NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 25 ottobre 2021

La parabola dell'“Impero” L'ONU e le colonie italiane


di Aldo A. Mola

 

Un impero di soli cinque anni

Nascita e crollo dell'Impero coloniale italiano sono sintetizzati in tre date. Il 5 maggio 1936 le truppe comandate da Pietro Badoglio entrarono in Addis Abeba, capitale dell'Etiopia. Tre giorni prima l'imperatore Hailè Selassiè (1892-1975, cristiano copto), l'aveva lasciata. Sotto tutela inglese, non accettò la sconfitta e costituì un governo in esilio. Il 9 maggio Benito Mussolini annunciò l'istituzione dell'Impero, in capo a Vittorio Emanuele III Re d'Italia. Il 5 maggio 1941 Hailè Selassiè rientrò in Addis Abeba, con l'appoggio dei britannici. Pochi giorni dopo, prima, il 17 maggio, questi ottennero  la resa (con gli onori delle armi) degli italiani da un mese asserragliati sull'Amba Alagi agli ordini del viceré d'Etiopia, Amedeo di Savoia, III Duca di Aosta, deportato in un campo di concentramento in Kenia, ove morì. Una “parabola”, la sua, ripercorsa da Dino Ramella in “Il Duca d'Aosta e gli Italiani in Africa Orientale” (ed. Daniela Piazza).

Il cammino dell'Italia sulla via dell'Impero fu segmentato. L'11-14 aprile 1935 si svolse a Stresa, sul Lago Maggiore, la conferenza diplomatica anglo-franco-italiana. Occorreva arginare l'aggressività della Germania. Hitler, forte dei pieni poteri dopo la morte di Hindenburg (2 agosto 1934), era deciso a realizzare la “grande Germania”: annessione dell'Austria e avocazione dei germanofoni assegnati dai Trattati di pace (Versailles e Saint-Germain, 28 giugno e 10 settembre 1919) a Stati sorti dalla dissoluzione degli imperi germanico e austro-ungarico. Per la Francia il revanscismo tedesco faceva intravvedere la rivendicazione dell'Alsazia e della Lorena e altro ancora: una guerra secolare.

 

Un percorso sinuoso

Dopo reciproci atti ostili e tentativi di mediazione da parte della Società delle Nazioni (SdN, con sede a Ginevra), il 3 ottobre 1935 il governo di Roma dichiarò guerra all'imperatore d'Etiopia, “cugino del re” da quando Vittorio Emanuele III gli aveva conferito il Collare dell'Annunziata. Poiché l'Etiopia, uno dei rari Stati africani indipendenti, era membro della Società, ne ottenne la solidarietà. Il 10 ottobre la SdN deliberò sanzioni economiche contro l'Italia a decorrere dal 18 novembre. In previsione il governo di Roma aveva attivato linee di rifornimento delle materie prime indispensabili per la produzione industriale e per l'approvvigionamento alimentare, ancora lontano dall'autosufficienza malgrado dieci di anni di “battaglia del grano”.

L'“assedio delle Nazioni”, come le sanzioni furono dette, fornì a Mussolini il destro per una gigantesca campagna d'opinione a sostegno del regime, identificato con lo Stato. La raccolta dell'“oro alla patria”, ottenne adesione universale, dalla regina Elena ad antifascisti come Benedetto Croce. Altri avversari del fascismo rientrarono in Italia dall'esilio, previe trattative con Mussolini. Fu il caso di Arturo Labriola, già ministro del Lavoro nel V governo Giolitti (1920-1921) e nel 1930-1932 gran maestro del Grande Oriente d'Italia costituito in Francia.

La proclamazione dell'Impero irritò quasi tutti i governi europei, la maggior parte dei quali, a cominciare da Gran Bretagna e Francia da secoli vantava vastissimi domini coloniali. Il re del minuscolo Belgio dal 1885 possedeva l'immenso Congo. L'Olanda aveva l'arcipelago delle Indie Orientali. Il Portogallo dominava Angola, Mozambico ed enclaves in India, di concerto con la Gran Bretagna che aveva propiziato la restaurazione della sua indipendenza dalla Spagna nel remoto 1640. Spogliata del vastissimo impero coloniale nell'America centro-meridionale, nel 1898 Madrid aveva perso anche Cuba e le Filippine a beneficio degli Stati Uniti d'America, ma combatteva per riaffermare il suo dominio sul Marocco. Il possesso di imperi non costituiva solo una risorsa economica ma anzitutto un'affermazione politica.

Privata del cospicuo impero coloniale (Tanganika, Togo, Camerun, Africa del Sud-Ovest...) all'indomani della Grande Guerra, la Germania non aveva motivo di osteggiare l'espansione italiana nell'Africa orientale. Poiché incontrava l'ostilità dei franco-britannici avrebbe costretto Roma ad accostarsi a Berlino, anche senza bisogno delle convergenze ideologiche affastellate nel 1938 (antisemitismo compreso), premessa del Patto d'Acciaio.

 

Le geografia detta la storia: gli antecedenti

L'impero proclamato il 9 maggio 1936 fu dunque l'ultimo in ordine cronologico tra quelli degli Stati europei. Nacque sulla scia della politica coloniale avviata dal regno d'Italia ancor prima dell'inaugurazione del Canale di Suez. Fu la Sinistra Storica, erede di Mazzini e Garibaldi, a dar corpo all'“impresa”. Lo volesse o meno, l'Italia era al centro del Mediterraneo per metà ancora turco-ottomano. Una volta unificata, non poteva tenersi fuori dalla lotta per la spartizione degli spazi afro-asiatici. A scatenare la gara fu la Francia. Napoleone III allungò le mani sulla Cocincina ancor prima di sconfiggere l'Austria nella pianura padana essendo alleato di Vittorio Emanuele II, mentre con la cinica “guerra dell'oppio” la Gran Bretagna aveva messo le grinfie sul Celeste Impero e sanguinosamente represso la rivolta degli indiani. Nel 1881 Parigi impose il protettorato sulla Tunisia, irritando Garibaldi e la Sinistra, incluso il gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Adriano Lemmi. La Francia a Tunisi era causa immanente di guerra: termine dai giornali modificato in imminente.

Dopo lunghe tergiversazioni Roma varcò il Rubicone, con lo sbarco a Massaua, sulla costa del Mar Rosso (1885), un anno dopo l'ingresso dei fanatici seguaci del Mahdi in Khartoum, ove il governatore Charles George Gordon fu barbaramente assassinato. La costituzione della colonia di Eritrea (1890, affidata al governatore civile Ferdinando Martini che ne scrisse in L'Affrica italiana), la conquista della Somalia (elevata a colonia nel 1907) e quella di Tripolitania e Cirenaica (1911-1912), deliberata da Vittorio Emanuele III che dettò a Giolitti il calendario delle operazioni, furono le tappe dell'espansione vaticinata anche da Giuseppe Mazzini per la realizzazione della “missione civile ” dell'Italia. Il caso della Libia fu paradigmatico. Non se ne poteva fare a meno se non a rischio di vedersela sottrarre da altre potenze europee. La dichiarazione della sovranità italiana su Tripoli e Bengasi chiuse il cerchio di un programma avviato dalla Sinistra storica con Agostino Depretis (1876-1887) e Francesco Crispi (1887-1891 e 1893-1896), travolto dal disastro del corpo di spedizione comandato da Oreste Baratieri ad Abba Garima, presso Adua (1° marzo 1896), sbaragliato dal caotico esercito del negus Menelik: una sconfitta che pesò a lungo sull'opinione pubblica e sul desiderio di rivincita.

 

Il programma di Mussolini

Nel discorso pronunciato all'Augusteo di Roma il 9 novembre 1921 per la fondazione del Partito nazionale fascista Mussolini percorse rapidamente gli antecedenti della politica estera italiana e prospettò mete e metodi. A parte la “questione di Fiume”, più in generale dell'Adriatico e quindi dell'Albania, materia incandescente, ricordò: “Durante gli ultimi decenni di travaglio nazionale l'Italia ebbe un uomo solo (…) Parlo di Francesco Crispi. Egli solo seppe proiettare l'Italia nel Mediterraneo con anima e pensiero imperialistico. Ma quando parlo di imperialismo non intendo riferirmi a quello prussiano; intendo un imperialismo economico di espansione commerciale...”. Secondo Dino Grandi il congresso era “la prefazione di un grande libro” che la generazione successiva avrebbe scritto. “Il mito deve prepararsi a diventare storia”. La politica estera sarebbe stata il vero banco di prova del fascismo.

Mentre nel corso della Grande Guerra Luigi Cadorna aveva affermato che l'Italia avrebbe (ri)conquistato la Libia sul Carso, Mussolini ritenne che solo la conquista dell'Etiopia avrebbe affermato l'Italia quale protagonista nel “grande gioco degli imperi” acutamente analizzato da Giorgio De Rienzo. All'opposto, dai primi mesi dell'intervento in guerra contro Gran Bretagna e Francia (10 giugno 1940) risultò chiaro che l'Italia rischiava di perdere il rango di grande potenza proprio perché non era in grado di difendere l'impero coloniale, a cominciare, appunto dall'Africa Orientale. Le forze armate avevano bisogno di essere alimentate dalla madrepatria.

 

L'ONU e l'amara sorte delle colonie (1943-1955)

Senza entrare nel merito né della guerra d'Etiopia (3 ottobre 1935-5 maggio 1936) né delle vicende belliche concluse con il rientro di Hailè Selassiè in Addis Abeba, merita attenzione la sorte delle colonie italiane tra la sconfitta dell'estate 1943 e la vigilia dell'ingresso dell'Italia nell'Organizzazione delle Nazioni Unite, nel 1955. Se ne parla nel volume XV° di “Il Parlamento Italiano, 1861-1992” (ed. Nuova Cei). In quel dodicennio i governi italiani brigarono invano per rivendicare le colonie. Il terzo punto della Carta atlantica (1941), infatti, aveva affermato che gli Alleati “rispettano il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale desiderano vivere e intendono che diritti sovrani e governo autonomo vengano restituiti a coloro che ne sono stati privati con la forza”. Era il caso dell'Etiopia.

I vincitori non si lasciarono abbagliare dalla modesta e discussa vittoria repubblicana sulla monarchia il 2-3 giugno 1946 né dalla rivendicazione della cobelligeranza contro i nazi-fascisti e neppure dalla “guerra partigiana”. L'Italia rimase esclusa dall'ONU. Il mortificante Trattato di pace imposto a Parigi il 10 febbraio 1947 incluse esplicitamente la completa rinuncia di Roma a tutti i territori d'Oltremare, quali ne fossero l'epoca della conquista e lo status. La mancata sottoscrizione del Trattato da parte dell'URSS aprì uno spiraglio. I governi De Gasperi archiviarono qualsiasi “nostalgia” di impero, cancellarono tanta parte della storia recente e antica anche con la “defascistizzazione” dei programmi scolastici, della toponomastica, dell'intitolazione di istituti ed edifici pubblici (a imitazione del precedente regime), ma non poterono ignorare le sorti dei militari ancora prigionieri e degli italiani ammassati in campi “per profughi”. Il 16 settembre 1947, quando il Trattato di pace entrò in vigore, De Gasperi fece sentire la sua “voce accorata ma ferma anche negli accampamenti dei profughi dell'Africa e fra gli italiani rimasti nelle antiche colonie, che furono rinnovate economicamente ed elevate a civiltà dal tenace lavoro e dal duttile ingegno dei nostri colonizzatori”. Auspicò che “a nome di tutti” l'Italia potesse continuare la sua opera “onde preparare i popoli nativi all'autogoverno”. Quei “tutti” erano i diciotto Stati vincitori, tra i quali figuravano l'Ucraina e la Bierlorussia.

Il 25 marzo 1948, alla vigilia delle elezioni che sancirono la vittoria della Democrazia cristiana sul Fronte popolare social-comunista, per confutare l'accusa che l'URSS fosse il principale ostacolo al riconoscimento del ruolo dell'Italia Oltremare il segretario del PCI, Palmiro Togliatti, chiese che la Gran Bretagna mostrasse la sua amicizia verso l'Italia non sulla questione (per lui imbarazzante) del confine italo-jugoslavo ma dichiarando “di essere d'accordo che rimangano all'Italia le sue vecchie colonie”.

Malgrado le denunce di neocolonialismo lanciate da Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Riccardo Lombardi e altri, l'apposita Commissione quadripartita delle Grandi Potenze incaricata di verificare le condizioni delle ex colonie italiane concluse che le loro popolazioni rivelavano grave carenza di preparazione politica e assoluta dipendenza sul piano economico. Perciò andavano “assistite” da un Paese in grado di promuoverne lo sviluppo. Chi meglio dell'Italia, che vi aveva profuso capitali e posto radici profonde più di quanto avessero fatto altri Stati europei nei loro domini afro-asiatici? Ministro degli Esteri nell'ult governo Giolitti (1920-1921) e nuovamente con De Gasperi, Carlo Sforza propose di affidare l'Eritrea a un mandato collettivo europeo (anche per sottrarla alle mire plurisecolari dell'Etiopia) e di erigere la Tripolitania a Stato indipendente ma unito all'Italia da “atto contrattuale”. La necessità di tenere sotto controllo la “quarta sponda” aveva una motivazione che andava molto oltre gli interessi nazionali esclusivi di Roma. In caso di aggressione dell'Europa centro-occidentale da parte dell'Urss la Libia sarebbe stata la base per la riorganizzazione delle forze armate, come lo era stata l'Africa nord-occidentale nel 1942-1943 per l'offensiva contro l'Asse italo-germanico. In pochi anni la “guerra fredda” mutò gli scenari planetari, a vantaggio dell'Italia che, per iniziativa di Vittorio Emanuele III e di Badoglio, si era arresa agli anglo-americani: i nemici più “comprensivi”, garanti della sua integrità territoriale.

Il 5-6 maggio 1949 Sforza concordò con il ministro degli Esteri  britannico Ernest Bevin la tripartizione della Libia sotto una guida comune anglo-franco-italiana, la divisione dell'Eritrea tra Etiopia e Sudan (inglese) e l'assegnazione della Somalia all'Italia in amministrazione fiduciaria su mandato dell'ONU. L'Assemblea generale però il 17 maggio respinse il piano con un solo voto di scarto: precisamente quello di Haiti, che non era una grande potenza.

Il 21 novembre 1949 andarono deluse le speranze del governo De Gasperi, comprendente democristiani, socialdemocratici (con Giuseppe Saragat vicepresidente), repubblicani (l'atlantista Randolfo Pacciardi alla Difesa) e liberali (Porzio vicepresidente, dopo l'elezione di Einaudi alla presidenza della Repubblica). L'Assemblea dell'ONU con 49 voti favorevoli e nove astenuti raccomandò di elevare la Libia a Stato sovrano entro il 1° gennaio 1952 e di affidare la Somalia in amministrazione fiduciaria all'Italia per la durata di dieci anni sotto la sorveglianza di un Consiglio formato da Egitto, Colombia e Filippine, tre Stati dal non specchiatissimo abito civile. A Mogadiscio l'11 gennaio dell'anno precedente si erano verificati “gravissimi incidenti” nell'inerzia della British Military Administration: 52 italiani vennero linciati e moltissimi altri feriti da parte dei “Giovani Somali”. Ne hanno scritto  Annalisa Urbano e Antonio Varsori in “Mogadiscio 1948. Un eccidio di italiani fra decolonizzazione e guerra fredda” (il Mulino). Per assicurarvi l'ordine pubblico Pacciardi chiese di inviare un corpo di 6500 militari ma De Gasperi gli osservò che a suo tempo il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi l'aveva governata in piena sicurezza con soli 4271 uomini, comprendenti appena 71 italiani, pochi ma sufficienti.

Episodi altrettanto funesti si erano verificati in Libia, ove il 4 e 7 novembre 1945 la comunità ebraica fu vittima di un massacro a opera di islamici fanatici: circa 140 vittime, incendio di sinagoghe, violenze ai danni di donne sposate e adolescenti. I “liberatori” non garantirono agli ebrei la tranquillità assicurata dal governatore Italo Balbo, il quadrumviro massone nettamente contrario alle leggi antisemite. Anche l'Eritrea fu teatro dell'assassinio di alcuni italiani. Il 25 novembre 1949 essa venne “federata” con l'Etiopia sotto la corona del negus che ebbe il controllo di esteri, difesa, moneta, finanze, commercio e comunicazioni. In tal modo l'Italia perse definitivamente ogni legame con la sua prima colonia, come del resto previsto dal Trattato di pace del 10 febbraio 1947. I suoi articoli 23, 33 e seguenti dettarono gli obblighi di Roma nei confronti dell'Etiopia. Il paragrafo 1 dell'allegato XIV del Trattato tagliò netto: l'Italia rinunciava a “rivendicare qualsiasi interesse speciale o qualsiasi influenza particolare in Etiopia”. In forza dell'articolo 37 Roma era tenuta a restituire “tutte le opere d'arte, tutti gli oggetti religiosi, gli archivi e gli oggetti di valore storico appartenenti all'Etiopia o a suoi cittadini, asportati dall'Etiopia dopo il 3 ottobre 1935” e a pagare l'astronomica indennità di 185 milioni di sterline, ridotti a 6,25 milioni dopo un negoziato durato dieci anni.

La parabola dell'Impero

La formazione del dominio coloniale italiano (nominalmente impero per la durata di appena un quinquennio) non fu frutto di improvvisazione ma di una visione politica di lungo periodo. Essa però venne drasticamente rimossa dalla memoria, quasi costituisse una vergogna, una macchia indelebile. Del tutto estrapolata dal contesto storico, rimase ai margini dell'attenzione storiografica, a parte opere polemiche (come quelle di Angelo Del Boca) che ne denunciarono gli aspetti più cruenti quasi siano stati gli unici avvenuti nel corso dell'espansione coloniale europea e degli imperialismi di Giappone, Cina e Urss. Paradossalmente si contano più opere di condanna del colonialismo italiano (ultimo venuto, anacronistico, ecc.) che sulla decolonizzazione di cui furono protagonisti Francia, Gran Bretagna, Olanda e Belgio. Motivo in più per tornare a riflettere sulla politica estera dell'Italia prima e dopo quel Trattato di pace che proietta la sua ombra lunga anche sull'Italia odierna, bisognosa di recuperare il “senso della Storia”, tutt'uno con quello “dello Stato”.

 

Aldo A. Mola

 

giovedì 21 ottobre 2021

L'ingegnosa storia di Federica di Grecia, la regina che raccolse 104 reali sulla stessa nave


L’evento mondano più chiacchierato del 1954 si è svolto su una nave da crociera e non aveva paragoni, perché mai nella storia si erano imbarcati tutti insieme 104 reali europei, il motivo per cui quel viaggio verrà ricordato come La crociera dei re. La nave si chiamava Agamennone - versione moderna dell’omonimo veliero da guerra da cui nel 1857 si provò per la prima volta a gettare i cavi sottomarini per mettere in comunicazione con il telegrafo nazioni separate dal mare - ed era stata costruita nei cantieri dell’armatore greco greco Eugene Euginides. A metterci sopra tutto quel sangue blu ci pensò ufficiosamente Federica di Hannover, meglio nota come Federica di Grecia, la moglie di Paolo di Grecia, terzo figlio di re Costantino I che compariva ufficialmente come promotore ufficiale. Federica, o Frederica/Frederika, come era il suo nome alla nascita, non lo fece solo per divertimento, ma anche per mettere in atto una strategia da fare invidia agli esperti di marketing. Ma chi era questa donna così versatile nelle public relation, e anche nella cura dei propri interessi?
[...]

mercoledì 20 ottobre 2021

Petardi di stato


Complotti leggendari per rovesciare Mussolini

 

di Aldo A. Mola

 

Da un valico alpino a una missione planetaria

Nel 1938 Vittorio Emanuele III aveva 69 anni. Erano passati più di nove secoli da quando Umberto Biancamano aveva iniziato le fortune della Casa. Sul trono da 38 anni, era Re d'Italia, imperatore d'Etiopia e, nominalmente, di Cipro, Gerusalemme... L'Italia possedeva un impero coloniale che andava dall'Africa Orientale (Etiopia, Eritrea e Somalia) alla Libia. Aveva Rodi e il Dodecanneso. Agnostico, Vittorio Emanuele III conosceva ogni dettaglio della “storia di famiglia” e di quella generale. Aveva motivo di ritenere che al di sopra di ogni sovrano della Casa vi fosse una Volontà. Quella dei Capi Famiglia che si erano succeduti di maschio in maschio per tante generazioni. La loro ascesa da conti di un valico alpino a sovrani di un impero trenta volte più grande dell'Italia non era solo frutto di indistricabili intrighi. Avevano svolto un “missione”?

Sotto il segno di Satana

“Veritas vos liberat” si diceva una volta. Ma adesso dov'è la “veritas”? La bulimia di “notizie” genera dis-informazione. Succubi di una valanga di “messaggi”, tanti brancolano nel buio della ragione, che, come noto, genera mostri. Suscita sospetti e inocula il virus del complottismo, malattia infantile dell'irrazionalità. Malgrado le diffuse illusioni, che sono l'altra faccia della stessa medaglia, la storia non è affatto un percorso rettilineo che da chissà quale abisso conduce verso chissà quale meta luminosa e sublime. Procede a strappi. Alcuni hanno il privilegio di credere che dopotutto gli uomini siano liberi, sia di fare il bene sia il male. Altri corrono dietro al primo pifferaio che li induce in tentazione. Un’esigua minoranza si conforta ripetendo “Ordo ab chao”. Quasi nessuno si rassegna a non cercare spiegazioni, pago di vivere e lasciar vivere. Perché sono appena una manciata? La loro ricetta andava bene nei secoli di Epicuro e di Lucrezio o del cinico Diogene. Ad Alessandro Magno, che gli domandò che cosa potesse fare per lui, il filosofo gli rispose che si scansasse perché gli faceva ombra.

L'osservazione pacata del “flusso della storia” (espressione cara all'insuperato e oggi pressoché dimenticato Riccardo Bacchelli) era possibile nei secoli andati: pochi abitanti, molte guerre di sterminio e pestilenze, cittadine e castella murate e di dimensioni ridotte, cavalli (pochi e costosi), asini, carrette, navigli fragili e audaci per trasporto di uomini e cose. Nel mondo odierno, ove tutto è a portata di mano in un battibaleno, a tanti pare ovvio che la storia non sia troppo diversa dal “pacco” che arriva a casa poche ore dopo l'ordinazione: tutto sotto controllo, “tracciato”, dall'ordine alla consegna. Se tutto è così agevole e razionale perché non dovrebbe esserlo anche la storia? E se non va per il verso diritto di chi sarà la colpa? Del complotto, di una congrega di perfidi cospiratori, che intralciano, avvelenano, corrompono. Sono gli adoratori di Satana.

Giobbe: portare pazienza...

Il sospetto che le cose non siano così facili venne già all'autore del “Giobbe”, primo dei libri poetici e sapienziali dell'Antico Testamento. Se non fossimo in silenzio elettorale raccomanderemmo di leggere e rileggere nella Bibbia i versetti 10,1-2 dell'“Ecclesiaste”. Recitano: “Il cuore del saggio va a destra/ma il cuore dello stolto va a sinistra./ Qualunque direzione lo stolto prenda/ il suo cuore viene meno e ognuno dice di lui: È matto”. Ma torniamo a Giobbe, che viveva nella terra di Uz. Uomo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male, aveva sette figli e tre figlie, settemila pecore, tremila cammelli, cinquecento paia di buoi, altrettanti asine, servitù molto numerosa e una vasta famiglia che viveva in perfetta armonia. Ma...

“Accadde un giorno che i figli di Dio vennero a presentarsi a Jahve (cioè a Dio) e tra di loro andò anche Satana”, reduce da una “passeggiata sulla terra” nella quale aveva notato Giobbe, l'uomo più facoltoso di tutti i figli d'Oriente. Jahve ordinò a Satana di stendere la sua mano su tutte le cose di Giobbe tranne che sulla sua persona. Dopo innumerevoli disgrazie e altre missioni da Jahve affidate a Satana per piegarne l'integrità, Giobbe concluse che: “L'uomo, nato da donna,/ ha vita breve e piena di affanni./ Come un fiore sboccia e appassisce...”. Ci arrivò millenni prima di Giacomo Leopardi. Dopo una geremiade di sofferenze e strazi, mostrata la sua totale fede in Jahve (“Io so che tu puoi tutto/ e niente per te è difficile...”) il paziente Giobbe venne ricompensato. Ebbe il doppio degli animali perduti, altri quattordici figli e tre figlie bellissime, visse ancora 140 anni, pari a quattro generazioni, e morì vecchio e sazio di giorni.

Non maledire il Re e non cospirare, perché Ciano prende nota

La storiografia? È anni luce lontana dalla forza poetica e sapienziale condensata nell'Antico Testamento che, fra altro, insegna: “Non maledire il re nemmeno con il pensiero/ e nel segreto della tua stanza non maledire un potente,/ perché gli uccelli del cielo portano la voce/ e un alato riferirà le parole”: senza bisogno di intercettazioni telefoniche, controllo delle chat e altri sortilegi da Grande Fratello, del tutto ovvi in Italia ove l'“ascolto” dei telefoni venne introdotto da Giolitti, presidente del Consiglio e ministro dell'Interno, non appena, a inizio Novecento, il “filo” prese piede, come documentò Ugo Guspini. Perciò nella sua casa a Cavour non lo fece mai installare. Meglio incontri a quattr'occhi e biglietti inviati in buste anonime.

Ma non sempre le “confidenze” fanno davvero storia, né si traducono in “colpi di Stato”, di cui è pieno l'Antico Testamento. Tra le molte, assai enfatizzate, figurano i “complotti” orditi per rovesciare Benito Mussolini tra il 1938 e il 1940. Li ha richiamati Paolo Mieli in un articolo estivo ora riproposto in Il tribunale della storia. Processo alle falsificazioni (Rizzoli). Vi rievoca un mai veramente documentato incontro nel Castello di Racconigi tra la principessa Maria José, consorte di Umberto di Piemonte, principe ereditario, con il maresciallo d'Italia Pietro Badoglio. Secondo una narrazione la Principessa propose “un bizzarro colpo di Stato” (parole di Mieli): arresto di Mussolini, forzata abdicazione di Vittorio Emanuele III e rinunzia al trono di Umberto a favore del figlio, Vittorio Emanuele principe di Napoli, di appena un anno, con lei come Reggente. Poiché v'era bisogno di un capo di governo, venne preconizzato l'ignoto avvocato milanese Carlo Aphel, uno dei legali del cofondatore e proprietario della Fiat, Giovanni Agnelli. Il racconto non è affatto nuovo. Ne scrisse Luciano Regolo in Così combattevamo il duce. L'impegno antifascista di Maria José di Savoia nell'archivio inedito dell'amica Sofia Jaccarino (ed. 2013), dal quale ha attinto anche Paolo Cacace nel recente Come muore un regime. Il fascismo verso il 25 luglio (il Mulino).

Che il principe ereditario e la consorte non fossero affatto proni al regime era notorio ed è stato ampiamente documentato. Tra le molteplici fonti rimane fondamentale il ghiotto Diario (1937-1943) di Galeazzo Ciano, genero di Mussolini (ne aveva sposato la figlia Edda) e all'epoca ministro degli Esteri. Sotto la data del 4 maggio 1938 annotò il proprio fastidio perché in occasione della visita di Stato di Hitler in Italia la Corte reale non aveva abdicato al suo ruolo primaziale e si era rivelata “di ingombrante inutilità agli occhi del popolo”, deluso perché Mussolini, “fondatore della potenza politica italiana”, non era a fianco del capo di Stato germanico. Lo avevano percepito anche i tedeschi. Secondo Ciano “tutto l'ambiente è ammuffito: una dinastia che è vecchia di mille anni non ama l'espressione di un regime rivoluzionario. Ad un Hitler, che per loro non è altro che il parvenu, preferiscono un qualsiasi reuccio, magari di Danimarca o di Grecia”. Al ministro degli Esteri tedesco, Joachim von Ribbentrop, che lamentò alcuni sgarbi sofferti da Hitler, il duce fece rispondere che avesse pazienza perché da sedici anni anch'egli pazientava. Giobbe in camicia nera, attorniato da repubblicani scalpitanti, lo era egli stesso; ma riteneva che la monarchia fosse “a scadenza”, come aveva fatto intendere dal 1919 alla nomina a capo del governo nel 1922.

Quando Mussolini sperava che “la natura” lo liberasse dal Re

Il 20 giugno 1938 Ciano annotò che la Principessa Maria José “cercava notizie circa la questione monarchica”, cioè sulla legge che aveva conferito al Gran Consiglio il potere di esprimere il parere sulle norme di successione al trono. “Ha detto che se non fosse che è quella che è, sarebbe contraria alle dinastie. A suo figlio insegnerà molti mestieri, perché pensa che un giorno il ragazzino dovrà lavorare e vivere del suo lavoro. I Savoia credono nel diritto divino. Lei no”. Due giorni dopo la pubblicazione del famigerato Manifesto della razza (14 luglio 1938) Mussolini scalpitò perché Vittorio Emanuele III si opponeva all'introduzione del saluto romano nelle forze armate: “C'è voluta la mia pazienza con questa monarchia rimorchiata. Non ha mai fatto un gesto impegnativo verso il regime. Aspetto ancora perché il Re ha settant'anni e spero che la natura mi aiuti”. Ciano aggiunse: “. È sempre più deciso a sbarazzarsi dei Savoia alla prima possibilità”.

A separare il sovrano da Mussolini era la “questione ebraica”, le leggi razziste volute dal duce anche per suscitare l'ostilità di Francia e Gran Bretagna ma avversate dal Re come da Pio XI, contro il quale il duce si riservava di “scatenare tutto l'anticlericalismo di questo popolo (italiano), il quale ha dovuto faticare non poco per ingurcitare un Dio ebreo”. A ore alterne tornava a esser l'antico socialmassimalista, con venature paleocarducciane e vagamente anarcoidi. Di lì anche la sua crescente avversione nei confronti del sovrano, che il 20 ottobre gli ripeté “il suo scetticismo sui tedeschi che giudica infidi e pericolosi e la sua simpatia per gli inglesi che sanno stare ai patti come sapeva fare la Vienna degli Asburgo”. Da metà marzo l'Austria era stata annessa alla Germania, con plebiscito confermativo pressoché unanime. Al Brennero l'Italia non confinava con la piccola e innocua repubblica austriaca sorta dallo smembramento dell'impero astro-ungarico ma direttamente con il Terzo Reich. La minaccia era incombente. Motivo in più per coltivare l'amicizia con la Gran Bretagna e smussare ogni “incomprensione” con la Francia, tanto più che questi due “campioni della democrazia” ormai riconoscevano la vittoria di Francisco Franco in Spagna e guardavano con preoccupazione agli equilibri nel Mediterraneo, mentre l'Europa centrale era squassata dal movimentismo revisionistico hitleriano. Se ne ebbe conferma alla Conferenza di Monaco di Baviera a fine settembre, quando Berlino ottenne l'annessione dei Sudeti, sottratti alla repubblica cecoslovacca.

Il 4 novembre 1938 Mussolini convocò il genero a Palazzo Venezia e gli parlò delle “difficoltà che presenta sempre più la 'diarchia' del fascismo e della monarchia”. Il giorno precedente nella rituale cerimonia all'Altare della Patria “le cose si erano messe male” tra lui e Vittorio Emanuele III perché la folla (debitamente suggestionata) aveva inneggiato esclusivamente al duce e non era stata eseguita la Marcia Reale. Mussolini disse al re che era “una dimenticanza occasionale”. Il sovrano replicò “in tono secco, che in otto secoli erano sempre stati resi gli onori ai Sovrani di Casa Savoia”. A Ciano il duce fece capire che non si sarebbe lasciata sfuggire l'occasione di “liquidare questo stato di cose”.

I poteri effettivi del Gran Consiglio? Esprimere “pareri”

Il conflitto tra Corona e Mussolini era dunque netto, anche se la resa dei conti veniva rinviata per le nubi che si addensavano sull'orizzonte. La questione ebraica era tra i motivi di insanabile dissenso. Il 28 novembre Ciano annotò che “il Duce era indignato col Re” perché Vittorio Emanuele III per tre volte aveva ripetuto a Mussolini di provare “infinita pietà per gli ebrei” e tra le persone perseguitate aveva citato il generale Emanuele Pugliese che “vecchio di ottant'anni e carico di medaglie e ferite doveva rimanere senza domestica”. All'obiezione che 20.000 italiani “con la schiena debole” si commuovevano sulla sorte degli ebrei, il Re replicò che egli era tra quelli. Il generale Pugliese, autore del fondamentale volume Io difendo l'Esercito aveva il comando della Divisione militare di Roma a fine ottobre 1922 e aveva assicurato l'ordine pubblico nella capitale fermando le “squadre” a decine di chilometri da Roma. Lo stesso Mussolini nel viaggio in vagone letto da Milano verso Roma a Civitavecchia era stato costretto a cambiare treno perché i binari erano stati divelti e un convoglio colmo di sabbia bloccava la circolazione. Emanuele Pugliese non era un caporale. Fu in quella tratta che, su pressione dei nazionalisti, Mussolini aggiornò la lista dei ministri da proporre al Re: sostituì Luigi Einaudi con Alberto De Stefani e cancellò il socialista Gino Baldesi, assolutamente pronto a partecipare al governo, come il duce ricordò alla Camera il 16 novembre 1922.

Ma la legge istitutiva del Gran Consiglio era davvero una sorta di spada di Damocle sulla Corona? Mussolini affermò al genero che la Principessa di Piemonte aveva “un sacrosanto timore di lui” e andava spesso a chiedergli istruzioni. “Una volta tirò fuori un libriccino e segnando con un dito il capoverso domandò al duce che cosa significasse il fatto che il Gran Consiglio doveva pronunciarsi in materia di successione della Corona. Mussolini rispose che ciò avverrebbe in mancanza di continuità della linea diretta o per vicende eccezionali. Lei parve soddisfatta. Ma la domanda prova che la preoccupazione del futuro alberga nel petto dei membri di Casa Reale”.

Chi non se ne dava pensiero era invece Vittorio Emanuele III perché, a differenza di tanti “storici”, sapeva leggere e distinguere tra norme e leggende. La legge istitutiva del Gran Consiglio è di chiarezza cristallina. Recita che doveva essere “sentito” il suo “parere” su “tutte le questioni aventi carattere istituzionale”, quali le proposte di legge su “la successione al trono, le attribuzioni e le prerogative della Corona”. Il Gran Consiglio non aveva alcun potere sulla successione, chiarita una volta per tutte dallo Statuto del 4 marzo 1848 e in vigore sino al 31 dicembre 1947. Era chiamato a esprimere un “parere” (non necessariamente vincolante, perché quel che il legislatore vuole lo dice) su “proposte di leggi”: neppure dunque sulle leggi approvate dalle Camere ma sui relativi disegni. Dal 1928 al 1943 non fu presentata alcuna proposta di legge di quel genere.

Una cosa sono i vagheggiamenti cospirativi, un'altra la decisone di voltar pagina. La narrazione dei complotti orditi in colloqui non avallati da alcun potere certificato intorbida le acque e spaccia i sogni come fossero realtà.

Su quegli anni difficili vi è un'unica certezza: Vittorio Emanuele III tentò invano di trovare una personalità decisa a sostituire Mussolini. Il duca Pietro d'Acquarone “tastò” anche Galeazzo Ciano, che però si ritrasse. Di buon temperamento, parlava moltissimo, scriveva parecchio, faceva meno. Purtroppo per lui, fu tra i firmatari dell'ordine del giorno Grandi -Federzoni che chiese al Re di esercitare tutti i poteri statutari temporaneamente assunti da Mussolini. Giudicato complottista e traditore venne fucilato al Poligono di Verona sulla base di una sentenza iniqua pronunciata dal solito tribunale straordinario fascista repubblicano.

Quando venne l'ora, il 25 luglio 1943 il Re mise a segno la revoca e la sostituzione di Mussolini da capo del governo. Non fu un petardo, a differenza dei vari “complotti” qui e là ventilati da altri, e neppure un “colpo di Stato” ma l'applicazione delle norme statutarie, come acutamente scrisse Luigi Einaudi.

Al pari di Giobbe, anche Vittorio Emanuele III fu assediato più e più volte dai Satana del tempo suo. Però, a differenza del paziente biblico, non ebbe riscatto. Né in vita né in morte. La sua lunga e drammatica biografia, tutt'uno con la storia d'Italia della prima metà del secolo scorso, rimane in attesa di essere meglio conosciuta.

 

Aldo A. Mola

 

domenica 17 ottobre 2021

Capitolo XL: La nascita del figlio Umberto e della figlia Giovanna Maria


di Emilio Del Bel Belluz


 Carnera dopo il matrimonio aveva cercato di lavorare come attore in qualche film, tutto era importante per portare a casa del denaro. Purtroppo, erano  finiti i tempi in cui gli bastava salire sul ring, per guadagnare ottime borse. Ogni tanto gli  capitava di fare delle esibizioni dove mostrava a tutti che era dotato ancora di una grande forza.  I muscoli di Carnera erano ancora possenti, anche perché a casa lavorava sodo, aiutando nei campi. 
La fatica non lo aveva mai spaventato. Alle sagre dimostrava la sua  forza riuscendo ad immobilizzare due cavalli recalcitranti, cosa che aveva fatto anche a Motta di Livenza, un paesino del Veneto; oltre a delle esibizioni di boxe in un teatro.  La sala era gremita di persone che assistevano alla esibizione contro il pugile veneto Giovanni Martin che Primo conosceva molto bene e  che era stato campione italiano dei massimi e dei mediomassimi.  
Il gestore fu molto felice dell’incasso. Tanti erano rimasti fuori del teatro, solo per poter vedere l’uscita del campione. Davanti all’ingresso c’erano tanti bambini che discutevano sulla forza di Carnera e ognuno di loro avrebbe voluto avere un amico come lui, per sentirsi tranquillo e protetto. Carnera era amato anche dai più piccoli che potevano conoscere le vicende del campione leggendo i giornalini che le pubblicavano. La maestra del paese aveva tenuto una lezione sulla vita di Carnera, e per questo si era fatta consegnare un quaderno da un suo scolaro su cui erano incollati i molti articoli di giornale usciti su di lui. Vi erano delle foto degli incontri più importanti, anche di quelli combattuti in America. C’era anche un’immagine in cui veniva ritratto con i figli di Mussolini. A scuola i ragazzi vollero fare dei disegni su di lui, e  l’insegnante bandì un concorso che avrebbe premiato il disegno più bello e significativo. Tra i ragazzi v’era il figlio del barbiere che disegnava molto bene e che riuscì a fare un vero e proprio capolavoro. 
L’alunno fece Carnera mentre alzava le mani con i guantoni in segno di vittoria. Questo disegno venne poi spedito a Carnera come dono, accompagnato da una bella lettera. Poco tempo dopo, la maestra ricevette una foto del pugile con dedica da consegnare all’autore del bellissimo disegno, e con un suo scritto  che ringraziava e lasciava intendere di essersi commosso. L’alunno aveva una passione per il campione e gli sarebbe piaciuto fare il pugile, e raggiungere lo stesso successo di Carnera. Per molti ragazzi rappresentava il mito del gigante buono. Primo trascorreva molto tempo in famiglia, specialmente nel periodo dopo il matrimonio. Una mattina mentre Primo stava lavorando in giardino, Pina lo chiamò che rientrasse in casa. 
Aveva preparato una torta di mele, e sorridente volle comunicargli quello che da settimane teneva nascosto nel suo cuore: l’attesa di un bambino Carnera dalla felicità emise un grido che venne udito anche in piazza. La notizia lo aveva reso felice, abbracciò e baciò la moglie mille volte: avrebbe avuto un figlio che tanto desiderava. Quella torta venne subito mangiata, e fu il dolce più squisito che avesse fatto Pina. Da quel momento Carnera non pensò che a rendere più accogliente la casa. La notizia poi venne data ai genitori di Primo, e ci fu un’altra festa, come volle pagare da bere a tutti i compaesani che frequentavano il Bottegon.  
Da quando si era sposato, la vita gli aveva regalato delle belle soddisfazioni. Nei mesi successivi  dovette andare a Roma per girare un film,  in quell’occasione chiese a Pina di seguirlo,  e anche lei era contenta di lasciare  per un po’ la vita di routine.  La città di Roma era come sempre incantevole. 
Carnera si fermò per alcune settimane di intenso lavoro. In quel periodo Pina gli fu di compagnia,  e di grande aiuto nello studio del copione del film. Carnera, una sera, le fece conoscere alcuni attori, tra cui il grande  Totò che ammirava moltissimo. Fu una gioia inaspettata. Totò volle complimentarsi con lei per il figlio che attendeva, e durante la cena le parlò molto della città di Napoli. dove era nato e dove aveva vissuto gli anni della sua giovinezza. Le descrisse alcune bellezze partenopee che la donna non aveva visitato nel  viaggio di nozze. La vita di Primo sembrava essere tornata una favola. In quelle settimane ebbero la possibilità di approfondire la conoscenza della città eterna.  
Alla fine del film  dovettero ritornare a casa. Il giorno in cui lasciarono la città e mentre erano alla stazione di Roma, vissero un momento che non avrebbero mai dimenticato. Stavano salendo in treno quando videro della persone che s’erano intrattenute a salutare il principe Umberto II, che  notò Primo e s’avvicinò per salutarlo. Carnera in quel momento rimase sorpreso, intimidito, non aveva quel che si dice parole.  La gente li aveva circondati, e il treno  doveva partire, ma in quei pochi minuti ebbero la possibilità di scambiarsi alcune frasi. 
Il principe accortosi che la moglie di Carnera attendeva un figlio si complimentò con lei e Pina gli disse che se fosse nato maschio, l’avrebbe chiamato Umberto. Il principe ne fu molto felice, come lo erano anche i coniugi Carnera. Prima di congedarsi Primo volle dire al principe che lo stimava molto e che nella sua casa aveva appeso la foto incorniciata di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. Queste parole commossero il principe e si salutarono. 
Carnera e Pina rimasero colmi di gioia per quell’ incontro e non vedevano l’ora di raccontare l’accaduto ai genitori. Non si erano accorti che mentre parlavano con il principe, vi erano un giornalista e un fotografo che immortalarono il loro incontro  e nei giornali del giorno dopo apparivano la foto e l’ articolo. Al paese di Sequals vennero a conoscenza dell’accaduto ancora prima che gli sposi arrivassero. Un professore, amico di famiglia, che abitava poco lontano dalla casa di Carnera, andò a portare alla mamma di Primo il giornale con la foto. 
Quando arrivarono a casa fu la madre che gli mostrò il quotidiano e in paese molti raccontavano che Primo era anche amico del principe Umberto di Savoia. Quel giorno, in famiglia, non si fece che parlare di Roma, del film che Primo aveva girato e del grande Totò che aveva conosciuto molto bene. La mamma di Carnera per festeggiare il figlio aveva preparato una delle specialità da lui più gradite. Le settimane passarono veloci e il 1940 portò tante sorprese. Carnera  aveva continuato a fare delle apparizioni in più parti del Paese, ma voleva essere a tutti i costi presente all’arrivo dell’erede. La vita si svolgeva con  tranquillità, nei momenti liberi Carnera faceva dei lavoretti di falegnameria, e preparò la stanza dove il nascituro avrebbe dimorato. La culla fu fatta da Carnera. 
Primo ci aveva lavorato con cura, perché la sentiva come una cosa importante. Fu costruita di grandi dimensioni. L’erede di Carnera nacque il 5 gennaio del 1940,  era un maschio, e gli venne  messo il nome di Umberto, come avevano promesso all’erede al trono d’Italia. Il bambino era nato sano e bello come un principe e come tale sarebbe dovuto vivere. 
Dopo la nascita del bambino Carnera era l’uomo più felice del mondo, aveva tanto desiderato quel figlio maschio che avrebbe continuato la sua generazione. La mamma e il papà non potevano aspettarsi di meglio dalla vita. Il bambino venne onorato anche da un regalo che il principe Umberto e la moglie gli fecero. Gli mandarono una lettera di felicitazioni, assieme a un pacchetto che conteneva un paio di guantini in pelle con lo stemma sabaudo. Carnera fu davvero felice di questo pensiero regale che li appese   vicino alla culla per poter essere ammirati da tutti.  Carnera volle che nel giorno del battesimo del figlio ci fosse tutta la gente del paese, e , pertanto, offrì un banchetto che gli costò una fortuna.  Carnera desiderò che venisse scattata una foto che lo ritraeva assieme alla moglie, sorridenti, con il piccolo nato tra le sue mani e sollevato verso l’ alto. Nella foto Carnera aveva chiesto che si vedesse anche il quadro raffigurante la Madonna con il Bambino, posto sulla parete dietro di loro. 
Primo ringraziava Dio del dono ricevuto, perché la nascita di un figlio è sempre un miracolo. Una sera davanti al fuoco acceso,  lo cullava assieme alla moglie e con la sua voce forte e vibrante disse che il bambino avrebbe avuto una vita felice. Il sogno di Primo era che Umberto potesse  studiare, diventare qualcuno nella vita, magari, un medico, o un avvocato. Pina sentiva queste parole in silenzio.  La notte sarebbe stata  fredda, sembrava volesse cadere la neve, così aveva detto un contadino . 
Sarebbe stata la prima neve che il bambino avrebbe visto. Pina per un attimo pensò a sua madre, e a quanto bello sarebbe stato se fosse stata presente. Nella vita i momenti belli vanno vissuti fino in fondo e condivisi.  Guardando il cielo dalla finestra, disse che sua madre stava vedendo  tutto dal paradiso, e avrebbe protetto quel piccolo bambino. Scese la neve come aveva previsto il vecchio, e Primo si accorse che una lacrima aveva solcato il volto della moglie. Intuì che Pina stesse pensando alla madre, la strinse a sé e la baciò sulla fronte. I mesi seguenti furono difficili, era scoppiata la guerra. Carnera  dovette darsi da fare per raggranellare qualche soldo, ma non trovava tante possibilità, e anche il teatro non consentiva più i guadagni di un tempo. 
Primo passava delle giornate difficili, facendo qualche lavoretto in famiglia, ma non c’erano prospettive importanti. A Sequals si vedeva con gli amici, incominciavano ad arrivare in paese le notizie sulla guerra di Russia, dove erano impegnati alcuni soldati di Sequals. Il parroco portò la notizia che era caduto un suo compagno di scuola, a cui era molto legato. Il curato chiese a Primo di accompagnarlo per comunicarlo  alla vedova che aveva dei figli che ora bisognava aiutare. Carnera che era una persona molto sensibile ed empatica consolò la vedova e i bambini. L’Italia incominciava ad essere stanca del conflitto, e gli entusiasmi iniziali erano crollati, ma bisognava sperare ancora. Carnera in quel periodo dovette vendere alcuni vestiti che si era fatto confezionare in America: con il ricavato contava di andare avanti. Quello che aveva comprato alcuni suoi abiti era un suo ammiratore che fu generoso con Primo . Pina nel frattempo aveva dato alla luce il secondo figlio, una bella bambina che fu battezzata con il nome di Giovanna –Maria.  
Il nome Giovanna fu dato per onorare la mamma di Carnera e il secondo nome era uguale a quello della principessa, moglie del Principe Umberto, che avevano incontrato nel loro viaggio di nozze. 
La nascita della figlia, visto il periodo difficile, fu festeggiata in tono minore, anche se tutti avevano manifestato allegria per il lieto evento. Dalla Casa reale dei Savoia giunse un bel dono, con una foto dei principi che erano lieti della nascita e della scelta del nome. Nella missiva veniva scritto che speravano di poterli vedere a Roma al più presto.  Il buon Primo portò al parroco un grande cero per ringraziare la Madonna della grazia che aveva fatto. Il vecchio curato lo gradì e lo pose davanti alla statua della Madonna: in quel periodo di aumentata povertà anche i ceri scarseggiavano. 
La guerra aveva allontanato tanta gente da Sequals, tanti avevano dovuto indossare una divisa, perché la patria andava amata e non ci si poteva tirare indietro. Il curato sapeva dove bussare per avere del cibo, e Carnera era tra coloro che lo aiutava più di tutti, anche accompagnandolo da qualche famiglia facoltosa, dove la sua presenza era come una chiave che apriva non solo i cuori ma anche i portafogli. Questo bene che Primo faceva gli sarebbe di sicuro tornato indietro. Nel 1942 venne chiamato a Roma dove partecipò come attore al film di Carmine Gallone Harlem e in cui recitavano attori come Amedeo Nazzari e Vivi Gioi. Il film raccontava la storia di un pugile. Il grande Carnera fu impegnato per alcuni mesi anche del 1943, e non fu facile girare tutte le scene, con la guerra in atto. Primo in cuor suo pensava ogni giorno alla propria famiglia che l’attendeva, e non vedeva l’ora di finire le riprese. 
I soldi che percepiva per il film venivano spediti a casa e non mancava mai d’accompagnarli con una lunga lettera per l’adorata Pina, di cui sentiva una grande nostalgia. Verso la metà di aprile riuscì a tornare in famiglia, e fu una festa, i suoi tesori erano cresciuti molto che quasi non li riconosceva. Il ritornare al paese fu davvero un grande sollievo, anche se in quei mesi il lutto era entrato in alcune famiglie, portando dolore e disperazione. Molti si rivolgevano a Primo per conoscere gli ultimi avvenimenti bellici, perché era uno dei pochi che leggeva i giornali. Qualcosa di positivo era accaduto: il film che aveva girato stava dando dei buoni incassi.  
Quando venne proiettato a Udine, la famiglia Carnera andò a vederlo. Nei manifesti del film, il suo nome appariva accanto a quello di Amedeo Nazzari. All’entrata nella sala molti lo riconobbero, e si avvicinarono per salutarlo. Ci fu un applauso scrosciante nel momento in cui Carnera fece la sua apparizione nella pellicola. Il film durava quasi due ore. Nell’intervallo tra un tempo e l’altro, degli spettatori vollero complimentarsi con lui che  aveva fatto loro dimenticare il clima della guerra. Alla fine della proiezione Carnera fu invitato dal proprietario del cinema a dire alcune parole, che furono applaudite da tutti con commozione. Pina era felice di quella serata trascorsa senza pensieri.

mercoledì 13 ottobre 2021

VITTORIO EMANUELE III PER IL MILITE IGNOTO


 Consulta dei Senatori del Regno

il Presidente


Sabato 9 ottobre 2021 si è svolto a Vicoforte il Convegno di studi

“Il Re Soldato per il Milite Ignoto: La riscossa della monarchia statutaria, (1919 - 1921)”,

organizzato  dalla  Consulta  dei  Senatori del  Regno  in  collaborazione  con  la Associazione di Studi  Storici Giovanni Giolitti (ASSGG) e l'Associazione di  Studi  sul  Saluzzese  e  con  l'egida    di  Comando  Militare  Esercito  Piemonte, Gruppo  Croce  Bianca  (Torino),  Associazione  Nazionale  ex  Allievi  della Nunziatella, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (Milano), Istituto di Studi Politici e Internazionali Giorgio Galli (Milano), UniTreEdu (Milano) e il Centro Studi Piemontesi.

Alle  h.10:15  sono  state  deposte  Corone  di Alloro  alle  Tombe  di  Vittorio Emanuele III e della regina Elena, recate dalla Consulta (gen. Giorgio Blais e col. Carlo Cadorna) e dal Gruppo Croce Bianca (Carlo M. Braghero e Guido Ornato).

Dopo  il  saluto  del  prof.  Gianni  Rabbia,  componente  del  Consiglio  di Presidenza  della  Consulta,  e del cav. Alessandro  Mella,  presidente  della ASSGG, il Convegno è stato aperto dal Messaggio beneaugurante di S.A.R. la Principessa Maria Gabriella di Savoia.

Presieduta dal Presidente onorario della Associazione Nazionale ex Allievi della Nunziatella, Giuseppe Catenacci, sono intervenuti il col. Carlo Cadorna e i professori GianPaolo Ferraioli, Luca G. Manenti e Aldo A. Mola.

Nella sessione pomeridiana, presieduta dal Segretario della Consulta, Gianni Stefano Cuttica,  sono  intervenuti  i  professori  Aldo  G.  Ricci, Tito  Lucrezio Rizzo,  Gianpaolo  Romanato,  il  gen.  Antonio  Zerrillo  e  il  prof.  Giorgio Sangiorgi, che ha presentato una suggestiva rassegna di filmati d'epoca sulla Tumulazione del Milite Ignoto e sul viaggio del Re e della Principessa Iolanda in Friuli (maggio 1919).​

 

Consulta dei Senatori del Regno

il Presidente

Sono poi intervenuti il generale di divisione Giorgio Blais, componente del Consiglio  di  Presidenza  della  Consulta,  il  dott.  Giovanni  Flamma,  il vicepresidente  vicario  del  Gruppo  Croce  Bianca,  Carlo  M.  Braghero,  e  il generale di Corpo d'Armata Oreste Bovio, che ha rievocato il suo incontro con Vittorio Emanuele III.

Alessandro Mella ha comunicato la adesione del presidente della Provincia e sindaco di Cuneo Federico Borgna, del sindaco di Mondovì Paolo  Adriano e del dottor  Andrea  Borella,  editore  dell'Annuario  della  Nobiltà  Italiana,  e  ha concluso i lavori illustrando gli Atti (di imminente pubblicazione) del convegno svolto nella stessa sede il 10 ottobre 2020 su “Vittorio Emanuele III, il Re nelle tempeste”.

I partecipanti (che hanno empito al limite della capienza la Sala Beata Paola della Casa Regina Montis Regalis di Vicoforte), tra i quali i Colleghi Senatori Piero Astengo,  Guido  Ornato  e  Giovanni  Ruzzier,  accompagnato  da Alberto Urizio, hanno ricevuto in omaggio pubblicazioni promosse dalla ASSGG.

La registrazione dei lavori è su canale youtube

youtu.be/1Jb65oMrKUy8

e gli Atti saranno pubblicati a stampa quanto prima.

TSG - Ricaldone, 10 ottobre 2021


il Segretario                                                         Il Presidente

Gianni Stefano Cuttica                                    Aldo Alessandro Mola 

domenica 10 ottobre 2021

CAPITOLO XXXIX: Il viaggio di nozze

 di Emilio Del Bel Belluz


La prima notte di matrimonio l’avevano passata nel paese natale di  Carnera.  Gli sposi, l’indomani, partirono per il viaggio di nozze. Dopo aver salutato i parenti, e  aver guardato per l’ultima volta la chiesa di Sequals dove era avvenuta la cerimonia, erano ben certi che il loro matrimonio non era più un sogno da realizzarsi.  La prima tappa del loro viaggio di nozze fu la bella città di Venezia, avevano prenotato in un grande albergo, uno dei migliori della città. Pina non era mai stata a Venezia ed aspettava con trepidazione quel momento.  L’unica cosa che non avevano pensato é che non sarebbe stato facile passare inosservati in quella città. Appena arrivati a Venezia acquistarono dei quotidiani, compreso Il Tempo di Roma, scoprendo che avevano annunciato il loro arrivo. Nella prima pagina vi erano le foto del matrimonio, e Pina si commosse per quelle immagini così belle, specialmente, quella che li ritraevano davanti alla chiesa, mentre la gente applaudiva. I due sposi apparivano stanchi del viaggio, e vennero festeggiati in albergo dalla gente che li riconobbe. 
Carnera era sempre stato abituato alla gente che voleva parlare con lui, che chiedeva di fare una foto, e che desiderava un autografo, ma Pina sembrava disorientata da tutto questo. Spesso in quei momenti aveva pensato a  come sarebbe stata contenta sua madre  di condividere  una gioia tanto grande e le speranze per il futuro. 
Aveva pregato la sorella di portare il bouquet della sposa sulla tomba della madre, e questo gesto era per lei molto importante, e aveva commosso anche Primo. Costui le promise che l’ultimo giorno del  viaggio di nozze l’avrebbe accompagnata al suo paese, proprio per portare un fiore a sua madre ed incontrare le sue amiche che non poterono partecipare alla cerimonia, ma avevano inviato dei regali molto graditi. Pina apprezzò moltissimo la sensibilità del suo sposo che l’aveva letta nel pensiero. Il giorno successivo  a Venezia fu davvero gioioso, la stanchezza se n’era andata, e raggiungessero a piedi la Piazza di San  Marco. 
Carnera non aveva occhi che per la sua bella sposa, sentiva davvero d’essere una persona realizzata e felice. Nel suo cuore riecheggiava ancora la parola sì che Pina aveva pronunciato in chiesa, e che li aveva uniti per sempre. Carnera acquistò un paio di sacchetti di chicchi di grano che condivise con Pina e ben presto sulle loro mani s’erano posati alcuni colombi che becchettavano con avidità quel ben di Dio. Un fotografo, avvicinandosi agli sposi,  chiese loro se volevano un ricordo e subito dopo mise tra le mani del campione un biglietto su cui era scritto l’indirizzo per il ritiro delle foto. La gente li seguiva, e allora Primo decise di far fare una gita in gondola alla moglie. 
Il gondoliere, riconoscendoli, disse che era molto onorato ed emozionato di portarli a visitare le bellezze di Venezia, solcando i canali. La gente osservava  dai ponti, e applaudiva  al loro passaggio. Erano una bella coppia. Speravano che la felicità durasse per sempre. Passarono dei giorni indimenticabili, e in albergo avevano tutto il personale a disposizione.  Carnera dovette rilasciare un’ intervista per un giornale locale. La gente voleva conoscere i dettagli del matrimonio, e non solo per curiosità. Qualche giorno dopo lasciarono la città di Venezia, diretti alla seconda tappa del loro viaggio di nozze. Non potendo portare con sé alcuni regali che avevano comprato per i familiari, li spedirono a casa, a Sequals. Non avevano badato a spese, dovevano far ricordare il loro matrimonio.  La felicità non li abbandonava e si sentivano desiderosi d’avere dal buon Dio un figlio che allietasse la loro vita. Carnera era convinto che sarebbe stato un maschio, possente come lui, ma non avrebbe fatto il pugile; di questo era certo, perché di pugni ne aveva presi  molti già suo padre. 
La città di Roma era incantevole, e stava per arrivare il dolce tepore della primavera. La bella sposa non aveva mai visto Roma, la città eterna cantata da tanti scrittori, che il mondo elogiava e ci invidiava. Carnera assecondava ogni desiderio del suo amore, sapeva che era stato più fortunato di lei, avendo visto molte volte  Roma. In quei giorni non si perse un attimo di tempo, Pina voleva visitare tutta la città, ma era una cosa davvero impossibile, ci sarebbero voluti dei mesi e non si sarebbe ancora visto tutto. 
Primo le fece vedere Piazza di  Siena, dove aveva difeso il suo titolo mondiale dei pesi massimi contro Paulino Uzcudum, davanti a migliaia di persone, tra cui anche il Duce e la sua famiglia. Quante emozioni, quella sera, passeggiando per quella Piazza. Carnera raccontava il  mondo della boxe con una certa commozione. In quei giorni aveva incontrato molta gente e qualche giornalista, ma la sua meta ora era l’udienza con il Santo Padre, Pio XII°. 
Quell’ incontro  era davvero sentito da entrambi i coniugi, e Carnera non poteva dimenticare la prima volta che lo incontrò. Ricordava le toccanti parole di incoraggiamento che gli aveva detto, nel momento in cui il suo cuore era triste per la morte di Ernie Shaaf, e quella carezza che gli aveva fatto per consolarlo. Quella sera il suo cuore era immerso nei ricordi, e  aveva parlato con sua moglie per la prima volta di quel peso che aveva dentro per quello che era accaduto: la morte del suo avversario. Il giorno dopo, assieme a tanta gente che lo salutava e lo voleva incontrare, fu presente all’udienza del papa. Il pontefice, dopo il discorso molto commovente, passò vicino ai fedeli e vedendo Primo lo salutò con affetto, fece una carezza ad entrambi e benedisse la coppia. L’emozione per quella insperata benedizione fu davvero una delle cose più belle ed indimenticabili della loro vita. Quella sera Carnera portò la moglie a fare un bel giro in carrozzella, visitarono i posti più attraenti della città eterna. 
Quei giorni passarono con immensa felicità. Prima di lasciare Roma vollero scrivere delle cartoline alla famiglia e agli amici, facendoli partecipi della loro gioia. L’indomani sarebbero partiti  per la tappa successiva: la bella città di Napoli, che non li avrebbe delusi e dove li attendevano con tanta gioia alcuni amici. Il viaggio di nozze aveva permesso ai due sposi di approfondire la loro conoscenza. La gente di Napoli li accolse con grande entusiasmo e benevolenza che solo loro sanno avere. L’unica tristezza per Primo era che in tutti quei giorni felici era ingrassato di qualche chilo e la cintura dovette essere allargata. Quando fecero tappa a  Capri, un’isola meravigliosa, occuparono la camera appena lasciata da Maria di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele III  e da Luigi di Borbone- Parma, che erano anche loro in viaggio di nozze. La luna di miele continuava, e come i sogni si vorrebbe non finisse mai. Le giornate passate a Capri  furono un incanto, e la sposa ebbe la possibilità di fare degli acquisti, di vedere tanta gente che amava  suo marito, e si sentiva importante pure lei. Non vedeva l’ora d’incontrare le sue amiche per portarle a conoscenza di  quello che aveva visto con tanta felicità. L’ultimo giorno ebbero la possibilità di veder lo spettacolo della Grotta Azzurra, una meraviglia di quelle che non si dimenticano. La Grotta Azzurra era davvero un posto incantevole, e Primo sfiorava con le mani l’acqua limpida del mare.  
All’interno della Grotta Azzurra accadde una cosa che non avrebbero dimenticato per tutta la vita: si baciarono. In quel posto pensavano d’essere in paradiso. In quei giorni i due sposi erano talmente felici che pensavano di vivere solo un sogno e temevano di svegliarsi prima o poi. Alcuni giorni  dopo rientravano a Sequals, con  molti regali da consegnare a parenti ed amici. Dal giorno del matrimonio non avevano potuto vedere  i regali che avevano ricevuto e i molti biglietti d’auguri giunti da tante parti del mondo. La corrispondenza occupava gran parte della scrivania che Primo aveva in studio. La posta continuava a giungere da più parti, e tra  le tante lettere ve ne erano alcune dalla Francia. Una in particolare lo colpì: quella di un suo amico che lavorava con il circo. Gli faceva gli auguri e riferiva d’essere stato felice nel tempo passato con una persona diventata poi famosa nel mondo. Costui, ormai diventato anziano, sperava che Carnera tornasse in  Francia per rivederlo. Primo, sapendo che l’uomo non era molto fortunato, volle allegare alla risposta dei soldi e una foto del suo matrimonio. 
Per non umiliarlo gli scrisse che quella somma sarebbe servita per bere alla sua salute. Le prime settimane passarono molto in fretta. Quello che  impensieriva Carnera era l’aria di guerra che si percepiva. Dai giornali apprese l’invasione della Polonia da parte della Germania, e questo avvenimento non lasciava prevedere nulla di buono, perché ogni conflitto portava con sé solo morte e distruzione. Il suo pensiero andò al periodo in cui suo padre aveva combattuto nella Grande Guerra. Ricordava, inoltre,  un suo amico che era andato a combattere volontario in Spagna contro i rossi ed era ritornato a casa con una gamba amputata e viveva poveramente. Qualche volta lo vedeva, passando vicino alla sua casa. La moglie gli era stata vicina, e lo amava ancora di più. Vivevano, accontentandosi di quello che la moglie riusciva  a produrre dal lavoro del loro piccolo podere. Questo legionario aveva da poco compiuto trent’anni e una sera Carnera volle andare a trovarlo. Aveva portato con sé un pacco di viveri, un atto di gentilezza verso i suoi amici che il buon Dio non avrebbe dimenticato.
L’aveva trovato davanti al fuoco, seduto che leggeva un libro, ma appena vide Carnera si alzò  aiutandosi con una stampella. La moglie dell’uomo stava preparando la cena. La cucina aveva solo pochi mobili e cucinavano ancora con il focolare. Carnera si mise a parlare con l’amico legionario che gli narrò della guerra in Spagna, e della vittoria sui rossi con l’aiuto dei tedeschi e degli italiani. Carnera era interessato agli avvenimenti storici della Spagna dove s’era recato Barcellona a combattere nel 1930 contro il basco  Paulino Uzcudum,  vincendo il match. Il legionario  raccontò a Carnera che aveva sentito molto parlare di questo pugile rocciatore, che aveva una forza enorme ed era capace di sollevare massi di oltre cento chili.  Quando era in Spagna lo conobbe, era venuto a fare una esibizione pugilistica contro un soldato tedesco, un ottimo peso massimo che non resistette che poche riprese, poiché venne atterrato con un potente destro. I camerati tedeschi erano dispiaciuti, ma poi i due pugili si ritrovarono   a bere amichevolmente una bottiglia di liquore.  
Qualche tempo dopo  lo rivide in una foto di un giornale che riportò in Italia.  La donna mostrò a Primo il giornale, che  conoscendo lo spagnolo lo lesse in poco tempo e lo tradusse per i suoi amici. L’articolo riportava:“ Carnera affrontò vittoriosamente il basco Paolino Uzcudum a Roma il 22 ottobre 1933 in difesa del suo titolo mondiale. L’intero incasso della serata (erano presenti 65.000 spettatori a Piazza di Siena ) venne donato interamente alle opere assistenziali del Regime ). Sulla rivista “ Tutti gli sport” si rende onore allo sconfitto : che è uscito con tutti gli onori da Piazza di Siena è il legnaiolo di San Sebastian . Chiusa la carriera un paio d’anni dopo, Paolino tornò alla ribalta durante la guerra civile. Arruolandosi nelle forze falangiste avrebbe dovuto partecipare a un tentativo ( poi non effettuato in quanto la notizia era poi trapelata ) di liberare Josè Antonio nella prigione di Alicante , sfondando le porte con un’ ascia . Una sua intervista apparve nel dicembre del 1936 su “ Aqui estamos ” (organo di FEJONS delle Baleari) . 
Dopo aver partecipato alla conquista di Vergara, Paolino si trova a Siviglia in attesa di ripartire per il fronte . “ Non mi sono mai interessato di politica, ma ho sempre avuto un amore superiore a tutto, quello per la Patria. Questo non me lo perdonavano i nazionalisti baschi. Avrei voluto lasciare subito la loro zona all’inizio delle ostilità, ma temevo rapp


resaglie sulla famiglia. Tuttavia quando compresi che si stava preparando ad eliminarmi decisi di fuggire. Nella mia località natale, Regil, i rossi hanno distrutto la mia casa; fortunatamente mia madre e mia sorella rimasero incolumi . Adesso non penso alla boxe. Ne abbiamo abbastanza della lotta che abbiamo iniziato per la Spagna”. 
Dopo la lettura del giornale Primo rimase molto rattristato, apprendendo che Paolino  aveva perduto la sua casa, e i suoi ricordi più belli. Il legionario disse che Paulino era stato considerato una persona forte di cui ci si poteva fidare. La nuova Spagna aveva bisogno di veri uomini come lui per essere ricostruita. Carnera disse all’ amico che l’avrebbe aiutato a trovare un lavoro adeguato alle sue condizioni fisiche e non l’avrebbe in nessun modo dimenticato. 
Quella sera Primo raccontò alla moglie quello che aveva saputo dal legionario, le mostrò la foto del giornale in cui si vedeva il suo avversario in divisa militare con il fucile in mano. Se avesse potuto ritornare in Spagna avrebbe cercato Paolino per confortarlo ed aiutarlo in qualche modo.

giovedì 7 ottobre 2021

Raccoglimento: le voci del Milite Ignoto e del Re





di Aldo A. Mola

La voce del Milite Ignoto

“Vox clamantis in deserto...”. È la Voce del Milite Ignoto, sintesi ed emblema dell'unità degli italiani, del sacrificio sopportato dalle “popolazioni” lungo quarantun mesi di una guerra originariamente voluta da un'esigua minoranza e divenuta nazionale quando il 24 ottobre 1917 gli austro-germanici sfondarono il fronte a Caporetto e dilagarono sino a Udine. Nell'ora più difficile, quando molti dubitarono, la stragrande maggioranza voltò le spalle alle sirene dei disfattisti. In pochi giorni il Paese rispose. Compatto. Il 14 novembre alla Camera dei deputati intervennero gli ex presidenti del Consiglio, a cominciare da Giolitti. Ingiustamente sospettato di umori “neutralisti”, lo statista fu lapidario: guidati dal Re gli italiani avrebbero combattuto fino alla vittoria. Filippo Turati dichiarò che anche per i socialisti “la Patria” era sul Piave. Cancellò il monito del suo compagno di partito che mesi priva aveva ammonito: “Non un altro inverno in trincea.”

L'Italia intera divenne retroterra della trincea. Il nemico non avrebbe portato né pace né giustizia né libertà. Avanzava facendo terra bruciata. La documentazione delle infamie perpetrate ai danni della popolazione civile sono agghiaccianti. Così imbarazzanti che se ne è parlato pochissimo nel centenario della Grande Guerra, improntato da una vena di oblio che non aiuta affatto a capire la storia. Vittorio Emanuele III raccolse documentazione fotografica pubblicata su concessione della Principessa Maria Gabriella di Savoia in “Il Parlamento italiano”, edito sotto l'alto patronato del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, cattolico liberale fedele al Risorgimento.

 

Resistere, resistere, resistere

La riscossa costò risorse e vite umane. Al di là di circoscritti cedimenti per viltà, deplorati nel “Bollettino” del 28 ottobre, di circa 300.000 militari caduti prigionieri, 400.000 sbandati e l'abbandono forzato di copioso materiale bellico, la ritirata dall'Isonzo al Piave fu attuata secondo piani da tempo predisposti dal Comandante Supremo, Luigi Cadorna. La difesa, imperniata sul Monte Grappa (“Tu sei la mia Patria...” fu tra i canti di guerra più popolari), debitamente fortificato sino a risultare un’imprendibile Rocca di Gibilterra affacciata in posizione strategica sulla pianura, resse grazie al sacrificio consapevole di singoli reparti e di intere brigate (tra le altre spiccò la “Bologna” : ne ha scritto Carlo Felice Prencipe, ed. Mursia), che accettarono di battersi sino all'ultimo uomo. La parola d'ordine era “Resistere, resistere, resistere”. L'Italia ce la fece. Le bocche da fuoco perdute durante l'arretramento del fronte dall'Isonzo al Piave, in massima parte vetuste, furono sostituite con cannoni e mitragliatrici efficienti. L'aviazione, nata come “cavalleria volante”, con incursioni nel territorio occupato dal nemico e inseguimento in caso di successo, compì un balzo prima inimmaginabile, anche grazie alla dedizione di campioni quale Francesco Baracca. Ma l'industria bellica si era messa all'opera con larghissimo anticipo rispetto alla “politica” e a spese proprie, quando sin dal 1913 il groviglio delle “guerre balcaniche” fece percepire che il conflitto generale era sull'orizzonte e non si sarebbe chiuso con un paio di battaglie, a differenza di quanto era accaduto nel 1866 e nel 1870-1871. Tra i migliori “tecnici” la Ansaldo di Genova annoverò Federico Giolitti, figlio dello statista, uno scienziato da premio Nobel. Lo scontro non era tra “eserciti” ma tra interi popoli, forti delle loro risorse interne e di quelle degli imperi coloniali. L'Italia aveva poche colonie, tutte povere di materie prime (del petrolio libico in Italia nessuno sapeva nulla) e dipendenti dagli aiuti di Roma, senza contropartite positive. Come spiegò Cadorna, l'Italia avrebbe “riconquistato la Libia sul Carso”. Ai più avveduti era chiaro che cosa sarebbe accaduto in caso di una seconda battaglia perduta: gli Austriaci a Milano e i francesi sul Ticino, come ai tempi delle guerre tra Carlo V d'Asburgo e Francesco I di Francia. La lotta per la salvezza contò sullo sforzo gigantesco della macchina produttiva, sul “fronte interno”, sui prestiti nazionali e sull'indebitamento galoppante: il debito pubblico schizzò da 13 miliardi (contratti dal 1861 al 1913) a oltre 90 miliardi. In quelle condizioni, vincere sul campo era indispensabile ma non sarebbe bastato ad assicurare la piena e durevole sovranità, che è una variabile dell'indipendenza economica e finanziaria.

Altrettanto determinante fu l'impegno bellico nella “città militare”, estesa dalle retrovie alle trincee, alle vette alpine, teatro di guerra nel durissimo inverno 1917-1918, condotta senza quartiere come documenta, tra altri, Diego Leoni in La guerra verticale (ed. Einaudi). Contrariamente a quanto asserito da una diffusa leggenda, durante la “battaglia di arresto” chiusa a dicembre con la definitiva rinuncia degli “austriaci” a proseguire l'offensiva oltre il Piave, Armando Diaz, nominato Comandante Supremo il 9 novembre e fiancheggiato da Gaetano Giardino e da Pietro Badoglio, operò nel solco del predecessore, anche nell'applicazione dei codici militari, come documentano le statistiche sulle punizioni, pubblicate dall'Inchiesta sugli avvenimenti dall'Isonzo al Piave, 24 ottobre-9 novembre 1917, ristampata in edizione anastatica nel 2014 con prefazioni di Antonino Zarcone e di un collaboratore dell'US-SME, nota come “Inchiesta su Caporetto”.

 

Il Re, gli italiani, la Vittoria

Perno della resistenza fu Vittorio Emanuele III. Accettata la sostituzione di Cadorna, chiesta da Vittorio Emanuele Orlando quale condizione per assumere la presidenza del Consiglio in successione al vetusto Paolo Boselli, il Re mostrò il suo primato alla guida dell'Italia  l'8 novembre 1917 nell'incontro di Peschiera con i plenipotenziari degli Stati alleati: Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. La Russia era ormai travolta dalle Rivoluzioni che vi si susseguivano sino a quella bolscevica, capitanata da Lenin, che consentirono ai tedeschi di spostare le loro armate dal fronte orientale a quello occidentale e in soccorso all'Austria, anche con reparti di élite come i Cacciatori alpini tra le cui fila emerse il giovane Erwin Rommel.

Pur con la riduzione del fronte di centinaia di chilometri e il potenziamento della difesa, i caduti italiani rimasero elevatissimi, come ricorda Oreste Bovio nella sua esemplare Storia dell'Esercito italiano. Fermata l'ultima offensiva nemica nella “Battaglia del Solstizio” (giugno 1918), Diaz preparò accuratamente la riscossa. Pressato dagli Alleati che premevano per un 'offensiva italiana in funzione di alleggerimento sul loro fronte, Orlando si spinse a intimare a Diaz di attaccare, perché la stasi era peggio di una sconfitta. A differenza di Vittorio Emanuele III e di Diaz, il facondo presidente non capiva che una seconda batosta sarebbe stata definitiva. Quando il 26 ottobre l'esercito italiano iniziò l'avanzata lo fece per vincere. In una settimana gli austriaci volsero le spalle e si rassegnarono a chiedere l'armistizio. L'impero era nel caos. Malgrado gli estremi tentativi di Carlo d'Asburgo di salvare la corona con concessioni alle nazionalità per secoli ignorate, si stava sfarinando. Alla fame si aggiunsero le insorgenze. Come nella biografia di Diaz documentò il generale Gratton, nello strumento di resa l'Italia fece inserire il diritto di attraversare in armi il territorio nemico, in direzione della Germania, il cui nuovo governo, dopo la fuga del kaiser Guglielmo II in Olanda, si piegò firmando l'armistizio a Compiègne. In qualunque altro Paese una battaglia come quella vinta dagli italiani a Vittorio Veneto verrebbe ricordata perpetuamente nella toponomastica, come Roma e il Venti Settembre…

 

Eclissi d'Europa

La Grande Guerra (da europea divenuta mondiale con l'intervento degli Stati Uniti d'America, scesi frettolosamente in campo tre settimane dopo il crollo dello zar Nicola II) lasciò sul terreno i quattro imperi di Russia, Austria-Ungheria, Germania e turco-ottomano. La moltiplicazione degli Stati, talora minuscoli (come quelli baltici) o artificiosi (la Ceco-Slovacchia e il regno serbo-croato-sloveno), gettò le premesse per l'instabilità dell'Europa. Le lunghe e aggrovigliate trattative di pace posero le basi del revisionismo, del neo-nazionalismo fanatico, intossicato dal mito del “complotto” e del “tradimento” ispiratore del delirante Mein Kampf di Adolfo Hitler. Seguì la ripresa delle ostilità tra i popoli sino alla seconda fase della nuova Guerra dei Trent'anni che tra il 1914 e il 1945 con suggestiva coincidenza ripeté quella di tre secoli prima (1618-1648), causando la tuttora perdurante eclissi dell'Europa nel quadro planetario.

La “repubblicanizzazione” dell'Europa centro-orientale, acutamente descritta da François Fejto nell'insuperato Requiem per un'Europa defunta, segnò una svolta, le cui conseguenze graveranno a tempo indeterminato perché il vuoto lasciato dal marx-leninismo, dallo stalinismo e dal crollo del predominio russo sull'Europa centro-orientale è stato riempito da nuove ideologie, compresa la pseudocultura “verde”, impastata di visioni anti-scientifiche e da fanciullesche fiabe paleonaturalistiche.

Anche i governi degli Stati vincitori uscirono indeboliti dal conflitto. La Gran Bretagna fu a lungo teatro di scioperi al cui confronto impallidiscono quelli susseguitisi in Italia nel “biennio rosso”. Altrettanto avvenne in Francia. Gli Stati Uniti invece si ritrassero, rifiutando di far parte della Lega delle Nazioni (modesta invenzione del presidente Wilson, scopiazzata dalla ben più lungimirante Società delle Nazioni prospettata dal congresso delle massonerie a Parigi il 28-30 giugno 1917), benché lo statuto della Lega (comprendente la “dottrina Monroe”) fosse stato bizzarramente imposto quale premessa al testo delle cinque paci dettate ai vinti (Versailles, Saint-Germain, Neuilly, Trianon, Sèvres) tra il 28 giugno 1919 e il 10 agosto 1920 (non in quella di Losanna che il 24 luglio 1923 ratificò la dissoluzione dell'impero turco a beneficio di Francia e Gran Bretagna).

 

Il Patto tra Istituzioni e cittadini...

Il riconoscimento del sacrificio sofferto dai popoli nel corso della guerra non fu retorica ma necessità filosofica e storica. Certa “politica” però intralciò e rischiò di oscurare l'orizzonte.        

Per motivi diversi e calcoli opportunistici di notabili che misero le proprie ambizioni al di sopra del Paese venne lasciata libera stura a campagne di opinione contro i vertici militari, il servizio di leva e, “salendo per li rami”, le istituzioni supreme, in un crescendo di tensioni e disordini che infine divennero guerra civile a bassa intensità tra opposte fazioni in gran parte eterodirette. Pesò l'assuefazione alla violenza inoculata dall'esperienza di guerra di molti ex combattenti spaesati.

La rivendicazione della vera Italia fu opera del Re e del settantottenne Giolitti, tornato presidente del Consiglio e deciso a ripristinare l’ordine e a riequilibrare il bilancio con l'eliminazione degli sperperi. Il risanamento della pubblica amministrazione, a ogni livello, si accompagnò a quello della “coscienza nazionale”, con Benedetto Croce alla Pubblica istruzione. Di lì la valorizzazione della partecipazione delle “popolazioni italiane” alla Vittoria. Come in altri Stati, venne decisa la tumulazione in Roma della Salma del Soldato Ignoto, simbolo della miriade di caduti non identificati: non per contrapposizione del “fante” alle gerarchie (come altri avevano polemicamente proposto) ma quale conferma dell'unità nazionale nell'ora del bisogno, del Patto tra Corona e cittadini. La Festa delle bandiere del novembre 1920 precorse la Tumulazione del Milite Ignoto il 4 novembre 1921, terzo anniversario della Vittoria.

 

Da Aquileja all'Altare della Patria: Silenzio e rullo funebre di tamburi

L'“Operazione” fu complessa e studiata in ogni particolare. Quando si passò dalle ipotesi alla realtà, i suoi primi passi furono compiuti nel più rigoroso segreto. Tra la miriade di cadaveri occorreva sceglierne undici dagli altrettanti teatri di battaglie ove si fossero battuti fanti (dei quali facevano parte gli aviatori) e marinai. Perché quel riserbo assoluto? A distanza di tempo non tutti lo comprendono di primo acchito, come non l’hanno compreso per altre circostanze, quasi cent'anni dopo, come ricorda il prestigioso Annuario della Nobiltà Italiana curato da Andrea Borella. In un Paese lacerato com’era allora l'Italia, anche un solo grido, un fischio, un insulto nel corso dei Rituali avrebbe deturpato la memoria di tutti i caduti, noti o ignoti, dei loro famigliari, amici e conoscenti, dell'Italia intera. Le Salme andavano accolte nel Silenzio. Non è facile capirlo oggi giorno, quando ai funerali si applaude. Ricalcando l'età di Roma, gli statuti medievali vietavano persino di piangere alle esequie. Chi non se la sentiva, doveva astenersi dal parteciparvi. In quell'Italia avvenne il “miracolo”. Undici Salme furono raccolte dinnanzi all'altare della Basilica Patriarcale di Aquileja, presenti il ministro della Guerra, Luigi Gasparotto, e l'ex comandante della III Armata, Emanuele Filiberto duca di Aosta.

Scelta da Maria Bergamas, madre di un patriota accorso in difesa dell'Italia comprendente la sua terra irredenta, la Salma venne recata a Roma in treno appositamente allestito. Il seguito è noto. Con rare eccezioni polemiche strumentali di accalappiavoti, l'Italia partecipò unanime, emotivamente coinvolta.

Il Milite Ignoto era la “vox clamantis in deserto”: un appello alla concordia e all'unità in un'Europa dilaniata, necessario allora come oggi. Quale messaggio manda in questo Equinozio d'Autunno 2021? Chi lo ascolta? Chi lo traduce?

La Voce del Re Sacerdote

Manca l'altra voce: quella di Vittorio Emanuele III, che fu il regista non occulto della più grande sacra rappresentazione dell'Italia dal 1861 a oggi: la Tumulazione dell'“Ignoto Soldato” dinnanzi al Sacello della Dea Roma all'Altare della Patria, originariamente concepito quale sepolcro dei Re d'Italia provvisoriamente deposti al Pantheon.

Fu il Re a celebrare il Rito. La mattina del 2 novembre precedette solitario il corteo funebre che seguì il Feretro dalla Stazione Termini alla Basilica di Santa Maria degli Angeli. Il 4 attese all'Altare della Patria l'arrivo del Milite, decorato di Medaglia d'Oro al Valor Militare, e gli rese gli onori militari, mentre i tamburi rullavano con i cordoni abbassati su sua disposizione, in segno di lutto come per i funerali della Casa. Il Capo dello Stato e il Milite  Ignoto erano tutt'uno.

Non si può ricordare il 4 novembre di cent'anni orsono dimenticando Vittorio Emanuele III. Quel giorno la quasi totalità degli italiani lo sentì Pater Familias della Nuova Italia, degli ideali universali di indipendenza, unità e libertà che avevano ispirato il Risorgimento, senza il quale gli italiani sarebbero rimasti “volgo disperso che nome non ha”. Come tanti dall'estero volevano e vorrebbero fosse.

 

Aldo A. Mola

 


 

A Vicoforte memoria del Milite Ignoto

 

Non mancano iniziative memoriali per riproporre all'attenzione il significato profondo della Tumulazione del Milite Ignoto all'Altare della Patria il 4 novembre di cent'anni orsono. Il 26 settembre è tornato ad Aquileja il Tricolore che il 28 ottobre 1921 avvolse la sua bara nel lungo, lento viaggio sino alla Città Eterna. Molti Comuni gli hanno tributato la Cittadinanza onoraria.

Fresco di stampa è in libreria il volume “Il Milite Ignoto alle radici dell'identità italiana”, curato da Silvio Bolognini, direttore CE.DI.S. Università eCampus (ed. Mimesis). Comprende venti saggi che sottolineano la valenza simbolica del sacrificio quale archetipo della carducciana “itala gente da le molte vite”. Gli autori conducono dall'Oriente Antico all'attualità e coprono l'assordante silenzio dell'“accademia” per ora poco sensibile alla rievocazione di un momento fondamentale della storia d'Italia.

Sabato 9 ottobre si svolge a Vicoforte (Cuneo) il convegno su “Il re Soldato per il Milite Ignoto. La riscossa della monarchia statutaria (1919-1921)”. Si apre alle 10 con la visita alle Tombe di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. Intervengono, tra altri, Giuseppe Catenacci, presidente dell'Associazione Nazionale ex Allievi della Nunziatella, Carlo Cadorna, GianPaolo Ferraioli, Dario Fertilio, Luca G. Manenti, Tito Lucrezio Rizzo, Aldo G. Ricci, Giorgio Sangiorgi, i generali Antonio Zerrillo e Giorgio Blais, Carlo M. Braghero e Alessandro Mella. I lavori del convegno, promosso dall'Associazione di studi storici Giovanni Giolitti e dalla Consulta dei Senatori del Regno, con l'egida del Comando Regionale Esercito Piemonte e di altre Istituzioni, proseguono nell'Aula Beata Paola della Casa Regina Montis Regalis (attigua al Santuario).

Il 13-14 ottobre l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito organizza a Roma (Scuola Ufficiali Carabinieri) il convegno su “Il Milite Ignoto: sacrificio del cittadino in armi per il bene superiore della nazione”.