l’Italia tutta:
— nel 1915, per l’intervento
nella prima guerra mondiale;
— nel 1917, dopo Caporetto;
—- nel 1922, con la Marcia
su Roma;
— nel 1943, al colmo del dramma
della seconda guerra mondiale.
Nel 1915, l’intervento a
fianco dell’Intesa, imposto da una violenta campagna nazionalista, fu in
definitiva avallato dal Parlamento dopo pesanti alternative. Il Re, pur conscio
dei lutti e dei sacrifici cui il Paese andava incontro, non potè sottrarsi
all’onda emotiva del patriottismo, ed accettò la guerra, assumendo subito su di
sé il compito ingrato di parteciparvi con l’oscura ma costante presenza sui
campi di battaglia; il Re soldato, appunto.
E mentre questo faceva,
arrivò, nell’autunno 1917, la sconfitta militare, contro la quale si aderse, da
solo, mentre tutto pareva crollare. Vedremo fra poco questo suo momento,
vissuto da protagonista, qui a Peschiera.
Nel torbido dopoguerra, tra
bagliori di conflitto civile che stavano travolgendo gli incerti governi
liberali, anticipò il volere del Parlamento con il sofferto incarico a Benito
Mussolini (cui la Camera, subito dopo, concesse a larga maggioranza addirittura
i pieni poteri), e precorse il consenso popolare per il governo monocolore
fascista (che infatti nel 1924, in libere elezioni parlamentari, ottenne il 65%
dei voti).
E infine, nell’ora tremenda
dell’estate 1943, salvò l’Italia dall’annientamento, consentendole di
riprendere, sia pure dopo prove dolorose, un cammino dignitoso e civile.
Troviamo, ancora, in questa circostanza, un nome simile a quello dì Peschiera; Pescara,
che i detrattori contrappongono al primo, ed io invece collego strettamente,
perché il Re di Pescara è sempre quello di Peschiera, che compie un sacrificio
ancora più grande, proprio perché misconosciuto ed intriso di atroci sofferenze
morali e materiali.
Da Peschiera a Pescara,
dunque? No, da Pescara (vedrete) torneremo, alla fine, un’altra volta a
Peschiera, qui/adesso. Ma dobbiamo illustrare questi tre passaggi.
Peschiera 1917, ottantuno
anni or sono. Incombeva un nome: Caporetto, un piccolo paese attualmente in
Slovenia. Tutta Italia inorridiva, recriminava, malediceva. Sotto accusa i
generali, gli ufficiali, i soldati, mentre il nemico avanzava. Noi, cari amici,
non siamo capaci di perdere con la dignità degli antichi Romani o degli
Inglesi. Se vinciamo, tutto è sanato, anche l’imbroglio; se perdiamo, non
servono neppure la buona ragione o l’eroismo di un silenzioso olocausto.
Ancora adesso, la verità su
quella sconfitta viene messa da parte, perché non fa comodo.
Non fu colpa né di Cadorna,
né di Badoglio, né di Capello, né dell’ultimo soldatino sbandato. Fu colpa
esclusiva di un clamoroso errore di valutazione del governo italiano, a ciò
indotto da identico errore dei governi alleati, francese ed inglese.
Bisogna risalire all’inverno
1916-17. Alla fine del 1916, nessuno dei belligeranti pareva ormai in
condizione di potere vincere. I popoli, dissanguati da spaventose carneficine,
neppure ricordavano più quali fossero gli scopi di guerra iniziali, ed
aspiravano tutti alla pace. Il grido “il prossimo inverno non più in trincea”
risuonava clandestino, ma poderoso. Il Papa Benedetto XV° invocava la fine
della “inutile strage”.
Due Capi di Stato, Carlo l
di Asburgo e Guglielmo II di Germania, captarono per primi l’esigenza di
mettere fine al conflitto, e, con nota ufficiale del 16 dicembre 1916,
trasmessa agli Stati nemici per le vie diplomatiche, proposero una immediata Conferenza
di Pace.
Contro questa proposta si scagliarono
però i francesi e gli inglesi, decisi a distruggere per sempre gli Imperi
centrali. Essi speravano in un imminente intervento degli Stati Uniti,
propiziato dal Presidente Wilson; questi aveva appena vinto, in novembre, le elezioni
presidenziali (di strettissima misura), ed era nemico giurato del principio
monarchico, che voleva abbattere non soltanto in Germania ed Austria-Ungheria,
ma altresì in Russia. E proprio all'eliminazione preventiva dello zarismo
(benché alleato dell’Intesa) Wilson aveva subordinato il proprio intervento.
Così, Francia e Inghilterra,
sia per questo motivo, sia per il timore che in Russia prevalessero forze
pacifiste e sensibili alla proposta austro-tedesca, organizzarono, con la
collaborazione della destra nazionalista russa (che dominava la duma eletta nel
1912), il colpo di Stato del marzo 1917. Agli idi di marzo, lo Zar Nicola, il
fedele alleato che aveva salvato la Francia nel 1914 e l’Italia nel 1916, fu
pugnalato alla schiena dai suoi amici, e da coloro che gli avevano giurato
fedeltà; un colpo di Stato instaurò la repubblica e fece prigioniera la
famiglia imperiale.
La notizia fu accolta in
Occidente con travolgente entusiasmo; andate a sfogliare i giornali del tempo,
e troverete inni di gioia. La caduta della Monarchia fu considerata l’alba
della vittoria militare contro i tedeschi. Si credette che la nuova repubblica
avrebbe intensificato la guerra; e poiché si sapeva anche che l’avvenimento
apriva il cammino all'intervento americano, le prospettive militari si
dipinsero di rosa.
Per tutto il 1917, sui
fronti francese ed italiano, ci si comportò come se queste previsioni fossero
fondate. Gli eserciti dell’Intesa attaccarono a testa bassa, dappertutto,
subendo perdite umane incalcolabili, e cozzando contro valida resistenza
nemica. In Italia, a carissimo prezzo, si fecero alcuni progressi, e,
soprattutto, si riuscì a superare l’Isonzo, in agosto, sull’altopiano della Bainsizza,
in direzione di Lubiana.
A questo punto, però, il
tracciato del fronte italo-austriaco si presentava enormemente sbilanciato in
avanti, lunghissimo, tortuoso, non difendibile nel caso di inversione di
tendenza (per il caso, cioè, di dovere passare alla difensiva).
Intanto, le cose in Russia
andavano esattamente all’opposto di quanto si era creduto dai governi inglese,
francese e italiano.
Alla destra nazionalista si
era subito contrapposta una sinistra eversiva, risvegliata dagli accenti
repubblicani. E proprio questa sinistra si era gettata, abilmente, sul grande
argomento che allo Zar ed alla Zarina era stato proibito: la pace. Le
conseguenze sull’esercito, che fino a tutto il 1916 aveva tenuto eroicamente
nel nome dello Zar, furono catastrofiche; esso si dissolse come neveal sole. E
gli Imperi Centrali si trovarono d’un tratto liberati dall’incubo della guerra
sui due fronti occidentale e orientale. Divisioni tedesche affluirono sul
fronte italiano, e l’iniziativa passò di mano.
Qui mancò, nel governo,
l’elasticità necessaria per comprendere che bisognava trarre le conclusioni
dell’accaduto. Nessuno pensò di imporre una ritirata strategica preventiva, che
accorciasse il fronte e permettesse una difesa più organica. Anzi, una siffatta
idea fu demonizzata, perché avrebbe comportato l’abbandono di alcuni territori,
ed avrebbe abbassato il morale del Paese, già basso.
Fu, dicevamo, errore
gravissimo, nel quale il governo italiano fu coinvolto da quei medesimi
francesi ed inglesi che, quando i nodi vennero al pettine, seppero soltanto
insultare e deridere l’Italia; come se loro non avessero subito ben altre
clamorose disfatte, tranquillamente snobbate!
Occorre rilevare che, nella
sventura, l’Italia fu ancora fortunata.
L’offensiva nemica fu
lanciata sull’lsonzo, all’estremità più lontana del fronte, il che permise di
salvare una parte dell’esercito, e di arretrare con un minimo di gradualità,
prima al Tagliamento e poi al Piave. Se, invece, l'attacco fosse partito dal
saliente trentino, verso gli Altipiani, come nel 1916, non solo sarebbe andato
perduto tutto il Veneto, ma, peggio, l’intero gruppo di armate all'est del
saliente sarebbe rimasto accerchiato senza scampo.
Caporetto, allora. Facile
ironizzare. Tuttavia, perché non ricordare che ci fu, subito dopo, una
battaglia di arresto sulla nuova linea del Piave? E che qualcuno, al vertice
dello Stato, mentre il governo Boselli si dimetteva in preda al panico, prese
le redini, rianimò il Paese, chiamò alla guida delle Forze Armate uomini nuovi
e più vicini ai soldati, volle che non si parlasse di Adige e di Mincio bensì
soltanto di Piave e di Grappa?
Questo qualcuno, il piccolo
coraggioso Re di Peschiera, inm uniforme disadorna ma deciso, chiaro, energico,
parlò agli alleati scettici, e disse loro che l’Italia teneva duro. Tanto duro
che, giusto 80 anni fa, lo sforzo fu coronato dalla vittoria finale. Fu dunque il
Re ad imprimere la svolta. Tutto il resto, sono chiacchiere, polemiche vuote,
maldicenze sciocche. La verità, signori, non si cancella.
Pescara, adesso. Pescara è
come Peschiera. Un governo, quello di Mussolini, aveva condotto l’Italia in un
vicolo cieco, senza uscita. Le vicende della politica internazionale e delia
guerra avevano creato circostanze imprevedibili: da un lato un nemico apparentemente
irresistibile e determinato ad occupare il nostro territorio, dall'altro un
alleato intenzionato ad usare proprio quel territorio come campo di battaglia per
coprirsi il fianco meridionale.
Incapace di prendere una
qualsiasi decisione, il pentito che esprimeva quel governo si rivolse al Re,
con voto a maggioranza del suo organo supremo, perché assumesse tutti i poteri.
E il Re fu costretto ad esporsi in prima persona. Ma cosa poteva fare?
Nella morsa dei due nemici,
fece tutto il suo dovere. Andò a Pescara, e poi a Brindisi, per una sola,
insuperabile ragione: salvare il salvabile dell’Italia, a rischio della propria
vita, del proprio onore, del proprio trono. Il salvabile era la continuità
dello Stato, la validità dell'armistizio firmato, l’incolumità di Roma città
aperta, del Vaticano, delle masse di profughi rifugiate nella capitale.
Adesso non preoccupatevi.
Non ho intenzione di affrontare in questa sede la questione dell’8 settembre
1943. Non la si potrebbe trattare in estrema sintesi, data l’enorme ampiezza
dell’argomento; solo vi dirò, come il Manzoni a proposito della storia della peste sul Bergamasco, che, per chi volesse,
la storia “la c’è”, anzive ne sono moltissime, forse troppe, e che personalmente
ho cercato di approfondirla nel libro che troverete in vendita.
Però ho il dovere di
segnalare (e questo è importante, perché è un fatto nuovo), l’emergere,
nell’attuale quadro storico-politico, di un fenomeno tanto aberrante quanto
autorevolmente diffuso, ad opera di alte personalità, come il Presidente della
Camera on. Violante, e di noti opinionisti quali il Montanelli, il Buscaroli e
il Bertoldi: la tendenza ad unificare in un unico calderone le diverse ed
opposte accuse al Re, sia di provenienza nazi-fascista che di provenienza dei
vincitori anglo-americani.
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