.

L’evento, in ricordo del 65° anniversario del Dies Natalis della Sovrana e nell’80° anniversario dal ricevimento della onorificenza di Rosa d’Oro della Cristianità, è stato promosso dal Vicariato di Messina degli Ordini Dinastici di Casa Savoia – Delegazione Sicilia – guidato da Don Andrea Di Paola, e ha visto la partecipazione delle Dame e dei Cavalieri sabaudi provenienti da tutta la regione con il Delegato Magistrale l’avv. Francesco Maria Atanasio. Presenti anche la Delegazione Gran Priorale di Messina del SMOM con il Conte Don Carlo Marullo di Condojanni, i Convegni di Cultura Maria Cristina di Savoia con la vice presidente nazionale Eleonora Chiavetta Di Giovanni, il Direttivo nazionale, regionale e provinciale con la cospicua rappresentanza del Corpo delle Infermiere Volontarie della Croce Rossa Italiana, più note come Crocerossine, il rappresentate del Magnifico Rettore dell’Università di Messina prof. Luigi Chiara, il Dott. Santi Consolo, Direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, l’Associazione Amici del Montenegro con la coordinatrice provinciale prof.ssa Nicoletta Stracuzzi, il PASFA, l’Arciconfraternita dei Verdi e l’Istituto Nazionale delle Guardie d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon, quest’ultimo presente con il Consultore Nazionale, l’Ispettore Nazionale per la cultura, gli Ispettori regionali per la Sicilia e la Calabria e le delegazioni di Palermo, Catania, Siracusa, Agrigento, Caltanissetta, Enna, Reggio Calabria e Catanzaro.

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mercoledì 22 novembre 2017

La Monarchia è ancora un affare per l’economia britannica

di Luigi Ippolito, www.corriere.it

Una società di consulenza, la Brand Finance, ha provato a fare due conti: e ha rilevato che la Corona britannica vale 67,5 miliardi di sterline, circa 75 miliardi di euro




La Monarchia britannica appare più salda che mai, con Elisabetta felicemente sul trono a 91 anni dopo oltre 65 di regno e con il costante afflusso di sangue nuovo, dal prossimo arrivo del terzo figlio di William e Kate al previsto fidanzamento di Harry con l’attrice Meghan Makle. Certo, qualcuno avanza timori sul passaggio di consegne a Carlo, che non tarderà: il nuovo sovrano, con le sue gaffe, le sue ambizioni interventiste e l’ombra di Diana sul collo metterà forse a rischio la continuità della dinastia, risvegliando sentimenti repubblicani?

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martedì 21 novembre 2017

Da Pechiera a Peschiera - III parte

In buona sostanza, sì sostiene, capovolgendo i fatti, che il Sovrano fu l’unico colpevole, l’unico vile, l’unico traditore. Avrebbe tradito l’alleato germanico, avrebbe ingannato i vincitori angloamericani, sarebbe scappato abbandonando gli italiani.
Questa è una vergogna, una mistificazione scandalosa, un’offesa intollerabile. È la tesi di Hitler, riciclata di sana pianta, a mezzo  secolo di distanza, e propinata per buona a gente che non sa nulla di nulla, perché le due generazioni del dopoguerra sono cresciute nell’assoluta ignoranza e nell'inganno.
lo, da questo luogo sacro alle memorie patrie, di fronte a voi, uomini e donne liberi e coscienti, elevo una ferma ed indignata protesta in nome di un morto innocente ed esiliato, di un morto che fu Capo dello Stato italiano per 46 anni, di un morto che nessuno osa difendere. lo lo difendo, io lo difenderò sempre, finché avrò vita, non per servilismo, bensì per amore di giustizia e di verità.
Da avvocato, ritengo anzi che la Magistratura, se ed in quanto sia ancora indipendente, avrebbe dovuto e dovrebbe intervenire d’ufficio, ai sensi delle norme di diritto penale che tutelano, senza distinzione di repubblica o monarchia, il Capo dello Stato, il Governo, le Forze Armate, la Nazione Italiana, contro coloro che accusano l’Italia dell’8 settembre 1943 di ignominiosi tradimenti e di disdicevoli viltà. È ora di finirla con questa autodistruzione quasi sadica, con questa leggenda della Patria italiana che sarebbe finita l’8 settembre 1943. La Patria, la Nazione, l’Italia, non muore; non è morta nei secoli della divisione politica; non morrà neppure ora, anche se dovesse trovare forme nuove di organizzazione statale; quale, ad esempio, quella federale, da non confondersi con la secessione. E, già che accenniamo alla secessione, diciamo che la secessione è nata con la repubblica, ed è derivata dalla sistematica distruzione dei valori nazionali, dall’oblio della tradizione, dalla falsificazione della storia; come affermava Crispi oltre un secolo fa, in Italia la repubblica vuol dire le repubbliche. E quella, sì, è la fine, la frantumazione, il dissolvimento.
Ritorno, allora, qui a Peschiera e a questo 8 novembre 1998, in cui sono riuniti, in questa storica sala, cittadini di ogni idea e di ogni bandiera, combattenti, reduci, giovani, lavoratori, per una commemorazione ed un ricordo pensoso.
Il momento è cruciale. Siamo ad un bivio nella vita del nostroPaese. E l’occasione è buona, perché un modesto  professionista di provincia, non compromesso nelle vicende di questo cinquantennio in quanto rimasto coerente e fedele ai suoi principi, vi parli a cuore aperto.
Ormai da molti anni, non sono più politicamente schierato.
Rimasi nel partito monarchico finché quest'ultimo potè operare nello Stato repubblicano; e quando, nel 1972, esso dovette sparire perché sostanzialmente respinto da un sistema che si fondava soltanto sul potere, sul danaro e sulla corruzione, mi ritirai a fare l'osservatore esterno di una politica sempre più sporca.
Oggi mi vedo costretto a dire una parola spassionata e sincera su quanto mi circonda, su quanto ci circonda tutti.
Non è possibile rimanere fuori. Stanno accadendo cose che un cittadini preoccupato di difendere la libertà e la giustizia non può trascurare.
I! 25 luglio 1943 il Re diceva a Mussolini che l’Italia era “in tòcchi", per significare, con espressione piemontese, che lo Stato era a pezzi. Ebbene, adesso, nel 1998, l’Italia è nuovamente “in tòcchi".
Lo è nel senso che è minacciata da spinte secessionista diverse: non più solo la Padania, ma anche il Veneto, con una rivendicazione autonoma, e, al lato opposto del Paese, l’antico Regno delle Due Sicilie, dove il Re di Spagna, un Borbone, è stato ultimamente accolto con significativo entusiasmo, al quale non è difficile attribuire serie implicazioni politiche.
Ma lo è, soprattutto, sul plano morale e giuridico, perché la legge è divenuta estranea e nemica della brava gente, e talora amica dei peggiori criminali.
E lo è, ancora, perché l’apparato governativo è privo di onestà e correttezza, e nessuno può più fidarsi di nulla.
Questo senza considerare le spaventose lacune che emergono dappertutto, sul piano organizzativo, ideativo, decisionale. È un disastro generale, che allo stato sembra senza rimedio.
Parlando, recentemente, con diversi giovani magistrati, non partecipi del grande "clan" che dirige la stessa magistratura, ho raccolto giudizi sconsolati e drastici: ii consiglio quasi unanime che essi danno è quello di “azzerare tutto" e ricominciare da capo.
Azzerare, ricominciare. Come? Domanda naturale e ovvia.
Evidentemente, non è più, ormai, alla Costituzione del 1947 che bisogna guardare. Tale Costituzione è obsoleta, superata, priva di agganci con la realtà. Una parte del Paese prospetta già l’elezione di una nuova Assemblea Costituente; un’altra parte ha tentato, senza successo, di rifarne la seconda parte attraverso una Commissione Bicamerale (che, come noto, è recentemente defunta). Solo piccole minoranze, legate all’estrema sinistra, insistono nel difenderla.
Ed allora, dovendo guardare avanti, verso una nuova Italia, bisogna che tutte le energie sane vengano impiegate in un’opera di ricostruzione dei valori che si è voluto distruggere.
Noi anziani siamo ancora qui, pronti a mettere a disposizione le nostre forze, il nostro coraggio, la nostra fede. Chiamiamo intorno a noi le generazioni più giovani, e specialmente quelle giovanissime, non intaccate dal cancro del Sessantotto, di quel periodo in cui sui muri stava scritto “meglio rossi che morti’’, e tanta gente ci ha creduto.
L’avvenire è ancora nostro, è ancora vostro. Nel rispetto e nel riconoscimento delle diversità locali, espressa nelle legittime autonomie amministrative e fiscali, nel quadro della Comunità Europea, ancora da costruire ed armonizzare, ma destinata a grandi cose; la Nazione, con le sue tradizioni millenarie incomparabili, non solo non verrà abolita, ma sarà anzi insostituibile tramite per l’ordinato sviluppo delle Istituzioni centrali e periferiche.
Andiamo dunque, tutti, verso una nuova Costituente. Dio ci assisterà. Ma dobbiamo convincerci che nessun medico ci ha ordinato di adottare soltanto soluzioni repubblicane. L’idea della monarchia, della monarchia senza aggettivi e senza riferimenti personali, è universale e indistruttibile, e deve essere riscoperta dopo l’oblio imposto nel 1947 da un regime illiberale e truffaldino.
Una battaglia su questo punto è, a mio avviso, importantissima e decisiva per la libertà e la democrazia. Se lo Stato deve avere, e deve averlo, un arbitro che tuteli l’osservanza delle regole del gioco, questo arbitro deve essere imparziale. Non può essere eletto da una parte contro le altre. Il sistema dinastico ed ereditario non sarà, non è, perfetto, ma è il male minore, e salvaguarda il bene fondamentale della giustizia “super partes”.
Chi vi parla crede in questo bene fondamentale, e per tale motivo vuole un Re, anziché un presidente. Non è un’utopia. È una proposta realistica, seria, che elimina una quantità di discussioni inutili sui poteri e sulle modalità di eiezione del Capo dello Stato. La monarchia federale può essere l’uovo di Colombo.
Siamo arrivati, cari amici, alla conclusione. Abbiamo proceduto un po’ a zig-zag lungo la storia recente della nostra Italia: partiti dalla Peschiera fortezza austriaca e dal 1848, siamo arrivati alla Peschiera attuale ed a questa riunione, che, centodnquant’anni dopo, potrebbe forse costituire l’inizio di una Cosa nuova (oggi è di moda inventare i movimenti e chiamarli Cosa) ispirata proprio a  quei principi di federalismo monarchico che stavano vincendo
allora. Ma, per raggiungere il traguardo, siamo passati da un’altra Peschiera di 81 anni fa, una Peschiera che, nell’ora della prova, dimostrò la presenza di un’identità nazionale molto forte, impersonata da un Re. E, parlando di quel Re, ricollegando Peschiera a Pescara, abbiamo difeso il suo onore ingiustamente calpestato.
Non possiamo non riflettere sul lungo percorso di tutti questi anni. Sì, riflettiamo. La vera bandiera d’Italia, che sintetizzava nello scudo sapendo anche le differenti e rispettabili tradizioni italiane, dal leone di S. Marco ai gigli borbonici, è stata macchiata di sangue in un giorno lontano, il 6 giugno 1946, allorché cadde sul selciato napoletano avvolta nel corpo martoriato di Carlo Russo.
Carlo Russo era quello scugnizzo quindicenne che marciò da solo, protetto dal tricolore, incontro ralla polizia di Romita, e fu assassinato. I bastardi che falsano la storia hanno dimenticato lui
e tutti gli altri monarchici che morirono in quei giorni di odio e di
repressione. Ma noi non abbiamo dimenticato, e quel nome, Carlo Russo, lo getteremo sempre, come simbolo di onore e sacrificio, contro la loro maledetta arroganza.

La bandiera è caduta, il sangue è sbiadito dai decenni. Ma si troverà qualcuno che la rialzerà, la spiegherà, la sventolerà, in nome di un principio che non scompare, che non scomparirà, perché, come diceva in punto di morte la vecchia maestra di Guareschi, i Re non si mandano via, mai, mai, mai!!!

di Franco Malnati

lunedì 20 novembre 2017

Simeone II di Bulgaria ad Assisi: fiori sulla tomba della madre

Giovanna di Savoia: morta il 26 febbraio del 2000, è sepolta nella tomba della comunità del Sacro Convento

Re Simeone con la Regina Margarita
Simeone II di Bulgaria, insieme alla consorte Margherita, ha reso omaggio alla tomba della madre Giovanna di Savoia: morta il 26 febbraio del 2000 a Estoril, la regina non volle essere sepolta a Sofia, ma in Italia, ad Assisi, nella tomba della comunità del Sacro Convento.
La visita in occasione dei 110 anni della nascita di Giovanna di Savoia (13 novembre 1907), devotissima di San Francesco e terziaria francescana, che proprio ad Assisi, il 25 ottobre 1930, si era sposata con Boris III di Bulgaria. Simeone di Sassonia-Coburgo Gotha, Re di Bulgaria dal 1943 al 1946 e successivamente primo ministro dal 2001 al 2005, insieme alla consorte ha deposto fiori sulla tomba della madre; presenti il sindaco Stefania Proietti, Camillo Zuccoli, Ambasciatore del Sovrano Ordine di Malta in Bulgaria, esponenti del mondo diplomatico bulgaro e il professor Massimo Zubboli, referente in Assisi della famiglia reale di Bulgaria.
[...]

domenica 19 novembre 2017

Il libro azzurro sul referendum - VIII cap. - 1-3

L'ottavo capitolo del Libro Azzurro consta di tre parti, di cui due già pubblicate sul sito fratello, dedicato a Re Umberto II, ai cui testi rimandiamo seguendo i link.

Sottolineiamo le parole profetiche del Senatore Bergamini, del 22 Maggio del 1946









2 - Dichiarazioni del senatore Alberto Bergamini (*)

«La Monarchia è strumento di continuità e di unità, con esso si salva e si assicura quanto può essere salvato dell’Italia dei nostri padri, mentre nulla si oppone a quelle riforme istituzionali che meglio possano garantire il funzionamento dei liberi organi parlamentari e degli altri poteri dello Stato... L’adesione dei fattori repubblicani del nostro glorioso Risorgimento alla Monarchia aveva motivi superiori che non sono affatto sorpassati. Il loro nobile sacrificio era dettato da una visione realistica della politica nazionale, che conserva oggi tutto il suo valore, anzi oggi più che mai ». La repubblica - scrisse con frase scultoria Giosuè Carducci - vorrebbe dire le repubbliche. Togliete la Monarchia e le correnti disgregatrici avranno presto il sopravvento... Un’Italia repubblicana priva di un centro ideale, frantumata dalle rivalità e dalle gelosie regionali, dovrà rinunciare per sempre a tornare una grande nazione, ad avere un compito autonomo, una sua originalità nel quadro della collaborazione europea ».

(*) Corriere delle Sera, 22 Maggio 1946






venerdì 17 novembre 2017

mercoledì 15 novembre 2017

Monarchia 2.0: chi sono i monarchici italiani del 2017

Qualcuno direbbe: “a volte ritornano”. La verità, è che non se ne sono mai andati.
Dal 2 giugno 1946, l’Italia è una Repubblica. Ciononostante, in Parlamento si è avuta la presenza di un partito monarchico fino agli anni ’70. Oggigiorno, i monarchici esistono e sono ancora attivi. Scopriamo qualcosa di più sul loro movimento, il loro progetto e le loro idee con un’intervista a Simone Balestrini, classe 1993, studente di Giurisprudenza nonché Segretario Nazionale del Fronte Monarchico Giovanile dal 2015.
Simone, cosa significa, in Italia, essere monarchici nel 2017?
Il monarchico nel 2017 è quella persona che ritiene che la miglior forma di governo che un Paese possa avere sia la monarchia costituzionale e parlamentare, così come avviene in 10 Paesi Europei (Belgio, Danimarca, Liechtenstein, Lussemburgo, Monaco, Norvegia, Olanda, Regno Unito, Spagna, Svezia); Paesi tra i più democratici e avanzati al mondo. Non siamo nostalgici del passato, ma davanti alla crisi politica e sociale del nostro tempo credo che la monarchia sia una forma istituzionale che possa giovare molto dal punto di vista storico, sociale, culturale e ovviamente politico. I monarchici sono tali non più per nostalgia verso il passato, ma per l’esempio funzionante dato dalle monarchie presenti oggi in Europa; esempi di funzionalità, modernità e democrazia. Preciso, inoltre, qualcosa che in Italia non è scontato: la monarchia non è qualcosa di anacronistico e neppure sinonimo di fascismo!
Il vostro progetto si chiama “Monarchia 2.0”. Qual è il significato di questo nome? Puoi descrivere brevemente il progetto?
La denominazione è nata casualmente durante un discorso del presidente dell’Unione Monarchica Italiana, Alessandro Sacchi. Da subito l’ho fatta mia perché è emblematica del fatto che non siamo storici nostalgici, ma siamo italiani che, consapevoli di un glorioso passato – seppure non sempre facile – hanno un progetto chiaro per un futuro migliore. Proponiamo un nuovo modo di essere monarchici alla luce della società e dei tempi odierni. Il progetto consiste nel promuovere la monarchia in Italia attraverso una strategia e una visione diversa rispetto al passato: proporre una Monarchia 2.0, appunto. Come dimostrano le monarchie presenti attualmente in Europa, è vitale che l’istituzione si evolva per sopravvivere nel tempo. Si propone dunque, non il ritorno e la ricostruzione della monarchia in Italia, bensì la costituzione di una Monarchia costituzionale e parlamentare.
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http://www.tomorrowturin.com/monarchia-2-0-monarchici-italiani-2017/

Carlo Delcroix: un patriota che amò disperatamente l’Italia

CIRCOLO DI EDUCAZIONE E CULTURA POLITICA
REX
“il più antico Circolo Culturale della Capitale”


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Nel  quarantesimo  anniversario  della  morte  del  grande  invalido, 
mutilato  della  Quarta  Guerra  d’Indipendenza, Carlo  Delcroix
Domenica 19 Novembre, ore 10.30

 Prof. Pier  Franco  Quaglieni
Vice  Presidente  del  Centro  Pannunzio

ricorderà 

“Carlo Delcroix : un patriota che amò

  disperatamente l’Italia”



Sala Roma, presso “Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), o 16/B (ingresso con ascensore)


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Ingresso libero

martedì 14 novembre 2017

Da Peschiera a Peschiera - II parte

Almeno quattro volte, durante il suo Regno, gli piombò addosso
l’Italia tutta:
— nel 1915, per l’intervento nella prima guerra mondiale;
— nel 1917, dopo Caporetto;
—- nel 1922, con la Marcia su Roma;
— nel 1943, al colmo del dramma della seconda guerra mondiale.
Nel 1915, l’intervento a fianco dell’Intesa, imposto da una violenta campagna nazionalista, fu in definitiva avallato dal Parlamento dopo pesanti alternative. Il Re, pur conscio dei lutti e dei sacrifici cui il Paese andava incontro, non potè sottrarsi all’onda emotiva del patriottismo, ed accettò la guerra, assumendo subito su di sé il compito ingrato di parteciparvi con l’oscura ma costante presenza sui campi di battaglia; il Re soldato, appunto.
E mentre questo faceva, arrivò, nell’autunno 1917, la sconfitta militare, contro la quale si aderse, da solo, mentre tutto pareva crollare. Vedremo fra poco questo suo momento, vissuto da protagonista, qui a Peschiera.
Nel torbido dopoguerra, tra bagliori di conflitto civile che stavano travolgendo gli incerti governi liberali, anticipò il volere del Parlamento con il sofferto incarico a Benito Mussolini (cui la Camera, subito dopo, concesse a larga maggioranza addirittura i pieni poteri), e precorse il consenso popolare per il governo monocolore fascista (che infatti nel 1924, in libere elezioni parlamentari, ottenne il 65% dei voti).
E infine, nell’ora tremenda dell’estate 1943, salvò l’Italia dall’annientamento, consentendole di riprendere, sia pure dopo prove dolorose, un cammino dignitoso e civile. Troviamo, ancora, in questa circostanza, un nome simile a quello dì Peschiera; Pescara, che i detrattori contrappongono al primo, ed io invece collego strettamente, perché il Re di Pescara è sempre quello di Peschiera, che compie un sacrificio ancora più grande, proprio perché misconosciuto ed intriso di atroci sofferenze morali e materiali.
Da Peschiera a Pescara, dunque? No, da Pescara (vedrete) torneremo, alla fine, un’altra volta a Peschiera, qui/adesso. Ma dobbiamo illustrare questi tre passaggi.
Peschiera 1917, ottantuno anni or sono. Incombeva un nome: Caporetto, un piccolo paese attualmente in Slovenia. Tutta Italia inorridiva, recriminava, malediceva. Sotto accusa i generali, gli ufficiali, i soldati, mentre il nemico avanzava. Noi, cari amici, non siamo capaci di perdere con la dignità degli antichi Romani o degli Inglesi. Se vinciamo, tutto è sanato, anche l’imbroglio; se perdiamo, non servono neppure la buona ragione o l’eroismo di un silenzioso olocausto.
Ancora adesso, la verità su quella sconfitta viene messa da parte, perché non fa comodo.
Non fu colpa né di Cadorna, né di Badoglio, né di Capello, né dell’ultimo soldatino sbandato. Fu colpa esclusiva di un clamoroso errore di valutazione del governo italiano, a ciò indotto da identico errore dei governi alleati, francese ed inglese.
Bisogna risalire all’inverno 1916-17. Alla fine del 1916, nessuno dei belligeranti pareva ormai in condizione di potere vincere. I popoli, dissanguati da spaventose carneficine, neppure ricordavano più quali fossero gli scopi di guerra iniziali, ed aspiravano tutti alla pace. Il grido “il prossimo inverno non più in trincea” risuonava clandestino, ma poderoso. Il Papa Benedetto XV° invocava la fine della “inutile strage”.
Due Capi di Stato, Carlo l di Asburgo e Guglielmo II di Germania, captarono per primi l’esigenza di mettere fine al conflitto, e, con nota ufficiale del 16 dicembre 1916, trasmessa agli Stati nemici per le vie diplomatiche, proposero una immediata Conferenza di Pace.
Contro questa proposta si scagliarono però i francesi e gli inglesi, decisi a distruggere per sempre gli Imperi centrali. Essi speravano in un imminente intervento degli Stati Uniti, propiziato dal Presidente Wilson; questi aveva appena vinto, in novembre, le elezioni presidenziali (di strettissima misura), ed era nemico giurato del principio monarchico, che voleva abbattere non soltanto in Germania ed Austria-Ungheria, ma altresì in Russia. E proprio all'eliminazione preventiva dello zarismo (benché alleato dell’Intesa) Wilson aveva subordinato il proprio intervento.
Così, Francia e Inghilterra, sia per questo motivo, sia per il timore che in Russia prevalessero forze pacifiste e sensibili alla proposta austro-tedesca, organizzarono, con la collaborazione della destra nazionalista russa (che dominava la duma eletta nel 1912), il colpo di Stato del marzo 1917. Agli idi di marzo, lo Zar Nicola, il fedele alleato che aveva salvato la Francia nel 1914 e l’Italia nel 1916, fu pugnalato alla schiena dai suoi amici, e da coloro che gli avevano giurato fedeltà; un colpo di Stato instaurò la repubblica e fece prigioniera la famiglia imperiale.
La notizia fu accolta in Occidente con travolgente entusiasmo; andate a sfogliare i giornali del tempo, e troverete inni di gioia. La caduta della Monarchia fu considerata l’alba della vittoria militare contro i tedeschi. Si credette che la nuova repubblica avrebbe intensificato la guerra; e poiché si sapeva anche che l’avvenimento apriva il cammino all'intervento americano, le prospettive militari si dipinsero di rosa.
Per tutto il 1917, sui fronti francese ed italiano, ci si comportò come se queste previsioni fossero fondate. Gli eserciti dell’Intesa attaccarono a testa bassa, dappertutto, subendo perdite umane incalcolabili, e cozzando contro valida resistenza nemica. In Italia, a carissimo prezzo, si fecero alcuni progressi, e, soprattutto, si riuscì a superare l’Isonzo, in agosto, sull’altopiano della Bainsizza, in direzione di Lubiana.
A questo punto, però, il tracciato del fronte italo-austriaco si presentava enormemente sbilanciato in avanti, lunghissimo, tortuoso, non difendibile nel caso di inversione di tendenza (per il caso, cioè, di dovere passare alla difensiva).
Intanto, le cose in Russia andavano esattamente all’opposto di quanto si era creduto dai governi inglese, francese e italiano.
Alla destra nazionalista si era subito contrapposta una sinistra eversiva, risvegliata dagli accenti repubblicani. E proprio questa sinistra si era gettata, abilmente, sul grande argomento che allo Zar ed alla Zarina era stato proibito: la pace. Le conseguenze sull’esercito, che fino a tutto il 1916 aveva tenuto eroicamente nel nome dello Zar, furono catastrofiche; esso si dissolse come neveal sole. E gli Imperi Centrali si trovarono d’un tratto liberati dall’incubo della guerra sui due fronti occidentale e orientale. Divisioni tedesche affluirono sul fronte italiano, e l’iniziativa passò di mano.
Qui mancò, nel governo, l’elasticità necessaria per comprendere che bisognava trarre le conclusioni dell’accaduto. Nessuno pensò di imporre una ritirata strategica preventiva, che accorciasse il fronte e permettesse una difesa più organica. Anzi, una siffatta idea fu demonizzata, perché avrebbe comportato l’abbandono di alcuni territori, ed avrebbe abbassato il morale del Paese, già basso.
Fu, dicevamo, errore gravissimo, nel quale il governo italiano fu coinvolto da quei medesimi francesi ed inglesi che, quando i nodi vennero al pettine, seppero soltanto insultare e deridere l’Italia; come se loro non avessero subito ben altre clamorose disfatte, tranquillamente snobbate!
Occorre rilevare che, nella sventura, l’Italia fu ancora fortunata.
L’offensiva nemica fu lanciata sull’lsonzo, all’estremità più lontana del fronte, il che permise di salvare una parte dell’esercito, e di arretrare con un minimo di gradualità, prima al Tagliamento e poi al Piave. Se, invece, l'attacco fosse partito dal saliente trentino, verso gli Altipiani, come nel 1916, non solo sarebbe andato perduto tutto il Veneto, ma, peggio, l’intero gruppo di armate all'est del saliente sarebbe rimasto accerchiato senza scampo.
Caporetto, allora. Facile ironizzare. Tuttavia, perché non ricordare che ci fu, subito dopo, una battaglia di arresto sulla nuova linea del Piave? E che qualcuno, al vertice dello Stato, mentre il governo Boselli si dimetteva in preda al panico, prese le redini, rianimò il Paese, chiamò alla guida delle Forze Armate uomini nuovi e più vicini ai soldati, volle che non si parlasse di Adige e di Mincio bensì soltanto di Piave e di Grappa?
Questo qualcuno, il piccolo coraggioso Re di Peschiera, inm uniforme disadorna ma deciso, chiaro, energico, parlò agli alleati scettici, e disse loro che l’Italia teneva duro. Tanto duro che, giusto 80 anni fa, lo sforzo fu coronato dalla vittoria finale. Fu dunque il Re ad imprimere la svolta. Tutto il resto, sono chiacchiere, polemiche vuote, maldicenze sciocche. La verità, signori, non si cancella.
Pescara, adesso. Pescara è come Peschiera. Un governo, quello di Mussolini, aveva condotto l’Italia in un vicolo cieco, senza uscita. Le vicende della politica internazionale e delia guerra avevano creato circostanze imprevedibili: da un lato un nemico apparentemente irresistibile e determinato ad occupare il nostro territorio, dall'altro un alleato intenzionato ad usare proprio quel territorio come campo di battaglia per coprirsi il fianco meridionale.
Incapace di prendere una qualsiasi decisione, il pentito che esprimeva quel governo si rivolse al Re, con voto a maggioranza del suo organo supremo, perché assumesse tutti i poteri. E il Re fu costretto ad esporsi in prima persona. Ma cosa poteva fare?
Nella morsa dei due nemici, fece tutto il suo dovere. Andò a Pescara, e poi a Brindisi, per una sola, insuperabile ragione: salvare il salvabile dell’Italia, a rischio della propria vita, del proprio onore, del proprio trono. Il salvabile era la continuità dello Stato, la validità dell'armistizio firmato, l’incolumità di Roma città aperta, del Vaticano, delle masse di profughi rifugiate nella capitale.
Adesso non preoccupatevi. Non ho intenzione di affrontare in questa sede la questione dell’8 settembre 1943. Non la si potrebbe trattare in estrema sintesi, data l’enorme ampiezza dell’argomento; solo vi dirò, come il Manzoni a proposito della storia della  peste sul Bergamasco, che, per chi volesse, la storia “la c’è”, anzive ne sono moltissime, forse troppe, e che personalmente ho cercato di approfondirla nel libro che troverete in vendita.

Però ho il dovere di segnalare (e questo è importante, perché è un fatto nuovo), l’emergere, nell’attuale quadro storico-politico, di un fenomeno tanto aberrante quanto autorevolmente diffuso, ad opera di alte personalità, come il Presidente della Camera on. Violante, e di noti opinionisti quali il Montanelli, il Buscaroli e il Bertoldi: la tendenza ad unificare in un unico calderone le diverse ed opposte accuse al Re, sia di provenienza nazi-fascista che di provenienza dei vincitori anglo-americani.