di Aldo A. Mola
Un impero di soli cinque
anni
Nascita e crollo dell'Impero
coloniale italiano sono sintetizzati in tre date. Il 5 maggio 1936 le truppe
comandate da Pietro Badoglio entrarono in Addis Abeba, capitale dell'Etiopia.
Tre giorni prima l'imperatore Hailè Selassiè (1892-1975, cristiano
copto), l'aveva lasciata. Sotto tutela inglese, non accettò la sconfitta e
costituì un governo in esilio. Il 9 maggio Benito Mussolini annunciò
l'istituzione dell'Impero, in capo a Vittorio Emanuele III Re d'Italia. Il 5
maggio 1941 Hailè Selassiè rientrò in Addis Abeba, con l'appoggio dei
britannici. Pochi giorni dopo, prima, il 17 maggio, questi ottennero la resa (con gli onori delle armi) degli
italiani da un mese asserragliati sull'Amba Alagi agli ordini del viceré
d'Etiopia, Amedeo di Savoia, III Duca di Aosta, deportato in un campo di
concentramento in Kenia, ove morì. Una “parabola”, la sua, ripercorsa da Dino
Ramella in “Il Duca d'Aosta e gli Italiani in Africa Orientale” (ed. Daniela
Piazza).
Il cammino dell'Italia sulla via dell'Impero
fu segmentato. L'11-14 aprile 1935 si svolse a Stresa, sul Lago Maggiore, la
conferenza diplomatica anglo-franco-italiana. Occorreva arginare l'aggressività
della Germania. Hitler, forte dei pieni poteri dopo la morte di Hindenburg (2
agosto 1934), era deciso a realizzare la “grande Germania”: annessione
dell'Austria e avocazione dei germanofoni assegnati dai Trattati di pace
(Versailles e Saint-Germain, 28 giugno e 10 settembre 1919) a Stati sorti dalla
dissoluzione degli imperi germanico e austro-ungarico. Per la Francia il
revanscismo tedesco faceva intravvedere la rivendicazione dell'Alsazia e della
Lorena e altro ancora: una guerra secolare.
Un percorso sinuoso
Dopo reciproci atti ostili e
tentativi di mediazione da parte della Società delle Nazioni (SdN, con sede a
Ginevra), il 3 ottobre 1935 il governo di Roma dichiarò guerra all'imperatore
d'Etiopia, “cugino del re” da quando Vittorio Emanuele III gli aveva conferito
il Collare dell'Annunziata. Poiché l'Etiopia, uno dei rari Stati africani
indipendenti, era membro della Società, ne ottenne la solidarietà. Il 10
ottobre la SdN deliberò sanzioni economiche contro l'Italia a decorrere dal 18
novembre. In previsione il governo di Roma aveva attivato linee di rifornimento
delle materie prime indispensabili per la produzione industriale e per
l'approvvigionamento alimentare, ancora lontano dall'autosufficienza malgrado
dieci di anni di “battaglia del grano”.
L'“assedio delle Nazioni”, come le sanzioni
furono dette, fornì a Mussolini il destro per una gigantesca campagna
d'opinione a sostegno del regime, identificato con lo Stato. La raccolta
dell'“oro alla patria”, ottenne adesione universale, dalla regina Elena ad antifascisti
come Benedetto Croce. Altri avversari del fascismo rientrarono in Italia
dall'esilio, previe trattative con Mussolini. Fu il caso di Arturo Labriola,
già ministro del Lavoro nel V governo Giolitti (1920-1921) e nel 1930-1932 gran
maestro del Grande Oriente d'Italia costituito in Francia.
La proclamazione dell'Impero irritò quasi
tutti i governi europei, la maggior parte dei quali, a cominciare da Gran
Bretagna e Francia da secoli vantava vastissimi domini coloniali. Il re del
minuscolo Belgio dal 1885 possedeva l'immenso Congo. L'Olanda aveva
l'arcipelago delle Indie Orientali. Il Portogallo dominava Angola, Mozambico ed
enclaves in India, di concerto con la Gran Bretagna che aveva propiziato
la restaurazione della sua indipendenza dalla Spagna nel remoto 1640. Spogliata
del vastissimo impero coloniale nell'America centro-meridionale, nel 1898
Madrid aveva perso anche Cuba e le Filippine a beneficio degli Stati Uniti
d'America, ma combatteva per riaffermare il suo dominio sul Marocco. Il
possesso di imperi non costituiva solo una risorsa economica ma anzitutto
un'affermazione politica.
Privata del cospicuo impero coloniale
(Tanganika, Togo, Camerun, Africa del Sud-Ovest...) all'indomani della Grande
Guerra, la Germania non aveva motivo di osteggiare l'espansione italiana
nell'Africa orientale. Poiché incontrava l'ostilità dei franco-britannici
avrebbe costretto Roma ad accostarsi a Berlino, anche senza bisogno delle
convergenze ideologiche affastellate nel 1938 (antisemitismo compreso), premessa
del Patto d'Acciaio.
Le geografia detta la
storia: gli antecedenti
L'impero proclamato il 9
maggio 1936 fu dunque l'ultimo in ordine cronologico tra quelli degli Stati
europei. Nacque sulla scia della politica coloniale avviata dal regno d'Italia
ancor prima dell'inaugurazione del Canale di Suez. Fu la Sinistra Storica,
erede di Mazzini e Garibaldi, a dar corpo all'“impresa”. Lo volesse o meno,
l'Italia era al centro del Mediterraneo per metà ancora turco-ottomano. Una
volta unificata, non poteva tenersi fuori dalla lotta per la spartizione degli
spazi afro-asiatici. A scatenare la gara fu la Francia. Napoleone III allungò
le mani sulla Cocincina ancor prima di sconfiggere l'Austria nella pianura
padana essendo alleato di Vittorio Emanuele II, mentre con la cinica “guerra
dell'oppio” la Gran Bretagna aveva messo le grinfie sul Celeste Impero e
sanguinosamente represso la rivolta degli indiani. Nel 1881 Parigi impose il
protettorato sulla Tunisia, irritando Garibaldi e la Sinistra, incluso il gran
maestro del Grande Oriente d'Italia, Adriano Lemmi. La Francia a Tunisi era
causa immanente di guerra: termine dai giornali modificato in imminente.
Dopo lunghe tergiversazioni Roma varcò il
Rubicone, con lo sbarco a Massaua, sulla costa del Mar Rosso (1885), un anno
dopo l'ingresso dei fanatici seguaci del Mahdi in Khartoum, ove il governatore
Charles George Gordon fu barbaramente assassinato. La costituzione della
colonia di Eritrea (1890, affidata al governatore civile Ferdinando Martini che
ne scrisse in L'Affrica italiana), la conquista della Somalia (elevata a
colonia nel 1907) e quella di Tripolitania e Cirenaica (1911-1912), deliberata
da Vittorio Emanuele III che dettò a Giolitti il calendario delle operazioni,
furono le tappe dell'espansione vaticinata anche da Giuseppe Mazzini per la
realizzazione della “missione civile ” dell'Italia. Il caso della Libia fu
paradigmatico. Non se ne poteva fare a meno se non a rischio di vedersela
sottrarre da altre potenze europee. La dichiarazione della sovranità italiana
su Tripoli e Bengasi chiuse il cerchio di un programma avviato dalla Sinistra
storica con Agostino Depretis (1876-1887) e Francesco Crispi (1887-1891 e
1893-1896), travolto dal disastro del corpo di spedizione comandato da Oreste
Baratieri ad Abba Garima, presso Adua (1° marzo 1896), sbaragliato dal caotico
esercito del negus Menelik: una sconfitta che pesò a lungo sull'opinione
pubblica e sul desiderio di rivincita.
Il programma di Mussolini
Nel discorso pronunciato
all'Augusteo di Roma il 9 novembre 1921 per la fondazione del Partito nazionale
fascista Mussolini percorse rapidamente gli antecedenti della politica estera
italiana e prospettò mete e metodi. A parte la “questione di Fiume”, più in
generale dell'Adriatico e quindi dell'Albania, materia incandescente, ricordò:
“Durante gli ultimi decenni di travaglio nazionale l'Italia ebbe un uomo solo
(…) Parlo di Francesco Crispi. Egli solo seppe proiettare l'Italia nel
Mediterraneo con anima e pensiero imperialistico. Ma quando parlo di
imperialismo non intendo riferirmi a quello prussiano; intendo un imperialismo
economico di espansione commerciale...”. Secondo Dino Grandi il congresso era
“la prefazione di un grande libro” che la generazione successiva avrebbe
scritto. “Il mito deve prepararsi a diventare storia”. La politica estera
sarebbe stata il vero banco di prova del fascismo.
Mentre nel corso della Grande Guerra Luigi
Cadorna aveva affermato che l'Italia avrebbe (ri)conquistato la Libia sul
Carso, Mussolini ritenne che solo la conquista dell'Etiopia avrebbe affermato
l'Italia quale protagonista nel “grande gioco degli imperi” acutamente
analizzato da Giorgio De Rienzo. All'opposto, dai primi mesi dell'intervento in
guerra contro Gran Bretagna e Francia (10 giugno 1940) risultò chiaro che
l'Italia rischiava di perdere il rango di grande potenza proprio perché non era
in grado di difendere l'impero coloniale, a cominciare, appunto dall'Africa
Orientale. Le forze armate avevano bisogno di essere alimentate dalla
madrepatria.
L'ONU e l'amara sorte delle
colonie (1943-1955)
Senza entrare nel merito né
della guerra d'Etiopia (3 ottobre 1935-5 maggio 1936) né delle vicende belliche
concluse con il rientro di Hailè Selassiè in Addis Abeba, merita attenzione la
sorte delle colonie italiane tra la sconfitta dell'estate 1943 e la vigilia
dell'ingresso dell'Italia nell'Organizzazione delle Nazioni Unite, nel 1955. Se
ne parla nel volume XV° di “Il Parlamento Italiano, 1861-1992” (ed. Nuova Cei).
In quel dodicennio i governi italiani brigarono invano per rivendicare le
colonie. Il terzo punto della Carta atlantica (1941), infatti, aveva affermato
che gli Alleati “rispettano il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma
di governo sotto la quale desiderano vivere e intendono che diritti sovrani e
governo autonomo vengano restituiti a coloro che ne sono stati privati con la
forza”. Era il caso dell'Etiopia.
I vincitori non si lasciarono abbagliare
dalla modesta e discussa vittoria repubblicana sulla monarchia il 2-3 giugno
1946 né dalla rivendicazione della cobelligeranza contro i nazi-fascisti e
neppure dalla “guerra partigiana”. L'Italia rimase esclusa dall'ONU. Il
mortificante Trattato di pace imposto a Parigi il 10 febbraio 1947 incluse
esplicitamente la completa rinuncia di Roma a tutti i territori d'Oltremare,
quali ne fossero l'epoca della conquista e lo status. La mancata
sottoscrizione del Trattato da parte dell'URSS aprì uno spiraglio. I governi De
Gasperi archiviarono qualsiasi “nostalgia” di impero, cancellarono tanta parte
della storia recente e antica anche con la “defascistizzazione” dei programmi
scolastici, della toponomastica, dell'intitolazione di istituti ed edifici
pubblici (a imitazione del precedente regime), ma non poterono ignorare le
sorti dei militari ancora prigionieri e degli italiani ammassati in campi “per
profughi”. Il 16 settembre 1947, quando il Trattato di pace entrò in vigore, De
Gasperi fece sentire la sua “voce accorata ma ferma anche negli accampamenti
dei profughi dell'Africa e fra gli italiani rimasti nelle antiche colonie, che
furono rinnovate economicamente ed elevate a civiltà dal tenace lavoro e dal
duttile ingegno dei nostri colonizzatori”. Auspicò che “a nome di tutti”
l'Italia potesse continuare la sua opera “onde preparare i popoli nativi
all'autogoverno”. Quei “tutti” erano i diciotto Stati vincitori, tra i quali
figuravano l'Ucraina e la Bierlorussia.
Il 25 marzo 1948, alla vigilia delle elezioni
che sancirono la vittoria della Democrazia cristiana sul Fronte popolare
social-comunista, per confutare l'accusa che l'URSS fosse il principale
ostacolo al riconoscimento del ruolo dell'Italia Oltremare il segretario del
PCI, Palmiro Togliatti, chiese che la Gran Bretagna mostrasse la sua amicizia
verso l'Italia non sulla questione (per lui imbarazzante) del confine italo-jugoslavo
ma dichiarando “di essere d'accordo che rimangano all'Italia le sue vecchie
colonie”.
Malgrado le denunce di neocolonialismo
lanciate da Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Riccardo Lombardi e altri,
l'apposita Commissione quadripartita delle Grandi Potenze incaricata di
verificare le condizioni delle ex colonie italiane concluse che le loro
popolazioni rivelavano grave carenza di preparazione politica e assoluta
dipendenza sul piano economico. Perciò andavano “assistite” da un Paese in grado
di promuoverne lo sviluppo. Chi meglio dell'Italia, che vi aveva profuso
capitali e posto radici profonde più di quanto avessero fatto altri Stati
europei nei loro domini afro-asiatici? Ministro degli Esteri nell'ult governo
Giolitti (1920-1921) e nuovamente con De Gasperi, Carlo Sforza propose di
affidare l'Eritrea a un mandato collettivo europeo (anche per sottrarla alle
mire plurisecolari dell'Etiopia) e di erigere la Tripolitania a Stato
indipendente ma unito all'Italia da “atto contrattuale”. La necessità di tenere
sotto controllo la “quarta sponda” aveva una motivazione che andava molto oltre
gli interessi nazionali esclusivi di Roma. In caso di aggressione dell'Europa
centro-occidentale da parte dell'Urss la Libia sarebbe stata la base per la
riorganizzazione delle forze armate, come lo era stata l'Africa
nord-occidentale nel 1942-1943 per l'offensiva contro l'Asse italo-germanico.
In pochi anni la “guerra fredda” mutò gli scenari planetari, a vantaggio
dell'Italia che, per iniziativa di Vittorio Emanuele III e di Badoglio, si era
arresa agli anglo-americani: i nemici più “comprensivi”, garanti della sua
integrità territoriale.
Il 5-6 maggio 1949 Sforza concordò con il
ministro degli Esteri britannico Ernest
Bevin la tripartizione della Libia sotto una guida comune
anglo-franco-italiana, la divisione dell'Eritrea tra Etiopia e Sudan (inglese)
e l'assegnazione della Somalia all'Italia in amministrazione fiduciaria su
mandato dell'ONU. L'Assemblea generale però il 17 maggio respinse il piano con
un solo voto di scarto: precisamente quello di Haiti, che non era una grande
potenza.
Il 21 novembre 1949 andarono deluse le
speranze del governo De Gasperi, comprendente democristiani, socialdemocratici
(con Giuseppe Saragat vicepresidente), repubblicani (l'atlantista Randolfo
Pacciardi alla Difesa) e liberali (Porzio vicepresidente, dopo l'elezione di
Einaudi alla presidenza della Repubblica). L'Assemblea dell'ONU con 49 voti
favorevoli e nove astenuti raccomandò di elevare la Libia a Stato sovrano entro
il 1° gennaio 1952 e di affidare la Somalia in amministrazione fiduciaria
all'Italia per la durata di dieci anni sotto la sorveglianza di un Consiglio
formato da Egitto, Colombia e Filippine, tre Stati dal non specchiatissimo
abito civile. A Mogadiscio l'11 gennaio dell'anno precedente si erano
verificati “gravissimi incidenti” nell'inerzia della British Military
Administration: 52 italiani vennero linciati e moltissimi altri feriti da parte
dei “Giovani Somali”. Ne hanno scritto
Annalisa Urbano e Antonio Varsori in “Mogadiscio 1948. Un eccidio di
italiani fra decolonizzazione e guerra fredda” (il Mulino). Per assicurarvi
l'ordine pubblico Pacciardi chiese di inviare un corpo di 6500 militari ma De
Gasperi gli osservò che a suo tempo il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi
l'aveva governata in piena sicurezza con soli 4271 uomini, comprendenti appena
71 italiani, pochi ma sufficienti.
Episodi altrettanto funesti si erano
verificati in Libia, ove il 4 e 7 novembre 1945 la comunità ebraica fu vittima
di un massacro a opera di islamici fanatici: circa 140 vittime, incendio di
sinagoghe, violenze ai danni di donne sposate e adolescenti. I “liberatori” non
garantirono agli ebrei la tranquillità assicurata dal governatore Italo Balbo,
il quadrumviro massone nettamente contrario alle leggi antisemite. Anche
l'Eritrea fu teatro dell'assassinio di alcuni italiani. Il 25 novembre 1949
essa venne “federata” con l'Etiopia sotto la corona del negus che ebbe
il controllo di esteri, difesa, moneta, finanze, commercio e comunicazioni. In
tal modo l'Italia perse definitivamente ogni legame con la sua prima colonia,
come del resto previsto dal Trattato di pace del 10 febbraio 1947. I suoi
articoli 23, 33 e seguenti dettarono gli obblighi di Roma nei confronti
dell'Etiopia. Il paragrafo 1 dell'allegato XIV del Trattato tagliò netto:
l'Italia rinunciava a “rivendicare qualsiasi interesse speciale o qualsiasi
influenza particolare in Etiopia”. In forza dell'articolo 37 Roma era tenuta a
restituire “tutte le opere d'arte, tutti gli oggetti religiosi, gli archivi e
gli oggetti di valore storico appartenenti all'Etiopia o a suoi cittadini,
asportati dall'Etiopia dopo il 3 ottobre 1935” e a pagare l'astronomica
indennità di 185 milioni di sterline, ridotti a 6,25 milioni dopo un negoziato
durato dieci anni.
La parabola dell'Impero
La formazione del dominio
coloniale italiano (nominalmente impero per la durata di appena un quinquennio)
non fu frutto di improvvisazione ma di una visione politica di lungo periodo.
Essa però venne drasticamente rimossa dalla memoria, quasi costituisse una
vergogna, una macchia indelebile. Del tutto estrapolata dal contesto storico,
rimase ai margini dell'attenzione storiografica, a parte opere polemiche (come
quelle di Angelo Del Boca) che ne denunciarono gli aspetti più cruenti quasi
siano stati gli unici avvenuti nel corso dell'espansione coloniale europea e
degli imperialismi di Giappone, Cina e Urss. Paradossalmente si contano più
opere di condanna del colonialismo italiano (ultimo venuto, anacronistico, ecc.)
che sulla decolonizzazione di cui furono protagonisti Francia, Gran Bretagna,
Olanda e Belgio. Motivo in più per tornare a riflettere sulla politica estera
dell'Italia prima e dopo quel Trattato di pace che proietta la sua ombra lunga
anche sull'Italia odierna, bisognosa di recuperare il “senso della Storia”,
tutt'uno con quello “dello Stato”.
Aldo A. Mola
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