NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 31 gennaio 2024

La strategia perdente dei CLN a congresso in Bari (28-29 GENNAIO 1944)


di Aldo A. Mola

Sulla condotta degli anglo-americani nelle regioni via via liberate si vedano le statistiche dei loro ingiustificabili crimini contro la popolazione civile in Angelo Squarti Perla, “Le menzogne di chi scrive la storia”, BastogiLibri, gennaio 2024 (l'Autore, oculista di chiara fama, celebre araldista e insigne componente della Consulta dei Senatori del Regno, è morto lo scorso 24 gennaio).



 

L'Italia divisa in due

   Il 28-29 gennaio 1944, 80 anni or sono, al teatro comunale “Piccinni” di Bari si svolse il 1° (e ultimo) congresso dei comitati di liberazione nazionale (Cln). Fu la dimostrazione patente di quanto l'Italia fosse divisa in due dopo la nomina del maresciallo Pietro Badoglio al posto di Benito Mussolini (25 luglio 1943), la firma della resa senza condizioni (3 settembre) e il trasferimento dei Reali e di Badoglio da Roma a Brindisi (9-10 settembre). Le correnti e i partiti antifascisti stentavano a trovare unità d'intenti e continuavano a disconoscere il governo del re, che però rimaneva l'unico interlocutore delle Nazioni Unite.

   A quell'appuntamento i Cln arrivarono dopo lungo cammino. Il 24 novembre 1943 i comitati pugliesi si radunarono a Bari per programmare un congresso di respiro più ampio possibile. Il 4 dicembre gli stessi e quello campano mirarono a convocarlo per il 20 dicembre a Napoli, la città più rilevante del Mezzogiorno, ma cozzarono con il divieto dell'Amministrazione militare alleata, per comprensibili motivi di sicurezza. I suoi promotori, tra i quali il liberale Benedetto Croce e il comunista Eugenio Reale, inviarono una protesta al presidente degli USA Roosevelt, al premier britannico Churchill e al maresciallo sovietico Stalin, assicurando che la convocazione del congresso non avrebbe attizzato disordini. Non ebbero riscontro. Progettarono anche di far partecipare rappresentanti dei Cln clandestini sorti nelle regioni comprese nella Repubblica sociale italiana e delle comunità di antifascisti ancora in esilio, ovvero degli Stati Uniti d'America, unico Paese che ne contasse. Ma il proposito risultò irrealizzabile. Proprio la pubblicità dell'evento avrebbe indotto tedeschi e fascisti repubblicani ad aumentare la sorveglianza che già ordinariamente rendeva rischiosissimo superare le linee di combattimento.

   Mentre l'avanzata degli Alleati cozzava contro la tenace resistenza tedesca comandata dal feldmaresciallo Albert Kesserling, quale sede del congresso gli anglo-americani imposero Bari e autorizzarono la partecipazione di novanta delegati, debitamente filtrati.

 

Preda di quattro guerre

   Da settembre l'Italia era politicamente divisa in due: il cosiddetto Regno del Sud, controllato dagli anglo-americani, e la Repubblica sociale italiana proclamata da Benito Mussolini e succuba della Germania di Hitler. Essa era preda di quattro guerre: le Nazioni Unite contro la Germania e i suoi alleati (e quindi le regioni centro-settentrionali, martellate dai bombardamenti); il governo del re, cobelligerante a fianco degli Alleati, contro la Germania e i suoi satelliti (13 ottobre); tra fascisti repubblicani e bande di antifascisti, sia repubblicani sia monarchici; e quella, dapprima in sordina, poi conclamata di Stati che consideravano nemica l'Italia nel suo insieme e miravano a conquistarne il territorio (la Jugoslavia a est, la Francia di De Gaulle a ovest, appena le fu possibile: una guerra, questa, anticipata dai corpi comandati dal generale Alphonse Pierre Juin, dalla condotta spesso ignobile).

   Quelle guerre si intrecciarono alla contesa di partiti antifascisti sia tra loro e all'interno di ciascuno di essi, sia nel loro insieme contro il Re e il suo governo: un groviglio caotico. Anche i Cln non erano affatto omogenei. Il Comitato centrale di liberazione nazionale costituito in Roma e presieduto da Ivanoe Bonomi operava in forzata  clandestinità. Esso non aveva un significativo apparato militare, a differenza del Cln Alta Italia (Milano) e dei Cln delle regioni settentrionali, affiancati da comitati militari e punto di riferimento di bande (poi brigate e divisioni) espressione di partiti o “militari”, ovvero monarchiche. Tra il Cln Centrale e i Cln dell'Italia meridionale non vi era piena sintonia.

   Sotto ogni profilo l'Italia era dunque un mosaico di soggetti, di programmi e di posizioni di combattimento, il cui disegno mutava in subordine all'andamento generale della guerra delle Nazioni Unite non solo contro la Germania ma anche contro il Giappone, in un quadro globale niente affatto univoco, come evidenziava la non belligeranza tra l'impero nipponico e l'Urss, che dichiarò guerra al Giappone solo l'8 agosto 1945, due giorni dopo il bombardamento atomico statunitense su Hiroshima.

 

L'offensiva di Croce e di Sforza contro il re

   Ai tanti conflitti che da anni imperversavano in Italia si aggiunse, sempre più aggressiva, la guerra di taluni partiti (segnatamente comunisti, socialisti, d'azione e frange della nascente democrazia cristiana) e di notabili di area liberale e “democratica” accomunati nella richiesta di abdicazione immediata di Vittorio Emanuele III. Il 24 ottobre, neppure un mese dopo l'“armistizio lungo” sottoscritto a Malta, Badoglio informò il Re del progetto da loro ventilato: la sua abdicazione, la rinuncia al trono da parte di suo figlio Umberto e il conferimento della corona al nipote, Vittorio Emanuele, principe di Napoli, di sette anni, assistito da un reggente: egli stesso. Fatto consultare Carlo Sforza, indicato da Badoglio quale mandante del progetto, il Re ammonì il maresciallo, capo di un ministero “striminzito e inefficace”, a non contare sulla sua abdicazione. Fece proporre a Sforza di entrare in un nuovo governo e si assicurò della fedeltà delle forze armate, consolidate dal rientro del maresciallo Giovanni Messe dalla prigionia.

   In vista del nuovo anno, il 28 dicembre Vittorio Emanuele III scrisse di suo pugno e incise un appello radiofonico agli italiani. Omettendo tante logoranti schermaglie, il 23 gennaio 1944, in prossimità dell'annunciato congresso dei Cln a Bari, il Re consegnò al capomissione alleata Noel Mason Mac Farlane un “appunto” sulle proprie intenzioni. Alla liberazione di Roma al governo tecnico-militare sarebbe subentrato un ministero comprendente esponenti di tutti i partiti. Quattro mesi dopo la pace sarebbe stata eletta la Camera dei deputati (il Senato in carica avrebbe ripreso le sue funzioni) e il Paese, liberamente consultato, avrebbe deliberato l'assetto istituzionale: una decisione che la Corona avrebbe seguito fedelmente. Ma fino a quel momento tutti gli sforzi dovevano rimanere concentrati nella lotta di liberazione.

   I lavori del congresso di Bari, presieduti da Michele Cifarelli, esponente del Partito d'azione, si svolsero nell'intera giornata del 28 e proseguirono la mattina del 29. Furono aperti dal discorso di Croce “La libertà italiana nella libertà del mondo”, che contenne un passaggio nettamente polemico nei confronti del re, la cui abdicazione immediata venne chiesta per consentire agli italiani di respirare liberamente. I temi all'ordine del giorno erano altri e molto più ampi: la situazione del Paese, l'organizzazione di volontari da affiancare all'esercito, il quadro politico internazionale, i problemi economici incombenti per l'inflazione galoppante, la svalutazione della lira, l’emissione delle Am-lire e l’istituzione di un organo di collegamento tra i Cln e gli anglo-americani.

   Di seguito intervenne Sforza che, dopo molte invettive contro il Re e la monarchia, propose l'invio di telegrammi al congresso degli USA, alla Camera dei Comuni, a Stalin, a De Gaulle, a Chang Kai Schek e ai popoli della Jugoslavia e della Grecia. A quel modo i Cln si ersero a soggetti di politica estera, alternativo al governo.

   Nella seduta pomeridiana, presieduta da Alberto Cianca, esponente del partito d'azione, il liberale Vincenzo Arangio-Ruiz ricordò ai partecipanti che almeno metà degli italiani erano favorevoli alla monarchia. Perciò la soluzione della questione istituzionale andava affidata al libero voto a pace raggiunta. Nel frattempo occorreva unità di intenti a cospetto di qualsiasi minaccia per garantire la sopravvivenza dell'Italia. Dopo di lui l'azionista Tommaso Fiore si scagliò contro il re, complice di Mussolini, e contro Badoglio e concordò con Arangio-Ruiz sulla necessità di un’unione antifascista, da lui intesa come allineamento sulle posizioni antimonarchiche.

   La mattina del 29, sempre con la presidenza di Cianca, i congressisti chiesero la formazione di un nuovo ministero composto da esponenti dei sei partiti rappresentati nei Cln (comunisti, socialisti, azionisti, laburisti, democristiani e liberali), dotato di pieni poteri per compiere il massimo impegno nella guerra contro il nazifascismo e risolvere gli immensi problemi economici e sociali incombenti. Deliberarono anche la nascita di una Giunta esecutiva permanente formata da esponenti dei partiti dei Cln di concerto con il Cln Centrale: una sorta di governo alternativo a quello del re. Sforza concluse i lavori congressuali con l'appello all'unità, alla fiducia nell'Italia libera e a impedire che si ripetessero in futuro nuovi attacchi reazionari alla democrazia. Anche il suo secondo discorso risultò “violento e pieno di insulti all'indirizzo del Re”, come nel Diario annotò il generale Paolo Puntoni, aiutante di campo del sovrano. Di seguito i congressisti approvarono la richiesta di immediata abdicazione di Vittorio Emanuele III, senza entrare nel merito della successione.

   Cianca elencò i componenti della Giunta esecutiva, ringraziò i partecipanti e chiuse i lavori.

 

Un groviglio caotico

   Il segretario del partito comunista italiano, Palmiro Togliatti, liquidò il congresso di Bari come un chiassoso “comizio antimonarchico”, irrilevante sotto il profilo politico interno e internazionale. Percepì con chiarezza che gli azionisti, al pari dei democratici del lavoro (o laburisti, ancora incerti sulla propria denominazione), non avevano e non avrebbero avuto seguito elettorale. I dirigenti della democrazia cristiana (compresi De Gasperi e Gronchi) dovevano far dimenticare il sostegno dato all'avvento e al radicamento del governo Mussolini nel 1922-1924 (Gronchi era stato sottosegretario all'Industria, accanto al giolittiano Teofilo Rossi di Montelera), consapevoli che la base del loro consenso era monarchica, non per devozione ai Savoia ma per la radicata diffidenza del “cittadino normale” (di cui parla Salvatore Satta in “De Profundis”) verso le “novità”, come si prospettava la “repubblica”. Togliatti pensava infine che l'elettorato del partito socialista italiano di unità popolare, formato a varie tendenze, era in gran parte fermo al riformismo di Turati e Treves e aveva per punto di riferimento iconico Giacomo Matteotti, dai toni talvolta rivoluzionari ma fermamente anticomunista. L'unità d'azione siglata in Francia prima della guerra tra il Pci e il Psi di Pietro Nenni nell'opinione dei socialisti italiani aveva già subito lo scossone causato dal brusco voltafaccia dei comunisti all'indomani del patto di non aggressione tra Hitler e Stalin dell'agosto 1939. Ligi alla Terza Internazionale i comunisti voltarono le spalle agli altri partiti antifascisti sino a quando nel giugno 1941 Hitler scatenò l'operazione Barbarossa contro l'Urss.

   Anche il presidente del Comitato centrale di liberazione nazionale attivo in Roma nella più circospetta clandestinità, trascorsa tra conventi e abitazioni di amici fidatissimi, accolse con molta perplessità gli ordini del giorno approvati dai Cln adunati a Bari. All'avvento della Rsi mussoliniana Bonomi commentò nel Diario la “frattura” che essa avrebbe determinato tra il Nord e il Sud d'Italia: “Il Nord e il Centro che hanno già fatto esperienze repubblicane con la Repubblica Cisalpina (in età franco-napoleonica, 1796-1804, NdA) e con le due repubbliche di Venezia e di Roma (1848-1849, NdA) si abitueranno a considerare la monarchia come un regime che può essere rovesciato; il Mezzogiorno invece, che ha già una lunga tradizione monarchica, continuerà a considerare la monarchia come un istituto che non si discute perché radicato in una lunga e ininterrotta consuetudine”. Per chi la conosca, e Bonomi la conosceva, la storia è “magistra vitae”. Nessuno poteva cancellare la memoria dei sacri romani imperatori, dagli Ottoni a Federico II di Svevia, dei Re Normanni e Aragonesi, degli Asburgo di Spagna e d'Austria, e infine dei Borbone di Spagna durati dal 1737 all'arrivo in Napoli di Giuseppe Garibaldi con l'insegna “Italia e Vittorio Emanuele”, pronto a salutare Monsù Savoia “re d'Italia” quando questi gli venne incontro a cavallo a Vairano Catena, presso Teano. Forma della religiosità, la monarchia era metastorica, radicata nel mito. Il rifiuto di collaborare con il governo Badoglio non significava affatto rifiutare il Re in quanto tale ma la predilezione da lui accordata ai militari anziché ad antifascisti che come lui avevano attraversato il regime convinti che prima o poi esso sarebbe stato travolto dai suoi errori. Il 16 ottobre, dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia alla Germania, il CCLN chiese la “costituzione di un governo straordinario che sia l'espressione di quelle forze politiche le quali hanno costantemente lottato contro la dittatura fascista e fin dal settembre 1939 si sono schierate contro la guerra nazista (a differenza del PCI)”, ma anche di evitare “ogni atteggiamento che possa compromettere la concordia della nazione e pregiudicare la futura decisione popolare”, rinviata alla cessazione delle ostilità, quando il popolo sarebbe stato convocato “per decidere sulla forma istituzionale dello Stato”. Esattamente come proponeva Vittorio Emanuele III.

   Significativamente Bonomi non commentò nel Diario il congresso di Bari. Oltre un mese dopo, il 6 marzo 1944 inviò al CCLN la Dichiarazione redatta il 2 precedente, “riflesso del suo fermo convincimento che inspirerà e indirizzerà la sua azione futura”. Messe da parte le posizioni unilaterali (come quelle accesamente antimonarchiche dei vertici del Psi e del PdA), occorreva promuovere la “guerra per bande” (poi detta partigiana e infine dei “volontari della libertà”, agli ordini del generale Raffaele Cadorna, monarchico), in aggiunta (non in alternativa) all'“azione preminente e decisiva delle forze armate dello Stato italiano”. “La guerra nazionale ha bisogno della concordia nazionale”. Perciò bisognava “accantonare la questione della forma dello Stato, per rifare così l'unità spirituale degli italiani per la guerra e per la vittoria”. “La richiesta dell'abdicazione dell'attuale Re non può passare innanzi e comunque indebolire la richiesta  dell'assemblea incaricata di deliberare, a territorio nazionale liberato, la nuova costituzione dello Stato”. In sé l’abdicazione non risolveva comunque la necessità di assicurare allo Stato un Capo sino al raggiungimento della pace. E poiché esso non poteva essere espresso dai cittadini, doveva appartenere alla Casa regnante.

 

Le “bande” e la Rsi

   Le informazioni di cui Bonomi disponeva mostravano che le “bande” di volontari stentavano a costituire una forza organizzata decisiva per l'abbattimento della Repubblica mussoliniana, sostenuta dai tedeschi. Questa si reggeva non solo sulla feroce repressione di antifascisti notori e di partigiani (soprattutto militari) ma anche sulla forza di inerzia della vita quotidiana, sulla sua capacità di far funzionare l'amministrazione pubblica, in specie quella locale, e di evitare misure troppo impopolari, per non causare il collasso sociale e la ribellione di massa. Se non mosse un dito per impedire le razzie di ebrei destinati alla deportazione nei campi germanici di sterminio, Mussolini concesse poco spazio e nessun potere ad antisemiti e massonofagi fanatici come un antico spretato che, superstizioso qual era, il duce riluttava persino a ricevere. Ferrovie, poste, scuole, dalle elementari alle università, continuarono a funzionare con una certa regolarità sino a fine aprile del 1945.

   Le “bande” impiegarono tempo, tra il settembre e il marzo 1944, a prendere corpo. Negli appunti diaristici Nuto Revelli, reduce dalla disastrosa campagna di Russia, annotò di aver “battezzato” con altri ufficiali del regio esercito la “1^ Compagnia rivendicazione caduti” (5 ottobre 1943), diffidente nei confronti dei politici (“La guerra dei poveri”, Torino, Einaudi, 1963, p. 141). Dante Livio Bianco, avvocato, già iscritto al Pnf, esponente di spicco della banda “Italia Libera” fondata da Duccio Galimberti” e militante del partito d'azione, al primo incontro con Revelli e gli ufficiali Faustino Dalmazzo e Giovanni Delfino (13 novembre) annotò nel Diario: “Si tratta di militari senza alcuna idea politica: speriamo però di averli scossi dal loro atteggiamento”. Solo quando si ebbe notizia dello sbarco anglo-americano a Nettuno (8 febbraio), che illuse sulla rapida avanzata degli Alleati verso Roma ma rischiò di risolversi in uno scacco, e dopo aver preso contatto con altre formazioni partigiane (ne ha scritto Aldo Sacchetti in “Un romano tra i ribelli”, ed. L'Arciere) Revelli decise di aggregarsi alla “banda”di Bianco in una “atmosfera di simpatia” scaturita anche dalla scoperta che erano entrambi figli di massoni.

 

L'arrivo in Italia di “Ercoli” e la “svolta” dell'aprile 1944

   Nel “Regno del Sud” nel frattempo la storia corse rapidamente. L'11 febbraio vennero nominati nuovi ministri del governo Badoglio, tra i quali Falcone Lucifero all'Industria e Commercio, Epicarmo Corbino al Lavoro, Guido Jung alle Finanze e il generale Taddeo Orlando alla Guerra, in perfetta sintonia con Giovanni Messe. Alle 10 del 17 giurarono fedeltà al re. Il 15 Harold Alexander impartì lo sciagurato ordine di bombardamento sull'Abbazia di Montecassino, rasa al suolo. Una decisione sconvolgente, militarmente ingiustificata, politicamente controproducente, deplorata anche all'estero da tutte le persone

di buon senso.

   A inizio aprile, rientrato dall'Urss in Italia via Algeri, Togliatti (nome di battaglia “Ercoli”) propose l'ingresso di tutti i partiti in un nuovo governo. Era la sconfessione della linea di Bonomi, del Congresso di Bari e del “filosofo di Pescasseroli”, come Dante Bianco appellava Croce. Il re, che sentì rafforzata la monarchia, dal 16 marzo accennò al proposito di rinunciare all'esercizio dei poteri a favore del figlio quale Luogotenente, conservando per sé la Corona, quando la capitale fosse stata liberata ed egli vi fosse rientrato. Sotto arrogante e incalzante pressione degli anglo-americana il 12 aprile 1944 rese pubblica la decisione. Nell'“Itinerario generale dopo il 1° giugno 1896” annotò di suo pugno, tutto maiuscolo, “Dichiarazione prossima Luogotenenza” e concluse: “Viva l'Italia più che mai!!”.

   Sul Congresso dei Cln a Bari si possono narrare molte fiabe. Per la storia esso ebbe modesto rilievo.

sabato 27 gennaio 2024

Saggi storici sulla tradizione monarchica - VI

 

GLI IMPERATORI DELLA CASA DI SASSONIA.

 

La morte di Ludovico il Pio, che già, durante il suo regno aveva dovuto combattere contro le pretese dei suoi successori, affrettò la fine dell'impero di Carlo Magno; fin dall'830 le tre principali masse nazionali, Italia, Francia e Germania andarono sempre più nettamente delineandosi nel mosaico di popolazioni che formavano l'impero; l'autorità dei conti e dei marchesi si fece più forte. Soltanto un uomo di tempra eccezionale avrebbe potuto riportare lo stato nelle primitive condizioni, ma i successori di Carlo Magno si mostrarono poco energici e inabili al governo. L'ultimo di essi Carlo il Grosso, che almeno di nome era riuscito a riunire sotto di se tutti i paesi dell'impero, non seppe neppure resistere ai barbari che premevano ai confini e nell'887 fu costretto a deporre la corona. Dalla dissoluzione del suo impero uscirono cinque regni: Francia occidentale, Francia orientale (poi detta Germania), Alta e Bassa Borgogna e Italia.

 

Il regno d'Italia comprendeva gran parte della penisola, meno lo Stato della Chiesa, il ducato di Benevento e i domini bizantini dell'Italia meridionale, in parte conquistati dagli arabi che andavano sempre più estendendo la loro potenza nel Mediterraneo. I feudatari italiani elessero Re uno di loro: il Marchese del Friuli Berengario ma questi per dieci anni dovette lottare contro le ambizioni dei Duchi di Spoleto; poi nell'899 gli Ungari, barbari di razza mongola venuti dalla regione degli Urali, si rovesciarono sull'Italia. Berengario li sconfisse al Brenta, ma essi riuscirono a passare gli Appennini, facendo scorrerie in Emilia.

 

 

 

Il regno di Berengario fu lungo, ma funestato da lotte intestine, fomentate dai suoi avversari che gli contrapposero prima Ludovico re della Bassa Borgogna e in seguito Rodolfo re dell'Alta Borgogna. 

Questi finì coll'avere il sopravvento sul rivale che nel 924 veniva ucciso a tradimento in una chiesa di Verona, dopo trentasei anni di agitatissimo regno. 

Approfittando della caotica situazione italiana riuscì al feudatario Ugo di Provenza di impadronirsi del potere; egli ebbe il merito di respingere gli Ungari che si erano riaffacciati minacciosi e di restituire alla capitale Pavia il suo antico splendore, ma fu poi costretto dal potente Berengario marchese di Ivrea a ritirarsi in Provenza ove mori nel 947, cedendo la corona al figlio Lotario.

 

Nel 950 anche Lotario moriva, forse avvelenato da Berengario che si fece subito incoronare Re; ma la vedova di Lotario, Adelaide si rivolse al re di Germania, Ottone di Sassonia che sceso in Italia sposò Adelaide e si proclamò Re, lasciando a Berengario il regno come vassallo. Berengario II non mantenne però la fede giurata ed allora Ottone sceso una seconda volta in Italia, si fece incoronare Imperatore nel 962 e dopo due anni, vinto definitivamente Berengario II, lo mandò in esilio.



Con Ottone I ha inizio l'unione stabile fra le corone di Germania d'Italia e dell'Impero, cioé quello che fu definito il Sacro Romano Impero della Nazione Germanica. Ottone I confermò al Papa le donazioni carolinge e mirò ad affermare la sua autorità anche sull'Italia meridionale contro i bizantini, ma fu poi conclusa una pace con la quale si riconosceva la sovranità dell'impero occidentale su Capua e Benevento, lasciando il resto all'orientale. Il patto fu cementato dalle nozze fra il figlio dell'imperatore, ottone II e la principessa greca Teofano. (972)

 

Una particolare politica svolse Ottone III, che della madre greca subì fortissimo l'influsso; mentre Roma era dilaniata dai due partiti, imperiale e autonomista, rispettivamente rappresentati dai Conti dì Tuscolo e dai Crescenzi, egli cercò di realizzare nel suo impero, una vera rinascita dell'antica romanità, governando da Roma la società romano cristiana d'accordo con il Pontefice nel temporale e nello spirituale. Egli diede ai suoi funzionari nomi greci e romani e comandò ai giudici di) attenersi all'antico diritto romano; i suoi progetti furono però troncati dalla morte che lo colse ventiduenne nel 1002, Mentre assediava Roma che si era ribellata al potere imperiale.


Ultimo imperatore della casa Sassone fu Enrico II pronipote di di Ottone I il grande, sotto il quale il potere imperiale declinò, obbligando il sovrano a prendere ogni decisione con i grandi principi del'impero, riuniti in assemblee dette diete. Egli continuò la politica ecclesiastica dei suoi predecessori, favorendo i feudatari ecclesiastici e interferendo spesso nelle loro designazioni e nomine. Alla sua morte, nel 1024, lasciò l'Italia stremata dalla lotta delle fazioni, ora favorevoli ora avverse al potere imperiale, che aveva ormai gettato i semi della futura discordia con il Papato.


La morte della cugina della Regina Elena

Emilio Del Bel Belluz

 Lo scrittore Schopenhauer definiva negativamente la gioia del ricordare, e nonostante sia grande la mia passione per questo scrittore, non ne condivido il suo pensiero. La vita che viviamo è fatta di molti momenti che ci sfuggono, che dimentichiamo. A volte penso a coloro che donano ed aiutano le persone nel momento del bisogno, e poi vengono dimenticati da chi è stato beneficiato. Davanti a me ho un vecchio articolo che ricorda la morte della cugina delle Regina Elena di Savoia, avvenuta a Roma nel 1951. La nobile si chiamava Liubiza Petrovich Negosh, era la figlia del primo cugino di Re Nicola II, il volvoda Sako, per il quale il Re del Montenegro aveva una grande simpatia, alimentata dal fatto che non aveva fratelli. Credo che sia giusto ricordare questo frammento di storia del Montenegro, nell’avvicinarsi della giornata della memoria. La Regina Elena che perdette una figlia, l’amata Mafalda, in un campo di concentramento, non dimenticò mai le sofferenze patite da tutti quelli che vissero questo dramma.  
L’amata Regina Elena non aveva potuto stare vicino alla cugina nel momento del dolore, essendo in esilio, e questa sofferenza l’aveva affrontata con grande forza d’animo.  La forzata lontananza non l’aveva indebolita, perché la fede nel buon Dio Le era sempre di grande supporto.  Nel giornale Il Corriere della Sera del 30 marzo 1951  si dava notizia della morte della donna vicina alla Regina. “La defunta viveva a Roma dal 1945, dopo che Elena era riuscita a rintracciarla e a trarla in salvo  da un campo di concentramento in Germania. Sposata al prof. Reinwein, anch’egli nato nel Montenegro, Liubiza aveva vissuto fino al settembre del 1943 a Cettigne dove s’era soprattutto occupata di beneficenza, quale presidente dell’Ente Nazionale di assistenza. 
I sentimenti antinazisti del marito e i suoi legami di parentela con Casa Savoia furono le cause principali della traduzione dei Reinwein in un campo di concentramento tedesco, dove rimasero fino a quando ormai senza patria, senza mezzi e speranze furono ritrovati dalla Regina d’Italia e ospitati a Roma. 
Da allora essi si erano silenziosamente chiusi in una modesta abitazione di tre stanze, raccogliendo le superstiti energie per far compiere gli studi ai figli che erano già venuti in Italia a perfezionare la loro istruzione. Già nel 19441, Liubiza era venuta una prima volta nel nostro Paese quando, assalita dai primi attacchi del cancro, subì a Roma vari interventi chirurgici”. La Regina d’Italia che aveva un buon cuore si prodigò sempre a favore della cugina, per la quale aveva un grande attaccamento. E che credo considerasse quasi come una sorella.  
La Regina, che ha voluto in questi ultimi tempi essere continuamente informata delle condizioni di salute della cugina, Le aveva inviato una sua fotografia, accompagnata da una lettera molto affettuosa. 
Le spoglie di Liubiza, che non potrà essere accolta in un  cimitero cattolico, verrà sepolta domani mattina nel cimitero degli stranieri, presso la piramide di Caio Cestio”. 
Nel mio cuore spero che su quella tomba qualcuno porti una rosa, come sicuramente avrebbe fatto la Regina Elena. 


 

giovedì 25 gennaio 2024

Biografia dell'Italia monarchica, la storia dal 1861 al 1946



In un passo del libro si legge: “[…] Tutto ciò portò sia alla fine del regime fascista, in quel convulso 25 luglio 1943, sia, a guerra finita, alla conclusione della parabola della monarchia sabauda, sconfessata, nonostante maldestri tentativi di salvare il salvabile, dal referendum del ’46, anch’esso non privo di polemiche e rumores di tacitiana memoria e che mostrò ancora una volta un’Italia spaccata in due. Si apriva così la lunga pagina della Repubblica, “in un Paese diviso, più nero nel viso, più rosso d’amor”, come cantava Rino Gaetano nella sua Aida: un’Italia, libera e democratica, da ricomporre e ricostruire. Attraverso le pagine di questo libro si avrà dunque modo di conoscere più da vicino questa lunga e multiforme pagina di storia, fatta di speranze, sogni, ambizioni, velleità, delusioni, amarezze, soprusi, sofferenze e infine riscatto: il tutto con un tono chiaro, limpido e diretto, per un’opera di divulgazione, che, se ben condotta come in questo caso, non è affatto sinonimo di nociva approssimazione come alcuni intendono”.

[...]

https://www.basilicata24.it/2024/01/biografia-dellitalia-monarchica-la-storia-dal-1861-al-1946-nel-libro-di-saverio-omar-ciccimarra-133620/





mercoledì 24 gennaio 2024

Umberto di Savoia e il suo tour in Argentina per incontrare le comunità di origine italiana

 

Nel 1924 il Principe di Piemonte e futuro Re d’Italia Umberto II compì il viaggio Oltreoceano che ebbe vasta eco sui giornali dell’epoca. In questa prima parte del viaggio esaminiamo le tappe Buenos Aires-La Plata-Rosario (dal 6 al 12 agosto)


Il Principe di Piemonte Umberto Nicola Tommaso Giovanni Maria di Savoia, com’è noto, diventò re d’Italia con il nome di Umberto II il 9 Maggio del 1946 dopo l’abdicazione di suo padre Vittorio Emanuele III. Il suo fu un regno breve, effimero direi, perché il 12 Giugno, appena 33 giorni dopo la salita al trono, il neo Re dovette già prendere la via dell’esilio, conseguentemente alla vittoria della Repubblica sulla Monarchia nel Referendum che si tenne il 2 Giugno di quello stesso anno.  Questo fu l’epilogo di un regno che il destino e gli Italiani vollero che per Umberto II fosse estremamente fugace.  Ma da quel fatale epilogo del 12 Giugno del ’46, proviamo a fare un salto a ritroso di 22 anni, e precisamente al 6 Agosto del 1924. A quell’epoca, il Principe Umberto, aveva solo 19 anni, eppure era già stato incaricato di rappresentare l’Italia in una serie di visite diplomatiche internazionali che lo portarono in Argentina e in altri Paesi del Sud America.

[..]

PiemonteTopNews  - prima parte 

PiemonteTopNews - seconda parte


Appuntamento culturale a Roma

 Siete cortesemente invitati a un Nostro Incontro di Studio e di Ricerca

dedicato al Patrimonio Storico Italiano, 

con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.





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lunedì 22 gennaio 2024

Ci viene in mente Libia? L'antica obliata quarta sponda



 

di Aldo A. Mola

 

Quando l'Italia era uno Stato indipendente...

 

 Il Vicino e il Medio Oriente destano preoccupazioni crescenti. Dal Mar Rosso al Mediterraneo un'area vitale per i traffici planetari e quindi per l'Italia, si infittisce di punti interrogativi senza risposte dirette e sicure. Giustamente in allarme, il governo, subordina le decisioni ultime al “passaggio parlamentare” se dovessero travalicare gli impegni vincolanti per Trattati già sottoscritti.  Una volta di più il grande assente è l'Unione Europea. Afona come Istituzione, un coro stonato quando parla. Forse ha ragione Francesco Maselli, autore di “L'Italia ha paura del mare. Reportage dai confini della penisola”. (NR edizioni). Già patria di eroi, santi, poeti e navigatori al servizio di sovrani più lungimiranti dei principi locali, il Paese che ha dato i natali di esploratori e di grandi ammiragli si ripiega su se stesso? 

   Certo sconcerta il silenzio assoluto da mesi dominante nei “media” sulla Libia, quasi non sia, con la Tunisia, l'“altra sponda”, riferimento obbligato per la geografia, che impone la storia.

   Motivo in più per allungare lo sguardo a un passato neppure tanto remoto, ma del tutto dimenticato.  

   L'ultima dimostrazione di piena sovranità dell'Italia risale a 122 anni addietro con l'“impresa di Libia” iniziata il 29 settembre 1911 e conclusa con la pace di Losanna il 18 ottobre 1912. Il Re Vittorio Emanuele III e il governo, presieduto dallo statista piemontese Giovanni Giolitti affiancato agli Esteri dal siciliano Antonino Paternò Castello marchese di San Giuliano, decisero in piena autonomia tempi e modi della guerra contro l'impero turco-ottomano, da secoli nominalmente sovrano su Tripolitania e Cirenaica. Nel corso del conflitto, per costringere il nemico ad arrendersi, il 4 maggio 1912, il generale Giovanni Ameglio (Palermo, 1854 - Roma, 1921), massone, intraprese la liberazione di Rodi e del Dodecaneso dal secolare dominio turco. Quell’operazione speciale, deliberata dal governo senza avallo preventivo di alcuno Stato, fu tra i più importanti successi dell'Italia e ne fece, a tutti gli effetti, una potenza nel Mediterraneo.

   La guerra venne decisa da Vittorio Emanuele III in un incontro segreto con Giolitti nel Castello di Racconigi (Cuneo) il 16 settembre 1911. Alla partenza da Roma per il Piemonte, per garantire la massima riservatezza alla  colloquio, Giolitti fece credere alla moglie, Rosa Sobrero, che sarebbe andato a Bardonecchia, ove da anni affittava un villino per le vacanze estive (ne ha scritto Antonella Filippi in Giolitti a Bardonecchia, 2021). Invece da Torino si recò in incognito a Cavour, ove venne riservatamente prelevato in auto dal generale Ugo Brusati, aiutante di campo del Re, e recato a Racconigi per definire le“cose da fare”, a cominciare dalla dichiarazione di guerra, a Camere chiuse.

  Fu un azzardo?

  Gli studi di storia coloniale costituiscono una sorta di orto separato dalla storia politico-militare generale e risultano spesso ispirati da pregiudizi e/o “principi” giuridici, ideali e morali maturati dopo la sconfitta dell'Italia nella seconda guerra mondiale e l'azzeramento del suo impero coloniale, risalente in massima parte all'età pre-fascista. In molti casi si sostanziano nella deplorazione della colonizzazione e in narrazioni anacronistiche, culturalmente più dannose che inutili. Il centenario dell'impresa di Libia coincise con il crollo e l'orrendo linciaggio di Gheddafi (20 ottobre 1911), con l'emarginazione dell'Italia dall'“altra sponda” e la ripresa  della tratta di “migranti” tuttora in corso: ingredienti che sconsigliarono la sua rivisitazione storiografica. Lo osservò anche Nicola Labanca in “La guerra italiana per la Libia, 1911-1931” (il Mulino, 2012, p. 7). Nel 2022, il 75° del trattato di pace che il 10 febbraio 1947 calò la saracinesca sulle aspirazioni dell'Italia a continuare la sua “missione civile” nelle colonie ha registrato pochi studi innovatori sulle colonie italiane. Tra le eccezioni vanno menzionati il saggio di Roberto Alpozzi “Bugie coloniali. Leggende, fantasie e fake news sul colonialismo italiano” (ed. Eclettica) e “Mogadiscio 1938. Un eccidio di italiani fra decolonizzazione e guerra fredda” di Annalisa Urbano e Antonio Varsori (ed. il Mulino). Motivo in più per tornare a riflettere sulla lunga lotta dell'Italia “per” e “nella” Quarta Sponda, come emblematicamente fu detta la Libia. L'espansione coloniale è parte integrante della storia generale dell'Italia, al pari di quella degli altri Stati europei, anche territorialmente minuscoli come il Belgio e l'Olanda, che ebbero vasti imperi, ne trassero immense ricchezze e trattarono gli “indigeni” con metodi infami.

 

La “missione” dell'Italia tra errori e successi

   Tre lustri dopo la sua proclamazione (1861), con l'ascesa della Sinistra storica al governo (1876) il regno d'Italia imboccò la via delle conquiste coloniali, comune a tutti gli Stati rivieraschi europei, con la sola eccezione dell'impero d'Austria-Ungheria, forte di porti bene attrezzati (Trieste e Fiume) e di una politica commerciale tra le più solide del Vecchio Continente. Sin dagli albori del Risorgimento il teologo neoguelfo Vincenzo Gioberti e il repubblicano Giuseppe Mazzini rivendicarono la missione civile dell'Italia “oltremare”. Profondamente delusa e allarmata dall'imposizione del protettorato francese su Tunisi (1881), il giovane regno cercò nel Mar Rosso “le chiavi del Mediterraneo”, come argomentato da Pasquale Stanislao Mancini: dall'acquisto della baia di Assab allo sbarco a Massaua (1882-1885), dall'annessione dell'Eritrea alla prima guerra contro l'Etiopia di Menelik (1894-1896), chiusa con la sconfitta degli italiani presso Adua. A parte l'elevazione della Somalia a colonia (1907), di espansione non si parlò più. Però con gli accordi italo-francesi del 1902 Roma si premurò di ottenere la prelazione sulla costa libica: un progetto accelerato dopo la conferenza di Algeciras e il trattato italo-russo di Racconigi (1909). A cospetto del protagonismo coloniale dell'impero di Germania e dell'accordo franco-spagnolo per la spartizione del Marocco, a prescindere dalle pressioni dei nascenti nazionalisti italiani e delle mene del vaticanesco Banco di Roma, il re ritenne che la monarchia sarebbe stata screditata se la Libia fosse stata occupata da un'altra potenza. Bisognava dunque averla, per quanto povera fosse.

   Benché San Giuliano temesse che la sconfitta dei Giovani Turchi al potere a Istanbul potesse scatenare conflitti nei Balcani, Giolitti volle la rottura diplomatica con l'impero turco per dichiarare guerra (29 settembre) e ordinare lo sbarco a Tripoli (5 ottobre, cui seguirono Bengasi, Derna, ecc.). Come poi spiegò, fu una “fatalità”, che comportò la “necessità” di ricorrere alle armi. La “mobilitazione speciale” (sic!) e l'invio di un corpo di 35.000 uomini risultò inferiore al bisogno. Malgrado le informazioni fornite da Enrico Insabato, a contatto con gli islamisti ortodossi della Senussia, Roma compì due errori clamorosi. Contò sulla precipitosa fuga della guarnigione nemica (appena 5.000 militari) e, peggio ancora, sulla solidarietà degli arabi contro i turchi. Invece molti libici aderirono alla “guerra santa” indetta dal Sultano turco contro gli invasori, “infedeli”. Il 23 ottobre truppe turche e volontari libici assalirono gli italiani a Sciara Sciat e massacrarono 370 soldati e 8 ufficiali. Una noticina a pagina 161 della relazione in cinque volumi sulla “Campagna di Libia” pubblicata dal Ministero della Guerra nel 1922 sintetizza i «supplizi inenarrabili cui furono sottoposti i nostri soldati caduti nelle loro mani: mutilazioni, acciecamenti, crocifissioni, evirazioni, sepolture di vivi, strazio di cadaveri». Atrocità di cui «rimase vittima anche personale sanitario intento alla sua pietosa missione». La risposta fu violentissima: in pochi giorni si susseguirono fucilazioni e impiccagioni (almeno 2.000 persone, compresi donne e ragazzi) e la deportazione di “ribelli” in isole italiane (Tremiti, Favignana, Ponza, Ustica...). La proclamazione della sovranità italiana su Tripolitania e Cirenaica venne bollata come nuova crociata, anche per la confusione tra la croce dello scudo sabaudo e l'Italia, Stato non solo laico ma all'epoca persino “scomunicato”.

  Gli “Alleati” (Germania e Austria-Ungheria) non osteggiarono scopertamente l'Italia ma non la aiutarono affatto; la Francia tramò ai danni di Roma; Londra “prese atto”, come gli USA, già intenti a studiare le risorse della Libia. I turchi organizzarono la guerriglia con ufficiali di elevate capacità, come Enver Bey e Mustafà Kemal, futuro Ataturk. Per prevalere gli italiani spostarono la guerra dalla costa libica a quella della Turchia stessa. Dopo l'occupazione di Rodi e del Dodecaneso arrivarono a tranciare i cavi telegrafici sottomarini (ne venne mandato uno spezzone a Giolitti) e si spinsero nei Dardanelli. Memore delle osservazioni compiute di persona in navigazione nell'Egeo, nell'ottobre 1912 Vittorio Emanuele III dettò a Giolitti i punti della Turchia europea da bombardare. 

   In un anno l'Italia destinò alla Libia circa 200.000 uomini. Lamentò 2.000 morti e 4.200 feriti. Al termine di lunghi preliminari a Ouchy (per parte italiana ai ministri Pietro Bertolini e Guido Fusinato si aggiunsero Giuseppe Volpi e Bernardino Nogara) la pace di Losanna riconobbe l'autorità califfale del Sultano dell'impero turco in Tripolitania e Cirenaica: un equivoco perché per gli islamici non vi è separazione tra potere religioso e politico-militare. La Libia ebbe governatori militari. I propositi di conciliazione con la popolazione araba coltivati da generali lungimiranti come Ameglio cozzarono con errori marchiani, come il cannoneggiamento della tomba di Sidi Rafi, venerato come santo dagli islamici.

   I progetti di valorizzazione economica dello “scatolone di sabbia” (come la Libia venne polemicamente detta da Gaetano Salvemini) vennero vanificati dalla sproporzione tra investimenti e profitti. Anche il geografo Arcangelo Ghisleri, massone, nell'imponente opera “Tripolitania e Cirenaica dal Mediterraneo al Sahara” (dicembre 1911) convenne che i requisiti geofisici e climatici non facevano bene sperare nel futuro. Altrettanto concluse la Commissione presieduta da Leopoldo Franchetti.

   L'impresa ebbe un costo esorbitante per l'erario, ma risultò vincente sotto il profilo politico internazionale e interno. Il governo ebbe il sostegno di cattolici, socialisti riformisti, parte dei repubblicani e persino di Teodoro Moneta, premio Nobel per la pace. Per valorizzare la Quarta Sponda, in massima parte ignota, l'Italia aveva bisogno di tempo, denaro e investimenti internazionali. Ma due anni dopo, a fine luglio 1914, la Grande Guerra sconvolse tutti i piani.

 

Durante la Grande Guerra

  L' arrangement (= accomodamento, non trattato né “patto”) di Londra del 26 aprile 1915 promise all’Italia sovranità piena e definitiva su Rodi e il Dodecaneso. Messa all’incasso l’adesione dell’Italia all’intervento, appena dieci giorni dopo il presidente del governo francese offrì segretamente lo stesso “bottino” al principe Giorgio di Grecia in cambio dell’intervento ellenico a fianco dell’Intesa. L’Italia aveva firmato in gran segreto. E in gran segreto la si poteva defraudare. I franco-britannici violavano i patti poco prima sottoscritti. Lo stesso però fece il governo italiano che dichiarò guerra alla Germania solo il 28 agosto 1916 anziché il 24 maggio 1915, come chiesto dall'accordo di Londra. Con la sua firma il governo italiano, presieduto da Antonio Salandra con Sidney Sonnino agli Esteri, si ritenne libero dai vincoli contemplati dalla pace di Losanna.

   Le colonie posero gravi problemi ancor prima della conflagrazione europea vera e propria. Sin dal novembre 1914 il nuovo ministro delle colonie Ferdinando Martini presentò al collega degli Esteri, Sidney Sonnino, le “memorie” approntate da Giacomo Agnesa, che premeva per l’acquisizione di Gibuti e della costa somala francese per rendere sicura la presenza italiana in quella regione. Sonnino non se ne occupò minimamente. Puntava a una base in Albania per controllare l'Adriatico.

   Il 12 novembre il califfo di Istanbul ordinò la guerra santa per la liberazione di tutte le terre islamiche dagli infedeli. Le ripercussioni non si fecero attendere. In Somalia la guerriglia contro gli italiani venne guidata dal mullah in armi da quasi vent’anni. Quel conflitto terminò solo nel 1919  per intervento convergente italo-britannico, che costrinse il mullah ad arroccarsi in un’ansa del fiume Uebi-Scebeli, ove morì nel 1921.

   In Eritrea gl’italiani dovettero fare i conti con l’irrequietezza dell’Impero d’Etiopia dopo la morte di Menelik: teatro della contrapposizione fra Ligg Jasu, figlio del ras Michael, tardivamente convertitosi dall’islamismo al cristianesimo, e l’abuna Matteo. Caduto sotto l’influenza turco-tedesca, Ligg Jasu alimentò l’odio dei musulmani contro gl’italiani, puntando ad assalire Somalia ed Eritrea con l’aiuto di Berlino e Istanbul. A sua volta nel febbraio 1915 il negus Michael ammassò 150.000 uomini sul confine con l’Eritrea, senza però assalirla. Il 27 settembre 1916 un colpo di stato acclamò imperatrice la uizero Zeuiditù, terzogenita di Menelik, mise al bando Ligg Jasu e proclamò erede al trono e capo del governo il ventiseienne degiacc Tafari (futuro Hailé Selassié) , figlio di ras Maconnen. L’anno seguente, costretto Ligg Jasu a riparare in Dancalia e vinto sul campo il deposto Michael, Tafari si liberò dalle interferenze turco-germaniche. Il commercio dall’interno alla costa eritrea favorì gli approvvigionamenti per l’Italia.

   Le conseguenze più gravi della “guerra santa” proclamata dal califfo di Istanbul si registrarono in Libia. Alla vigilia della Grande Guerra la presenza italiana rimaneva circoscritta alle principali città costiere e a centri dell’entroterra comunicanti con una rete di carovaniere sempre insidiate dalla guerriglia turco-ottomana. Su impulso del Sultano turco,nil Gran Senusso Sidi Ahmed esh Sherif chiamò alla guerra contro l’occupazione italiana. Il colonnello Giovanni Miani ritenne pertanto necessario colpirlo nel suo stesso territorio, il Fezzan, occupando Nufilia, a 150 km dalla costa. Cozzò tuttavia contro una resistenza invincibile e dovette lasciare in mano avversaria l’intera Sirte orientale, dalla Cirenaica al Fezzan. Quel successo indusse quasi tutti i capi tribù a schierarsi contro l’“occupazione” italiana. Una seconda offensiva di Miani nel novembre 1914 non ebbe maggior successo. Nei mesi seguenti Gadames venne più volte occupata e perduta. Il comando generale di Tripoli deliberò quindi un’offensiva generale per riprendere il controllo delle vie carovaniere. Allo scopo furono lanciate due colonne, una agli ordini del tenente colonnello Gianninazzi, l’altra di Miani. La prima fu costretta a ripiegare, dopo ripetuti attacchi di forze preponderanti. Gianninazzi stesso rimase ferito. Peggio andò a Miani, che si diresse su Kasr (o Gasr) bu Adi. Quando iniziò il combattimento, Ramadan Sceteui, già nemico aperto degl’italiani, poi loro fiancheggiatore nella spedizione, volse le armi contro la colonna di Miani, che rimase annientata e lasciò in preda al nemico 5.000 fucili, milioni di cartucce, mitragliatrici, artiglieria da campagna, copiosi viveri e la cassa militare. A differenza di quanto scrisse Angelo Del Boca, non costituì «il più grande disastro  dell’Italia coloniale». Nondimeno fu una sconfitta che indusse il governatore generale Giulio Cesare Tassone a tirare i remi in barca. Archiviate le speranze di rapida vittoria sull’Austria-Ungheria, il comandante supremo Luigi Cadorna chiese che tutte le risorse belliche fossero destinate “alla fronte”, come poi scrisse nelle “Memorie” recentemente ristampate (BastogiLibri, 2019). A suo meditato giudizio, l'Italia avrebbe riconquistato la Libia vincendo sul Carso. Le colonie facessero da sé. Anche in Libia molte basi e distaccamenti furono abbandonati a sé stessi. Fu il caso di Tahruna, ove nel maggio 1915, poco prima dell’intervento dell’Italia in guerra, si distinsero il tenente colonnello Cesare Billia (ferito continuò a dirigere la difesa sino a quando morì) e Maria Brighenti, moglie del maggiore Costantino Brighenti, assediato a Beni Ulid. Nel corso dell’estrema sortita anche ella venne martirizzata. Fu la prima donna insignita di Medaglia d’Oro al Valor Militare. La notizia della sua morte fu data dagli assassini stessi al marito che, dopo altri giorni di vana resistenza in Beni Ulid, si tolse la vita.

   Nei mesi seguenti, sotto l’incalzare della guerra condotta con mezzi crescenti dai libici foraggiati da turchi e tedeschi, la presenza italiana in Libia si restrinse a pochi lembi costieri. L’ex deputato di Tripoli, Suleiman el Barhuni, sbarcò infine da un sottomarino tedesco e si proclamò governatore della Tripolitania. Anche Misurata divenne base della guerra sottomarina germanica nel Mediterraneo. Quando dovettero arrendersi gl’Imperi ottomano e germanico passarono la mano a una pretesa “repubblica della Tripolitania”, con due reggenze militari e quattro capi, fra i quali il sempre infido Ramadan Sceteui, forte del bottino sottratto agl’italiani.

   Dopo la Grande Guerra la riaffermazione della sovranità italiana sulla Libia fu lunga e sofferta. Il primo a ottenere risultati sicuri fu Giolitti nel corso del suo quinto governo (1920-1921), nel quale ministro delle colonie fu Giovanni Amendola. A beneficiarne fu comunque una parte della popolazione indigena che apprese che cos’è lo Stato, fondato sull'uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi, senza interferenze delle religioni nella loro vita pubblica, nei diritti civili e nelle libertà personali.

   Il cammino della“ Libia italiana” era però ancora impervio. Dopo la riconquista, che conobbe pagine drammatiche, si concluse con la sconfitta del 1942-1943 degli italo-germanici da parte degli inglesi di Montgomery nella seconda guerra mondiale: un percorso che merita narrazione apposita.

 

Aldo A. Mola

 

DIDASCALIA: Cirene, rovine della città cristiana.Acquerello di Ernesto Heyn (da Arcangelo  Ghisleri,”Tripolitania e Cirenaica” (1912).   

   Le direttive che Vittorio Emanuele III, il “Re Soldato”, inviò costantemente a Giolitti e ai comandanti sul campo vengono del tutto ignorate da Claudio Pavone nel vol. III di “Quarant'anni di politica italiana”; esse sono invece ampiamente documentate nei 2 volumi del Carteggio giolittiano curato da Aldo A. Mola e Aldo G Ricci di concerto con Giovanni Rabbia, all'epoca presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo (Ed. Bastogi, Foggia, 2010).

domenica 21 gennaio 2024

Saggi storici sulla tradizione monarchica - V

 


LA RINASCITA DELL'IMPERO D'OCCIDENTE.

La conquista carolingia non mutò sostanzialmente la divisione politica dell'Italia; Carlo come Re della Longobardia (il cuí nome fu presto cambiato in quello d'Italia) pose a Pavia come suo luogotenente il figlio Pipino, che fu consacrato dal Papa nel 781. Di fatto indipendenti restarono i ducati longobardi di Spoleto e Benevento che nominalmente riconoscevano l'autorità di Carlo, come pure lo Stato pontificio, composto del ducato romano, dell'esarcato e della pentapoli, che all'alta autorità di Carlo era soggetto in quanto questi aveva ricevuto dal Papa il titolo di patrizio dei Romani. All'imperatore di Bisanzio, restò l'alta sovranità su Napoli, la Calabria e la Sicilia.

Carlo era tuttavia il più potente Sovrano dell'Occidente, i suoi

domini fuori dell'Italia abbracciavano gran parte della Francia e della Germania e la conquista dei paesi dei Sassoni, conseguita dopo una lunga guerra, aveva rinsaldato il suo prestigio. Per questo e per molti altri motivi, non ultimo quello di precisare giuridicamente la natura del potere del Re su Roma, il Papa Leone III decise di incoronarlo Imperatore nella notte di Natale dell'anno 800, mentre Carlo assisteva alla celebrazione della Messa Pontificale nella Basilica di S. Pietro.

Con quest'atto, che consacrava nel Re franco l'ideale successore degli imperatori romani d'occidente, il Pontefice affermava anche il suo diritto di consacrare e coronare gli Imperatori, ma nello stesso tempo prestava a Carlo Magno l'obbedienza riconoscendolo come signore di Roma e di tutto l'impero romano; nello stesso tempo l'Italia dallo stato di soggezione ad uno straniero ritornava all'antica posizione di culla dell'impero, anche se questo era impersonato non da un Romano ma da un Re di stirpe barbarica.

Naturalmente la coronazione di Carlo Magno, veniva in certo modo su un piano di prestigio a ledere i diritti dell'imperatore di Costantinopoli e per questi motivi, oltre ad altri di carattere più concreto, l'impero franco si trovò presto in lotta con l'impero bizantino nell'Italia meridionale e a Venezia, che nominalmente riconosceva l'alta sovranità bizantina. Pipino Re d'Italia, figlio di Carlo Magno, intraprese una spedizione contro la laguna che dovette cedere, ma la pace che fu negoziata ad Aquisgrana nell'812, riconosceva all'imperatore di Costantinopoli il possesso di Venezia, chiudendo la contesa.

L'impero di Carlo Magno, che fu la più grande costruzione politica dell'Europa medioevale, ebbe una enorme importanza in ogni aspettò della civiltà del tempo, dando anzi origine ad un complesso di manifestazioni che furono appunto chiamate la rinascenza carolingia. Intorno all'Imperatore che risiedeva in varie città dell'Impero, principalmente ad Aquisgrana, si riunirono le menti più elette dell'epoca, fra cui primeggiò Alcuino di Jork, che diedero vita alla famosa, schola palatina, cioè ad una specie di accademia in cui venne elaborato e vagliato tutto lo scibile dell'epoca.

Enorme importanza assunsero nella vita intellettuale di quel tempo, i monaci che già negli oscuri giorni delle invasioni barbariche avevano salvato nelle mura dei loro conventi il patrimonio della cultura classica conservando, leggendo e copiando i manoscritti degli autori latini. Monaco fu Alcuino, abate di Tours e monaci Paolo Diacono, che nel monastero di Montecassino compose la famosa Historia langobardorum, Adalardo abate di Corbia, Angilberto abate di St. Riquier in Piccardia, paragonato ad Omero per la vena poetica, Eginardo autore di una vita di Carlo Magno; prelati furono Teodulfo, vescovo di Orleans. famoso per i suoi versi e il grammatico Paolino, Patriarca di Aquileia.

Particolarmente importante l'ordinamento dato da Carlo Magno all'amministrazione politica e religiosa dell'Impero; con l'emanazione di leggi dette capitolari provvide a stabilire l'uniformità legislativa dei territori e l'amministrazione fu divisa fra i rappresentanti imperiali, detti canti o marchesi, che riunivano poteri civili e militari. Una

funzione di controllo veniva esercitata dai legati dell'Imperatore (missi dominici) che ogni anno, a due a due, un laico ed un ecclesiastico, dovevano visitare i vari compartimenti dell'impero.

Ancor più solida ed uniforme fu la organizzazione religiosa; l'impero fu diviso in arcivescovati, di cui quattro furono in Italia oltre a Roma, Ravenna, Milano, Aquileia e Grado. Ogni arcivescovo raggruppava sotto di se tutti i Vescovi del proprio territorio e questi esercitavano la giurisdizione sul clero e i monasteri della propria diocesi.

Un grave inconveniente fu quello rappresentato dall'abitudine di Carlo Magno di scegliere molti funzionari imperiali fra alti ecclesiastici, Vescovi e abati, venendo così ad ingerirsi anche delle nomine religiose di facoltà della Chiesa e non del potere civile, e questa abitudine doveva in seguito originare quel gravissimo contrasto fra Chiesa e Impero che è conosciuto con il nome di lotta per le investiture.

Ma al di fuori di questi fatti, e di una certa ingerenza esercitata anche nelle questioni teologiche, ad imitazione del costume degli imperatori bizantini, vanno riconosciuti a Carlo Magno dei grandissimi meriti, sia dal punto di vista religioso che da quello politico; questo guerriero d'origine barbarica seppe ascendere al trono imperiale e mantenervisi con grande dignità e saggezza e fu un restauratore dell'occidente, da più secoli avvilito dalle invasioni barbariche e dalla preponderanza dell'imperatore bizantino; la sua costruzione politica fu massiccia e meravigliosa, benché non riuscisse a sopravvivergli a lungo e cadesse ben presto per la mancanza di una mano capace di reggere domini tanto grandi e tanto diversi fra loro.

Alla morte di Carlo Magno, avvenuta il 28 gennaio dell'814, gli successe il figlio, Ludovico il Pio sotto il quale già, si manifestarono i segni della fine del grande impero.