Sulla condotta degli
anglo-americani nelle regioni via via liberate si vedano le statistiche dei
loro ingiustificabili crimini contro la popolazione civile in Angelo Squarti
Perla, “Le menzogne di chi scrive la storia”, BastogiLibri, gennaio 2024
(l'Autore, oculista di chiara fama, celebre araldista e insigne componente
della Consulta dei Senatori del Regno, è morto lo scorso 24 gennaio).
L'Italia divisa in due
Il
28-29 gennaio 1944, 80 anni or sono, al teatro comunale “Piccinni” di Bari si
svolse il 1° (e ultimo) congresso dei comitati di liberazione nazionale (Cln).
Fu la dimostrazione patente di quanto l'Italia fosse divisa in due dopo la
nomina del maresciallo Pietro Badoglio al posto di Benito Mussolini (25 luglio
1943), la firma della resa senza condizioni (3 settembre) e il trasferimento
dei Reali e di Badoglio da Roma a Brindisi (9-10 settembre). Le correnti e i
partiti antifascisti stentavano a trovare unità d'intenti e continuavano a
disconoscere il governo del re, che però rimaneva l'unico interlocutore delle
Nazioni Unite.
A
quell'appuntamento i Cln arrivarono dopo lungo cammino. Il 24 novembre 1943 i
comitati pugliesi si radunarono a Bari per programmare un congresso di respiro
più ampio possibile. Il 4 dicembre gli stessi e quello campano mirarono a
convocarlo per il 20 dicembre a Napoli, la città più rilevante del Mezzogiorno,
ma cozzarono con il divieto dell'Amministrazione militare alleata, per
comprensibili motivi di sicurezza. I suoi promotori, tra i quali il liberale
Benedetto Croce e il comunista Eugenio Reale, inviarono una protesta al
presidente degli USA Roosevelt, al premier britannico Churchill e al
maresciallo sovietico Stalin, assicurando che la convocazione del congresso non
avrebbe attizzato disordini. Non ebbero riscontro. Progettarono anche di far
partecipare rappresentanti dei Cln clandestini sorti nelle regioni comprese
nella Repubblica sociale italiana e delle comunità di antifascisti ancora in
esilio, ovvero degli Stati Uniti d'America, unico Paese che ne contasse. Ma il
proposito risultò irrealizzabile. Proprio la pubblicità dell'evento avrebbe
indotto tedeschi e fascisti repubblicani ad aumentare la sorveglianza che già
ordinariamente rendeva rischiosissimo superare le linee di combattimento.
Mentre
l'avanzata degli Alleati cozzava contro la tenace resistenza tedesca comandata
dal feldmaresciallo Albert Kesserling, quale sede del congresso gli
anglo-americani imposero Bari e autorizzarono la partecipazione di novanta
delegati, debitamente filtrati.
Preda di quattro guerre
Da
settembre l'Italia era politicamente divisa in due: il cosiddetto Regno del
Sud, controllato dagli anglo-americani, e la Repubblica sociale italiana
proclamata da Benito Mussolini e succuba della Germania di Hitler. Essa era
preda di quattro guerre: le Nazioni Unite contro la Germania e i suoi alleati
(e quindi le regioni centro-settentrionali, martellate dai bombardamenti); il
governo del re, cobelligerante a fianco degli Alleati, contro la Germania e i
suoi satelliti (13 ottobre); tra fascisti repubblicani e bande di antifascisti,
sia repubblicani sia monarchici; e quella, dapprima in sordina, poi conclamata
di Stati che consideravano nemica l'Italia nel suo insieme e miravano a
conquistarne il territorio (la Jugoslavia a est, la Francia di De Gaulle a
ovest, appena le fu possibile: una guerra, questa, anticipata dai corpi
comandati dal generale Alphonse Pierre Juin, dalla condotta spesso ignobile).
Quelle
guerre si intrecciarono alla contesa di partiti antifascisti sia tra loro e
all'interno di ciascuno di essi, sia nel loro insieme contro il Re e il suo
governo: un groviglio caotico. Anche i Cln non erano affatto omogenei. Il
Comitato centrale di liberazione nazionale costituito in Roma e presieduto da
Ivanoe Bonomi operava in forzata
clandestinità. Esso non aveva un significativo apparato militare, a
differenza del Cln Alta Italia (Milano) e dei Cln delle regioni settentrionali,
affiancati da comitati militari e punto di riferimento di bande (poi brigate e
divisioni) espressione di partiti o “militari”, ovvero monarchiche. Tra il Cln
Centrale e i Cln dell'Italia meridionale non vi era piena sintonia.
Sotto
ogni profilo l'Italia era dunque un mosaico di soggetti, di programmi e di
posizioni di combattimento, il cui disegno mutava in subordine all'andamento
generale della guerra delle Nazioni Unite non solo contro la Germania ma anche
contro il Giappone, in un quadro globale niente affatto univoco, come
evidenziava la non belligeranza tra l'impero nipponico e l'Urss, che dichiarò
guerra al Giappone solo l'8 agosto 1945, due giorni dopo il bombardamento
atomico statunitense su Hiroshima.
L'offensiva di Croce e di Sforza contro il re
Ai
tanti conflitti che da anni imperversavano in Italia si aggiunse, sempre più
aggressiva, la guerra di taluni partiti (segnatamente comunisti, socialisti,
d'azione e frange della nascente democrazia cristiana) e di notabili di area
liberale e “democratica” accomunati nella richiesta di abdicazione immediata di
Vittorio Emanuele III. Il 24 ottobre, neppure un mese dopo l'“armistizio lungo”
sottoscritto a Malta, Badoglio informò il Re del progetto da loro ventilato: la
sua abdicazione, la rinuncia al trono da parte di suo figlio Umberto e il
conferimento della corona al nipote, Vittorio Emanuele, principe di Napoli, di
sette anni, assistito da un reggente: egli stesso. Fatto consultare Carlo
Sforza, indicato da Badoglio quale mandante del progetto, il Re ammonì il
maresciallo, capo di un ministero “striminzito e inefficace”, a non contare
sulla sua abdicazione. Fece proporre a Sforza di entrare in un nuovo governo e
si assicurò della fedeltà delle forze armate, consolidate dal rientro del
maresciallo Giovanni Messe dalla prigionia.
In
vista del nuovo anno, il 28 dicembre Vittorio Emanuele III scrisse di suo pugno
e incise un appello radiofonico agli italiani. Omettendo tante logoranti
schermaglie, il 23 gennaio 1944, in prossimità dell'annunciato congresso dei
Cln a Bari, il Re consegnò al capomissione alleata Noel Mason Mac Farlane un
“appunto” sulle proprie intenzioni. Alla liberazione di Roma al governo
tecnico-militare sarebbe subentrato un ministero comprendente esponenti di
tutti i partiti. Quattro mesi dopo la pace sarebbe stata eletta la Camera dei
deputati (il Senato in carica avrebbe ripreso le sue funzioni) e il Paese,
liberamente consultato, avrebbe deliberato l'assetto istituzionale: una
decisione che la Corona avrebbe seguito fedelmente. Ma fino a quel momento tutti
gli sforzi dovevano rimanere concentrati nella lotta di liberazione.
I
lavori del congresso di Bari, presieduti da Michele Cifarelli, esponente del
Partito d'azione, si svolsero nell'intera giornata del 28 e proseguirono la
mattina del 29. Furono aperti dal discorso di Croce “La libertà italiana nella
libertà del mondo”, che contenne un passaggio nettamente polemico nei confronti
del re, la cui abdicazione immediata venne chiesta per consentire agli italiani
di respirare liberamente. I temi all'ordine del giorno erano altri e molto più
ampi: la situazione del Paese, l'organizzazione di volontari da affiancare
all'esercito, il quadro politico internazionale, i problemi economici
incombenti per l'inflazione galoppante, la svalutazione della lira, l’emissione
delle Am-lire e l’istituzione di un organo di collegamento tra i Cln e gli
anglo-americani.
Di
seguito intervenne Sforza che, dopo molte invettive contro il Re e la
monarchia, propose l'invio di telegrammi al congresso degli USA, alla Camera
dei Comuni, a Stalin, a De Gaulle, a Chang Kai Schek e ai popoli della
Jugoslavia e della Grecia. A quel modo i Cln si ersero a soggetti di politica
estera, alternativo al governo.
Nella
seduta pomeridiana, presieduta da Alberto Cianca, esponente del partito
d'azione, il liberale Vincenzo Arangio-Ruiz ricordò ai partecipanti che almeno
metà degli italiani erano favorevoli alla monarchia. Perciò la soluzione della
questione istituzionale andava affidata al libero voto a pace raggiunta. Nel
frattempo occorreva unità di intenti a cospetto di qualsiasi minaccia per
garantire la sopravvivenza dell'Italia. Dopo di lui l'azionista Tommaso Fiore
si scagliò contro il re, complice di Mussolini, e contro Badoglio e concordò
con Arangio-Ruiz sulla necessità di un’unione antifascista, da lui intesa come
allineamento sulle posizioni antimonarchiche.
La
mattina del 29, sempre con la presidenza di Cianca, i congressisti chiesero la
formazione di un nuovo ministero composto da esponenti dei sei partiti
rappresentati nei Cln (comunisti, socialisti, azionisti, laburisti,
democristiani e liberali), dotato di pieni poteri per compiere il massimo
impegno nella guerra contro il nazifascismo e risolvere gli immensi problemi
economici e sociali incombenti. Deliberarono anche la nascita di una Giunta
esecutiva permanente formata da esponenti dei partiti dei Cln di concerto con
il Cln Centrale: una sorta di governo alternativo a quello del re. Sforza
concluse i lavori congressuali con l'appello all'unità, alla fiducia
nell'Italia libera e a impedire che si ripetessero in futuro nuovi attacchi
reazionari alla democrazia. Anche il suo secondo discorso risultò “violento e
pieno di insulti all'indirizzo del Re”, come nel Diario annotò il generale
Paolo Puntoni, aiutante di campo del sovrano. Di seguito i congressisti
approvarono la richiesta di immediata abdicazione di Vittorio Emanuele III,
senza entrare nel merito della successione.
Cianca
elencò i componenti della Giunta esecutiva, ringraziò i partecipanti e chiuse i
lavori.
Un groviglio caotico
Il
segretario del partito comunista italiano, Palmiro Togliatti, liquidò il
congresso di Bari come un chiassoso “comizio antimonarchico”, irrilevante sotto
il profilo politico interno e internazionale. Percepì con chiarezza che gli
azionisti, al pari dei democratici del lavoro (o laburisti, ancora incerti
sulla propria denominazione), non avevano e non avrebbero avuto seguito
elettorale. I dirigenti della democrazia cristiana (compresi De Gasperi e
Gronchi) dovevano far dimenticare il sostegno dato all'avvento e al radicamento
del governo Mussolini nel 1922-1924 (Gronchi era stato sottosegretario
all'Industria, accanto al giolittiano Teofilo Rossi di Montelera), consapevoli
che la base del loro consenso era monarchica, non per devozione ai Savoia ma
per la radicata diffidenza del “cittadino normale” (di cui parla Salvatore
Satta in “De Profundis”) verso le “novità”, come si prospettava la
“repubblica”. Togliatti pensava infine che l'elettorato del partito socialista
italiano di unità popolare, formato a varie tendenze, era in gran parte fermo
al riformismo di Turati e Treves e aveva per punto di riferimento iconico
Giacomo Matteotti, dai toni talvolta rivoluzionari ma fermamente anticomunista.
L'unità d'azione siglata in Francia prima della guerra tra il Pci e il Psi di
Pietro Nenni nell'opinione dei socialisti italiani aveva già subito lo scossone
causato dal brusco voltafaccia dei comunisti all'indomani del patto di non
aggressione tra Hitler e Stalin dell'agosto 1939. Ligi alla Terza
Internazionale i comunisti voltarono le spalle agli altri partiti antifascisti
sino a quando nel giugno 1941 Hitler scatenò l'operazione Barbarossa contro
l'Urss.
Anche
il presidente del Comitato centrale di liberazione nazionale attivo in Roma
nella più circospetta clandestinità, trascorsa tra conventi e abitazioni di
amici fidatissimi, accolse con molta perplessità gli ordini del giorno
approvati dai Cln adunati a Bari. All'avvento della Rsi mussoliniana Bonomi
commentò nel Diario la “frattura” che essa avrebbe determinato tra il Nord e il
Sud d'Italia: “Il Nord e il Centro che hanno già fatto esperienze repubblicane
con la Repubblica Cisalpina (in età franco-napoleonica, 1796-1804, NdA) e con
le due repubbliche di Venezia e di Roma (1848-1849, NdA) si abitueranno a
considerare la monarchia come un regime che può essere rovesciato; il
Mezzogiorno invece, che ha già una lunga tradizione monarchica, continuerà a considerare
la monarchia come un istituto che non si discute perché radicato in una lunga e
ininterrotta consuetudine”. Per chi la conosca, e Bonomi la conosceva, la
storia è “magistra vitae”. Nessuno poteva cancellare la memoria dei sacri
romani imperatori, dagli Ottoni a Federico II di Svevia, dei Re Normanni e
Aragonesi, degli Asburgo di Spagna e d'Austria, e infine dei Borbone di Spagna
durati dal 1737 all'arrivo in Napoli di Giuseppe Garibaldi con l'insegna
“Italia e Vittorio Emanuele”, pronto a salutare Monsù Savoia “re d'Italia”
quando questi gli venne incontro a cavallo a Vairano Catena, presso Teano.
Forma della religiosità, la monarchia era metastorica, radicata nel mito. Il
rifiuto di collaborare con il governo Badoglio non significava affatto
rifiutare il Re in quanto tale ma la predilezione da lui accordata ai militari
anziché ad antifascisti che come lui avevano attraversato il regime convinti
che prima o poi esso sarebbe stato travolto dai suoi errori. Il 16 ottobre,
dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia alla Germania, il CCLN chiese la
“costituzione di un governo straordinario che sia l'espressione di quelle forze
politiche le quali hanno costantemente lottato contro la dittatura fascista e
fin dal settembre 1939 si sono schierate contro la guerra nazista (a differenza
del PCI)”, ma anche di evitare “ogni atteggiamento che possa compromettere la
concordia della nazione e pregiudicare la futura decisione popolare”, rinviata
alla cessazione delle ostilità, quando il popolo sarebbe stato convocato “per decidere
sulla forma istituzionale dello Stato”. Esattamente come proponeva Vittorio
Emanuele III.
Significativamente
Bonomi non commentò nel Diario il congresso di Bari. Oltre un mese dopo, il 6
marzo 1944 inviò al CCLN la Dichiarazione redatta il 2 precedente, “riflesso
del suo fermo convincimento che inspirerà e indirizzerà la sua
azione futura”. Messe da parte le posizioni unilaterali (come quelle
accesamente antimonarchiche dei vertici del Psi e del PdA), occorreva
promuovere la “guerra per bande” (poi detta partigiana e infine dei “volontari
della libertà”, agli ordini del generale Raffaele Cadorna, monarchico), in
aggiunta (non in alternativa) all'“azione preminente e decisiva delle forze
armate dello Stato italiano”. “La guerra nazionale ha bisogno della concordia
nazionale”. Perciò bisognava “accantonare la questione della forma dello Stato,
per rifare così l'unità spirituale degli italiani per la guerra e per la
vittoria”. “La richiesta dell'abdicazione dell'attuale Re non può passare
innanzi e comunque indebolire la richiesta
dell'assemblea incaricata di deliberare, a territorio nazionale
liberato, la nuova costituzione dello Stato”. In sé l’abdicazione non risolveva
comunque la necessità di assicurare allo Stato un Capo sino al raggiungimento
della pace. E poiché esso non poteva essere espresso dai cittadini, doveva
appartenere alla Casa regnante.
Le “bande” e la Rsi
Le
informazioni di cui Bonomi disponeva mostravano che le “bande” di volontari
stentavano a costituire una forza organizzata decisiva per l'abbattimento della
Repubblica mussoliniana, sostenuta dai tedeschi. Questa si reggeva non solo
sulla feroce repressione di antifascisti notori e di partigiani (soprattutto
militari) ma anche sulla forza di inerzia della vita quotidiana, sulla sua
capacità di far funzionare l'amministrazione pubblica, in specie quella locale,
e di evitare misure troppo impopolari, per non causare il collasso sociale e la
ribellione di massa. Se non mosse un dito per impedire le razzie di ebrei
destinati alla deportazione nei campi germanici di sterminio, Mussolini
concesse poco spazio e nessun potere ad antisemiti e massonofagi fanatici come
un antico spretato che, superstizioso qual era, il duce riluttava persino a
ricevere. Ferrovie, poste, scuole, dalle elementari alle università,
continuarono a funzionare con una certa regolarità sino a fine aprile del 1945.
Le
“bande” impiegarono tempo, tra il settembre e il marzo 1944, a prendere corpo.
Negli appunti diaristici Nuto Revelli, reduce dalla disastrosa campagna di
Russia, annotò di aver “battezzato” con altri ufficiali del regio esercito la
“1^ Compagnia rivendicazione caduti” (5 ottobre 1943), diffidente nei confronti
dei politici (“La guerra dei poveri”, Torino, Einaudi, 1963, p. 141). Dante
Livio Bianco, avvocato, già iscritto al Pnf, esponente di spicco della banda
“Italia Libera” fondata da Duccio Galimberti” e militante del partito d'azione,
al primo incontro con Revelli e gli ufficiali Faustino Dalmazzo e Giovanni
Delfino (13 novembre) annotò nel Diario: “Si tratta di militari senza alcuna
idea politica: speriamo però di averli scossi dal loro atteggiamento”. Solo
quando si ebbe notizia dello sbarco anglo-americano a Nettuno (8 febbraio), che
illuse sulla rapida avanzata degli Alleati verso Roma ma rischiò di risolversi
in uno scacco, e dopo aver preso contatto con altre formazioni partigiane (ne
ha scritto Aldo Sacchetti in “Un romano tra i ribelli”, ed. L'Arciere) Revelli
decise di aggregarsi alla “banda”di Bianco in una “atmosfera di simpatia”
scaturita anche dalla scoperta che erano entrambi figli di massoni.
L'arrivo in Italia di “Ercoli” e la “svolta”
dell'aprile 1944
Nel
“Regno del Sud” nel frattempo la storia corse rapidamente. L'11 febbraio
vennero nominati nuovi ministri del governo Badoglio, tra i quali Falcone
Lucifero all'Industria e Commercio, Epicarmo Corbino al Lavoro, Guido Jung alle
Finanze e il generale Taddeo Orlando alla Guerra, in perfetta sintonia con
Giovanni Messe. Alle 10 del 17 giurarono fedeltà al re. Il 15 Harold Alexander
impartì lo sciagurato ordine di bombardamento sull'Abbazia di Montecassino,
rasa al suolo. Una decisione sconvolgente, militarmente ingiustificata,
politicamente controproducente, deplorata anche all'estero da tutte le persone
di buon senso.
A
inizio aprile, rientrato dall'Urss in Italia via Algeri, Togliatti (nome di
battaglia “Ercoli”) propose l'ingresso di tutti i partiti in un nuovo governo.
Era la sconfessione della linea di Bonomi, del Congresso di Bari e del
“filosofo di Pescasseroli”, come Dante Bianco appellava Croce. Il re, che sentì
rafforzata la monarchia, dal 16 marzo accennò al proposito di rinunciare
all'esercizio dei poteri a favore del figlio quale Luogotenente, conservando
per sé la Corona, quando la capitale fosse stata liberata ed egli vi fosse
rientrato. Sotto arrogante e incalzante pressione degli anglo-americana il 12
aprile 1944 rese pubblica la decisione. Nell'“Itinerario generale dopo il 1°
giugno 1896” annotò di suo pugno, tutto maiuscolo, “Dichiarazione prossima Luogotenenza”
e concluse: “Viva l'Italia più che mai!!”.
Sul
Congresso dei Cln a Bari si possono narrare molte fiabe. Per la storia esso
ebbe modesto rilievo.
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