NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 30 gennaio 2022

Capitolo XLV: La morte della madre e l’incontro con il Presidente degli Stati Uniti d’America


di Emilio Del Bel Belluz

 

Nel 1947 Carnera si trovava da un anno in America, la sua vita era sempre più frenetica, passava da un incontro di lotta libera all’altro. Il grande amico Aldo Spoldi lo accompagnava come un’ ombra. La gente lo amava, si identificava in lui, e i suoi tifosi più  fedeli erano gli italo-americani che lo seguivano in ogni occasione. Quando Carnera riusciva a scappare dalle grinfie di  Spoldi, che non  lo mollava mai, gli capitava di essere ospitato da qualche italiano. Nelle case di costoro ritrovava il sorriso, e gli pareva d’essere in famiglia. Riusciva a dimenticare la solitudine che lo assaliva nelle camere d’albergo. Vi trovava esposta  la bandiera del Re  con lo stemma Sabaudo. 

Erano dispiaciuti che il Re avesse dovuto lasciare il Paese, condividevano il dolore di essere emigrati in un Paese straniero. Carnera spesso aveva parlato della sua amicizia che aveva con il sovrano, del loro incontro e della gentilezza che aveva dimostrato nei suoi confronti.  Primo si sentiva anche lui in esilio, e gli mancava la famiglia. Carnera scriveva a casa spesso e in ogni posto dove andava a combattere inviava una cartolina ai familiari: un segno per far capire che li pensava. Aldo Spoldi gli era sempre vicino, provvedeva a ogni bisogno,  e sapeva ormai tutto del suo amico. Ogni tanto si vedeva con Philip  la Barba, che non mancava mai di fargli visita quando era in quelle zone. L’America lo aveva salvato dalla disperazione e dalla paura del domani. Carnera accumulava denaro più che poteva. In quel  periodo gli giunse la terribile notizia della morte della mamma, comunicatagli da Aldo. Quella sera Carnera doveva combattere in una riunione importante, non poteva mancare, ma disse subito al suo amico Spoldi che sarebbe ritornato in Italia per assistere ai funerali della madre.  Carnera quella notte pianse, come non aveva mai fatto in vita sua.

La madre era stata la persona che gli aveva dato tutto l’amore che una donna possa dare ad un figlio, e si sacrificò moltissimo per tutta la famiglia. Arrivò a Sequals giusto in tempo per assistere al  funerale. Si unì al dolore dei suoi cari per la scomparsa della madre.  Il giorno del funerale sembrava strano vedere un grande uomo, un colosso, con le lacrime agli occhi. Carnera aveva il cuore affranto, lo consolava l’affetto di coloro  che lo conoscevano. Al funerale la gente gli si strinse attorno per manifestargli la loro vicinanza. Carnera passò solo pochi giorni in famiglia perché doveva ritornare subito in America. Quei giorni che trascorse con i suoi furono un balsamo per le sue ferite. Pina era ancora più bella, e i bambini si stringevano al collo del loro papà per consolarlo.  La sera prima di partire, parlò con Pina del desiderio che potessero vivere tutti assieme in America e che avrebbe compiuto tanti sacrifici perché ciò si avverasse. 

La famiglia era la cosa più  bella che un uomo potesse avere. Carnera ritornato in America riprese la via del ring, combatteva ogni giorno, ogni incontro lo avvicinava alla meta che si era prefisso: stare assieme ai suoi familiari. Una sera particolarmente triste, fu invitato a casa d’amici e dopo cena si mise a suonare la fisarmonica, uno strumento che amava molto e le cui melodie accompagnate dalla sua voce tenorile e da quella dei presenti riuscivano a rincuorarlo. Alla fine suonò la Marcia reale per ricordare la sua cara patria.  Aldo Spoldi, nel suo libro - Io e Primo- La vita de il gigante buono-  racconta: “ Un altro curioso avvenimento si verifica nel 1947. Ci trovavamo nel New Jersey e precisamente nella città di Newark, dove Primo doveva incontrare in serata un ex pugile chiamato “barile di birra”e precisamente Tony Galento. Stiamo entrando nello stadio. Il solito gruppo di appassionati attende Carnera per l’autografo. Mentre Primo ne sta firmando una certa quantità, un signore distinto porge la mano a Primo e gli rivolge un cordialissimo saluto: “ Rammenti, Primo molti anni fa, qui in Newark, quando eri campione del mondo?”. - Mah!- Risponde Primo. Poi, per rimediare, soggiunge : - Altroché, si che mi ricordo … Ti vedo bene, Primo. Tanti auguri! Come era da aspettarsi, Primo mi chiede: “ Mi potresti dire chi era quel signore?”. -Io lo conosco - Rispondo- Ma tu lo ricordi? – No! Replica franco, il sincero Primo. -Quello é il sentore Hartley, rappresentate al Senato dello Stato del New Jersey. - Davvero ? - Dice Primo. Senza  frapporre indugio, prontamente ad alta voce egli richiama il senatore e, avvicinandosi a lui gli porge le sue scuse per non averlo ben riconosciuto. Ora , si, gli può anche rammentare che, quando Primo era campione del mondo, Hartley era presidente della Commissione di Boxe di quello Stato. - Dovrebbe farmi un grande favore, senatore - continua Carnera, Lei dovrebbe cortesemente interessarsi per farmi  entrare definitivamente negli Stati  Uniti, con la possibilità che diventino cittadini americani anche mia moglie  e i due miei figlioli. – Con ogni gentilezza, il senatore invita Primo ad andarlo a trovare quando sarà di passaggio nella Capitale, cioè Washington; in attesa di quella visita si informerà a mezzo del suo segretario per conoscere la procedura da seguire per venire incontro al desiderio di Carnera. Passano due o tre settimane, e siamo nel territorio di Washington. Abbiamo si e no avuto il tempo di depositare le nostre valige   all’Hotel Book-Caddilac, che Primo di corsa m’afferra per il braccio ed esclama: “ Andiamo alla Casa Bianca a trovare il senatore Hartley e sentire se ha potuto fare qualcosa per la mia famiglia”.   Andiamo alla White House. Lì c’è il Senato di una nazione democratica, per cui non è difficile entrare e chiedere del senatore che rappresenta lo Sato del New Jersey. E’ altrettanto facile trovare il suo ufficio… Cerchiamo l’insegna del New Jersey, ed entriamo. Uno dei segretari di Mr.  Hartley ci prega di attendere perché il sentore si trova in conferenza col presidente Truman nella piccola Sala del Consiglio. Passano i minuti. Dopo quasi un’ ora, Primo si spazientisce, anche perché doveva cenare più presto del solito: alle ore 21 era impegnato a lottare con Tony Galento,  il “ barile pieno di birra”.

Trascorrono altri venti minuti e Primo chiede al segretario di chiamare il sentore, oppure di fargli sapere che è lì ad attenderlo. Il segretario risponde che non può fare niente. Allora, perduto completamente il controllo, non senza gentilezza, ma con energia, Primo prende per il braccio il segretario e, conducendolo fuori dall’ufficio, gli impone di avvicinare il senatore e di informarlo della sua presenza. Ci troviamo così davanti alla porta della sala dove è in corso il piccolo Consiglio. L’usciere si fa avanti, mentre il segretario spiega il desiderio di Primo. Era logico che tutto dovesse essere inutile, giacché il piccolo Consiglio era radunato con il Presidente e non era possibile disturbare. Primo, però, sempre gentilmente, ma più che mai deciso, apre la porta che immette nella sala del Consiglio e vi spinge dentro il segretario. Carnera resta dietro l’uscio, in attesa del risultato. Quel che è avvenuto nella sala, si può immaginare.

 Il fatto é che pochi minuti dopo, la porta si riapre ed appare il senatore Hartley. Questi ci accoglie, Primo ed io, con sincero entusiasmo. In pari tempo, dietro di lui esce il presidente Truman seguito da altri senatori. A questo punto, Carnera viene presentato al presidente Truman. Avviene quel che sempre avviene: e cioè che Truman si dice impressionato dalle mani enormi di Primo. Il nostro gigante, come abitualmente gli accade quando la persona gli è gradita, chiude la mano del presidente tra le sue mani, con un gesto largo e rumoroso, ma innocuo, anzi affettuoso. Per il presidente Truman, è stato come se avesse appreso d’essere rieletto per un altro quadriennio. Gioiva al solo guardare Primo dal basso in alto, e gioì quando Primo, sempre con gesti vistosi ma gentilissimi, finse di dare un manrovescio allo stomaco del Presidente, sfiorando però delicatamente il bottone della giacca. Non credo che mai Harry Truman sia stato tanto contento, quando gli è stato presentato un atleta, come lo è stato con Primo Carnera. Anche per gli altri senatori lì presenti deve essersi trattato di un momento  piacevole e memorabile, perché Primo fu veramente spassoso ed allegro nella breve conversazione con ciascuno dei presenti. Fra l’atro dirò che il sentore Hartley riuscì poi ad ottenere che l’intera famiglia di Primo entrasse  negli Stati Uniti. Lui, la moglie e i figli, divennero cittadini americani. Nella vita di Primo si verificarono molti altri fatti curiosi ed umoristici, come quelli ora narrati”. Carnera dovette attendere oltre un anno per poter ricongiungersi con la famiglia. Quando Primo si ritirava nella triste stanza d’albergo, il momento più bello era quando scriveva delle lunghe lettere piene d’amore alla cara Pina e delle cartoline ai suoi figli in cui esprimeva il grande affetto per loro. Sperava che venissero mostrate ai loro compagni di classe per portarli a conoscenza delle tante città che il loro padre visitava.

 Anche Carnera  riceveva delle lettere da Pina a cui accludeva dei disegni dei figli e veniva sempre aggiornato sui loro progressi scolastici.  Carnera considerava  lo studio essenziale per il futuro dei figli, e lui ne era ben a conoscenza, non avendo potuto studiare. Questo veniva confermato ogni volta che sentiva parlare una persona istruita, perché usava un linguaggio forbito. Un esempio era il suo avvocato che sapeva conversare in modo appropriato di ogni argomento. Costui  lo aveva difeso in modo impeccabile ed era diventato un suo amico. Primo desiderava che i suoi figli diventassero avvocati o medici: professioni che erano degne di rispetto e stima. Carnera aveva girato il mondo per lungo e per largo, aveva acquisito tante esperienze, ma l’istruzione gli mancava. Cercava di ovviare a questa mancanza, leggendo i quotidiani e dei libri. In quel periodo voleva molto bene al suo angelo custode: Aldo Spoldi, degno di massima stima, che lo accompagnava in ogni posto, e lo tranquillizzava. Con lui parlava dell’Italia, una terra che mancava a tutti e due. Aldo sentiva la sua stessa nostalgia, anche se da anni si trovava in America dove aveva combattuto a lungo. Una vita che gli aveva dato delle grosse soddisfazioni, ma che non poteva colmare la nostalgia per il suo Paese natio. Nei tanti posti in cui andavano a combattere, Aldo e Primo cercavano sempre di alloggiare dove c’erano degli italiani.

Quando si è all’estero la lontananza è davvero un peso, ma stare con qualcuno che parla la tua stessa lingua è davvero molto importante. La gente italiana che lo vedeva combattere era fiera di lui e lo voleva conoscere, ma in quel caso era Aldo Spoldi che cercava di evitare a Carnera che andasse nelle famiglie di italiani, perché era facile abbuffarsi con ripercussioni negative sul fisico. Carnera aveva superato i quarant’ anni, che per un atleta incominciavano ad essere tanti, ma il suo fisico possente lo aiutava a gareggiare ancora.  Carnera  aspettava il momento in cui sarebbero arrivati in America i suoi figli e la moglie, la cui mancanza era davvero insostenibile. Il suo amico Spoldi gli comunicò la bella notizia che avrebbe svolto dei combattimenti in  Italia, e in Spagna che lo fece  letteralmente fatto impazzire di gioia perché finalmente dopo  tanto tempo avrebbe rivisto la sua famiglia e c’era la possibilità di trascorrere un breve periodo di vacanza a Sequals. Quella stessa sera scrisse alla moglie che  sarebbe arrivato in Italia tra qualche settimana.  I suoi impegni si sarebbero svolti  tra Milano, Torino e  Udine. Giunto in Italia aveva ritrovato tanti amici, e nei suoi combattimenti aveva dato spettacolo contro dei forti avversari che avevano fatto del loro meglio, ma Carnera trionfò su  tutti. L’incontro con Pina avvenne  a Milano, che rappresentava l’ultima tappa in Lombardia. Pina era arrivata in treno con suo cognato. Carnera la vide in albergo e fu un momento che non dimenticherà mai.

L’abbraccio tra i due commosse tutti, tra cui anche Aldo Spoldi.  Anni prima questo abbraccio, sempre a Milano, Carnera lo aveva dato alla mamma. Carnera era felice, gli tremavano le gambe davanti alla moglie, e non smetteva più d’essere affettuoso. La felicità ha breve durata, pertanto va assaporata fino in fondo. Il giorno dopo, avrebbero fatto rientro in Friuli, dove a  Udine si sarebbe esibito in alcuni incontri e poi sarebbe stato libero da ogni impegno agonistico per una settimana.  Appena arrivato nella città di Udine  volle andare subito al Collegio femminile Ucellis, dove si trovava sua figlia Maria Giovanna, e fu per lui molto toccante vedere la bambina che gli buttava le braccia al collo e piangeva dalla gioia. Carnera sapeva che la commozione lo avrebbe colto, e per questo cercò di nascondere le lacrime.  Era da quando era partito che aveva sognato di vivere questo momento.  I figli gli mancavano da morire. Carnera aveva dei doni per la piccola, ma non aveva dimenticato di portare un sacco di caramelle che le suore distribuirono a tutte. Quel giorno in collegio ci fu una grande festa, e Maria Giovanna si sentiva orgogliosa e felice di poter stare in compagnia del padre che la teneva sempre in braccio.

Tra quelle forti  braccia la bambina si sentiva protetta, e fiera del padre che tutte le bambine acclamavano a gran voce.  Quella stessa sera doveva combattere e aveva bisogno di riposare, e il suo angelo custode Aldo Spoldi cercò di fargli capire che era ora d’andare. Alla sua bambina promise che la mamma l’avrebbe andata a prendere nei prossimi giorni per trascorrere una settimana assieme. La sala  dove si sarebbe  svolto il combattimento era molto grande, il pubblico  numerosissimo, che questa volta avrebbe visto Carnera combattere contro un lottatore ungherese, un marcantonio che era più alto di lui. Quando Primo incrociò lo sguardo severo del suo avversario,  comprese che non si sarebbe trattato di una passeggiata, ma le cose andarono meglio del previsto. Carnera voleva fare bella figura davanti al suo pubblico e ci riuscì. La gente, mentre raggiungeva lo spogliatoio, lo coprì con mille applausi, e il nome di Carnera veniva urlato da molti.  La gente del suo Friuli non lo aveva mai dimenticato, era sempre il suo campione. I giorni trascorsi a Sequals furono pieni di gioia, poteva finalmente stare in famiglia e condividere del tempo con i suoi cari amici. In quel periodo si era recato al cimitero per  trovare i suoi genitori, e i vecchi amici che lo avevano preceduto, come non poteva mancare una preghiera sulla tomba della sua cara maestra. Carnera sentiva un grande affetto verso coloro che gli erano stati accanto nei momenti difficili e non avevano mai smesso di credere in lui. I giorni passarono velocemente. Pina era sempre più bella e Carnera si accorgeva che lo amava  sempre di più.

Gli sarebbe piaciuto rimanere con la famiglia in Italia, ma la lotta libera era più diffusa e remunerativa in America. Nei mesi che seguirono combatté in tanti stati americani, sempre in presenza e in compagnia del suo allenatore e caro amico Aldo Spoldi.  La sera prima di addormentarsi osservava le foto della sua famiglia, e pregava. Finalmente arrivò la notizia che la sua famiglia avrebbe potuto raggiungerlo. Avevano ottenuto i documenti necessari. Con somma gioia comunicò la notizia alla moglie  e le disse di partire al più presto.  Nel frattempo fece costruire una villetta per la famiglia, a Los Angeles, non lontano da Hollywood. Carnera non badò a spese, la casa era bella e accogliente,  e sua moglie avrebbe avuto una vita meno difficile. Il suo sogno s’era realizzato: la famiglia riunita, anche se sapeva che molto spesso si sarebbe dovuto assentare per i suoi combattimenti.  I figli, ormai, dovevano frequentare la scuola americana, e con molta premura trovò un professore che insegnasse loro l’inglese.

Come si sa, i bambini hanno una capacità diversa dagli adulti nell’apprendere una lingua straniera, e dopo qualche tempo la parlavano correttamente.  La vita del campione era condotta in modo frenetico, si doveva spostare da uno stato all’altro, i combattimenti erano molto ravvicinati; ma tutto ciò gli permetteva di accantonare delle grandi somme per il mantenimento della famiglia. Trovava, comunque, del tempo da dedicare ai figli, era un padre esemplare. Li leggeva delle fiabe, giocava con loro, li trasmetteva i valori importanti della vita, come non mancava mai di parlare del paese natio, della propria patria affinché anche loro se ne innamorassero. Voleva insegnarli anche le tradizioni culinarie, tra cui la preparazione della polenta su una stufa a legna che in casa Carnera non doveva mai mancare. La gente di Sequals spesso gli mandava delle cartoline dal paese, a cui rispondeva sempre, non voleva che le amicizie si rompessero. Aldo Spoldi spesso era ospite nella sua casa, e si sentiva  uno di famiglia. Anche lui aveva nostalgia dell’Italia e avrebbe voluto tornare a vivere la vecchiaia nel suo paese natio.

Le sue parole arrivavano dritte al cuore di Primo. Con il passare del tempo i figli si erano inseriti bene nel nuovo mondo,  studiavano con profitto e con ottimi risultati.  A Sequals avevano ancora la loro casa, e ogni tanto vi tornavano. Primo sognava anche di notte di poter far rientro in Italia. Carnera aveva cominciato a fare dei combattimenti in Europa, dove era famoso per la sfide pugilistiche con Paulino Uzcudum.  In Spagna si rivide con Uzcudum, erano invecchiati tutti e due, ma l’amicizia che li legava era rimasta quella di un tempo. La vita di Uzcudum dopo aver lasciato la boxe, era più tranquilla. Parlarono dei vecchi tempi, e di quanta storia erano riusciti a scrivere nelle pagine della boxe. Primo gli confidò che la vita che faceva non era facile e che incominciava a sentire il peso degli anni e degli acciacchi fisici. Ogni incontro era sempre più duro, e si affidava alla Madonna perché l’aiutasse. La vita del lottatore ricordava quella  del circo, in cui non ci si poteva fermare mai e c’era il dispiacere di dover perdere delle amicizie che si erano create negli anni.  Carnera confidò a Paulino che spesso pensava al momento in cui si sarebbe ritirato dall’agonismo ed era preoccupato che il patrimonio accumulato non bastasse per vivere e per far studiare i suoi figli che amava tanto. Carnera continuava a parlare con Paulino che lo ascoltava come fa un caro amico.   La  Spagna era lontana dal tempo della guerra civile, ma la lotta per andare avanti non era meno dura e dolorosa. Carnera salutò il suo amico con un abbraccio e sperava di rivederlo ancora, ma comprendeva bene che quella poteva essere l’ultima volta.


sabato 29 gennaio 2022

La Monarchia dal 22 a domani - III parte

 



 LA GUERRA

 

In questo stato di cose si arrivò alla guerra; 1933: Patto a quattro — 1934: Mobilitazione al Brennero per difendere l'indipendenza austriaca — 1935: Conferenza di Stresa — 1935-36: Guerra etiopica - Gentlemen's agreement tra Londra e Roma, seguito nel '38 da un Patto di più ampia portata. 

Nello stesso anno guerra, in Spagna che determinò l'inizio dell'antagonismo russo-francese, superato dal successo personale di Mussolini a Monaco nel settembre. Ma d'allora cominciano i guai: alle esuberanze della Camera nel novembre per le naturali aspirazioni del popolo italiano, seguono a marzo le dolorose iniziative tedesche per la guerra. All'occupazione di Praga — marzo 1939 — tien dietro quella di Memel e comincia l'agitazione per Danzica e il corridoio polacco. Mussolini non vuol essere da meno e compie l'aggressione del I' Albania. I due rivali si scrutano e, temendosi nonché ingannandosi a vicenda, firmano il 27 maggio il cosiddetto patto d'acciaio. 

Perché il Re non vi si è opposto? Perché a parte, come ebbe a dire Ci ano alla Camera il 16-12-'39 che «la politica dell'Asse già si era profilata durante la guerra etiopica», il Patto avrebbe dovuto evitare le complicazioni belliche, non accelerarle: precise le condizioni, fra cui «che le potenze avevano bisogno di almeno tre anni per i loro armamenti e che in tale periodo non si dovevano sollevare questioni atte a provocare la guerra». Hitler invece voleva la guerra. Ciano va a Salisburgo a mezzo agosto per dimostrare ai tedeschi che la guerra sarebbe disastrosa per tutti» (1). E il 24 riferisce al Re sui quattro punti concordati... Scrive: «Egli approva soprattutto il terzo, quello cioè della neutralità». 

In quel tempo Mussolini era effettivamente contrario alla guerra e alla fine del mese tenterà di riavere altro successo a Monaco, senza riuscirvi. Cerca tuttavia il 3 settembre di tranquillizzare il popolo italiano con l'ammonirlo. che l'Italia non prenderà l'iniziativa di operazioni belliche: era la non belligeranza, quella tal non belligeranza che Hitler ci rimprovererà facendone carico al Re. 

Disgraziatamente non dura che nove mesi, durante i quali, come dal Memoriale Ciano, «egli (Mussolini) appariva volta a volta deciso e dubbioso di fare la guerra, alle volte certo della vittoria dell'asse e alle volte dubbioso». Ciano dichiara nel suo memoriale di essere sempre stato contrario, ma non ebbe mai il coraggio di ribellarsi al suocero suo Capo; e dovendone pur riferire alla Camera. il 13 dicembre '39, sfugge a dichiarazioni compromettenti con un pistolotto al Duce e «al buon popolo italiano che... ha un cuore solo una fede sola, una volontà sola, quella del Duce e che ha sostato perché lui ha comandato di sostare e avrebbe marciato e marcerà se lui lo vorrà, quando lui vorrà e come lui vorrà!!». E lo ripeterà in piazza del Duomo a Milano il 13 maggio 1940: «quando egli lo avrà deciso, la parola d'ordine verrà a noi tutti dal Duce, da colui che è il nostro unico capo in pace e in guerra!». 

Era il primo squillo verso la prevista ineluttabilità della guerra; e difatti appena un mese dopo scoppia anche da noi. 

Che sia stato Mussolini a volerla non vi può essere il minimo dubbio: ma quale parte vi ebbe il Re? Purtroppo nessun dato è venuto fuori finora che risponda all'interrogativo in modo preciso: reticenze nei Memoriali, reticenze in chi potrebbe portare qualche lume; accontentiamoci pertanto di cercar dì vedere il più chiaro possibile in base ai documenti che si posseggono. 

Di Grandi abbiamo: il suo «Memoriale» e dalla «Gazzetta d'Italia» di Torino del Gennaio 1946 una intervista col giornalista N. A. Mac Oysch a Lisbona; concordi talvolta financo nelle espressioni identiche. Sul punto in questione scrive Grandi nel Memoriale: «...pensavamo (i Capi fascisti) tuttavia che non vi fosse pericolo fino a quando non si fosse riunito il Consiglio dei ministri     Del resto non era stato riunito il Gran Consiglio il quale avrebbe dovuto essere avvertito di ogni questione che avesse potuto compromettere il destino della Nazione: ma il Dittatore si era collocato al di sopra della legge, tanto che il 10 giugno alle 6 del pomeriggio apparve sullo storico balcone per dire al popolo e a, noi, che eravamo raccolti tra la folla, che il dado era tratto.

 

La guerra era stata dichiarata da Mussolini, da Mussolini, da un uomo solo...»: nessun accenno al Re. Nell'intervista «Si attendeva una nuova convocazione del Gran Consiglio; questa non venne mai. 

Mussolini, dopo essere stato solo tutto il pomeriggio del dieci giugno; alle sei di sera dichiarò la guerra. Egli solo dichiarò la guerra senza il consenso dei Ministri e del Re».

Vediamo ora il Memoriale Ciano, cui abbiamo già fuggevolmente accennato. L'originale consiste in appunti scritti giornalmente in sette di quelle agende a foglietti che distribuiva la Croce Rossa. La prima edizione fu fatta da un giornale americano con la soppressione della parte anteriore al 1938 e di altre giudicate poco importanti senza però alternarne la sostanza, «sì che non sia da dubitare delle sue autenticità»: così Mario Donosti in «Mussolini e l'Europa» prefazione pag. VII. La pubblicazione fatta nella «Nuova, Stampa» è ancora una riduzione dell'edizione americana, essendosi intercalati agli appunti di mano di Ciano dei riassunti della edizione americana, ciò che determinò delle manchevolezze, quanto meno di particolari in certi punti. 

Riattaccandoci a quel mese di maggio in cui Ciano a Milano aveva accennato alla guerra, purtroppo poco troviamo nel Memoriale circa la nostra entrata in guerra; non appunti diretti sul «Precipitare degli eventi », come si intitola lo squarcio in esame, ma solo uno dei riassunti sopra indicati: «Hitler nella notte dal 9 al 10 maggio faceva comunicare improvvisamente a Mussolini, che, convinto che Francia ed Inghilterra si preparavano ad attaccare la Germania attraverso il Belgio e l'Olanda, aveva deciso di prevenirle. Mussolini dichiarava a Von Mackensen essere questa anche la sua convinzione. Manifestò quindi a Ciano il parere che fosse venuto per l'Italia il momento di stringere i tempi...».

Poi sotto la data 11 maggio ricominciano gli appunti diretti di Ciano: «...Mussolini oggi è meno bellicista di ieri e più disposto ad attendere; sembra che da parte dello Stato Maggiore sia avvenuta una opportuna doccia fredda sulla nostra odierna possibilità militare…»   

Indi sotto la data del 16 maggio — cioè appena 25. giorni prima della dichiarazione di guerra —. «...anche il colloquio (di Mussolini) avuto col Re lo ha contrariato: S. M. continua a tenere un atteggiamento ostruzionistico per l'intervento». E sotto la data 31 dello stesso maggio: «Sottopongo al Duce lo schema di comunicato per la dichiarazione di guerra: lo approva ma consiglia di parlarne al Re che è molto suscettibile in materia, poiché a termini statutari spetta a lui dichiarare la guerra». Poi sotto la data 1° giugno: «Udienza del Re; approva, la formula che io gli sottopongo: ormai è rassegnato, niente più che rassegnato all'idea della guerra». Dopo questa data del 1° giugno, a parte altra del 6 giugno sul Comando Supremo, di cui più oltre, sul fatale 10 giugno si ritorna ai riassunti editoriali.

E veniamo a quanto Mussolini ci lasciò con la sua «Storia di un anno». Egli scrive: «Durante la guerra il re fu sempre un esitante ed un rimorchiato, meno per quella del 1940 quando non solo non sollevò obiezioni di sorta, ma considerò la guerra contro la Francia e l'Inghilterra come una decisione necessaria». La espressione usata è tutt'altro che precisa in quanto si parla bensì di guerra del 1940 ma solo come indicazione generica della guerra in questione di fronte a quelle di Africa e Spagna, ben lungi dal riferirsi alla data del 10 giugno, mentre se avesse potuto riferirsi a tale data, certo non avrebbe mancato di precisarlo per scagionarsene.

E possiamo anche dire che appare la meno sincera in quanto nel memoriale Ciano sono continue le affermazioni contrarie: «13 dicembre 1939» ma (il Re) si conferma neutralista ad oltranza e ad oltranza antitedesco; però non ama neppure i francesi e ne svaluta l'efficienza militare.

E il 5 marzo successivo alla dichiarazione di Ciano che «l'egemonia, germanica avrebbe compromesso l'Italia per secoli», aggiunge: «il Re era d'accordo». E ancora il 2 maggio «...per questo il Re raccomanda di rimanere nell'attuale posizione di attesa e di preparazione il più a lungo possibile». Con questi dati, come anche solo affacciate che il Re fosse volontariamente consenziente alla dichiarazione di guerra? E allora, come si spiega Che il Re vi abbia assentito — rassegnato? — Malacoda (3) scrive: «...perché le divisioni corazzate germaniche si sarebbero facilmente rovesciate dalle Alpi sulla Penisola... e l'Italia avrebbe sofferto cinque anni di occupazione tedesca... e tutto sarebbe caduto di un colpo sotto la sanguinosa tirannia del fascismo, e sarebbe stata costretta dai due dittatori a, continuare disperatamente la guerra fino al crollo finale». E rincalza P. Silva (4)      «Ma come il Re poteva impedire la guerra con il Parlamento Mussoliniano? Bisognava accettare l'ipotesi della guerra civile e dell'Occupazione punitiva tedesca».

E aggiungo ancor io: le vittorie fulminee della Germania in Polonia, Norvegia, Danimarca, Olanda. Belgio e Francia avevano fortemente impressionato l'opinone pubblica, alla quale l'impreparazione militare di allora dell'Inghilterra in un colla dichiarazione dell'America contraria all'intervento, nonché l'assenza della Russia facevano ritenere possibile la fine della guerra in breve tempo. Per questa ragione Mussolini, su cui pesava la paura della punizione tedesca per il «tradimento» dell'Italia che non era entrata in guerra a fianco suo nel settembre 1939 —memoriale Grandi — volle la guerra e queste considerazioni, insieme coll'impressione di cui sopra nella popolazione, non deve aver mancato di far presente al Re.

E forse anche il Re sperò che dichiarare la guerra non fosse ancora iniziarla effettivamente. Per dieci giorni non furono che azioni di aeronautica contro basi nemiche di Malta, Biserta...; di qualche sommergibile nel Mediterraneo e di qualche movimento in Africa; mentre sul fronte alpino si provvedeva solo a schieramenti di truppe.

Ma purtroppo le nostre truppe il 19 passavano il confine. Chi diede l'ordine? Anzitutto vediamo chi poteva darlo: sulla questione del Comando Supremo delle Forze Armate vi fu contrasto. Mussolini nel citato suo libro afferma di non avere minimamente sollecitato la delega del Comando delle Forze Armate operanti sui fronti, rilasciatogli dal Re; ciò che è nel modo più assoluto contradetto dal Memoriale Ciano, nel quale sotto la data 6 giugno è scritto: «trovato il Duce risentito col Re per la questione del Comando Supremo. Sperava che il Re lo avrebbe senz'altro ceduto, invece Sua Maestà -ha scritto una lettera colla quale ribadisce che assume il Comando mentre affida - a Mussolini la condotta politica e militare della guerra. Mussolini trova questa una formula ambiguo colla quale gli vien dato ciò che praticamente ha da diciotto anni; grande disappunto del Duce che si propone di scrivere al Re che è meglio lasciare le cose come stanno!»... Si dovrebbe ritenere che dopo matura riflessione che la lettera non sia stata scritta, o che il Re non ne abbia tenuto conto, almeno a giudicare dal seguito, in quanto nel proclama del Re dell'11 giugno, il Re dichiara precisamente di assumere in qualità di Capo Supremo di tutte le Forze, di terra, di mare, dell'aria..., e affida al Capo del Governo... il comando delle truppe operanti su tutte le fronti.

Aggiunge ancora Mussolini nel citato suo libro: «l'iniziativa di ciò (la delega del comando) appartiene al Maresciallo Badoglio». E qui cerca di far cadere il lettore nell'equivoco. Dai documenti riportati nel libro appare in modo indubbio che l'intervento di Badoglio è stato semplicemente per determinare la subordinazione dei vari comandi e più specialmente la sua posizione come Capo di S.M.G. di fronte al Capo Supremo delle FF. AA. e al Comandante delle truppe operanti sulle fronti (essendo sia la, carica sua sia quella di Mussolini di nuova istituzione), nonché nei rapporti suoi coi Capi di S. M. particolari dell'Esercito, Marina ed Aria.

 

(1)         Ciano: Memoriale: sotto la data 9 agosto 1939.

 

(2)        Dino Grandi: Memoriale pubblicato in inglese in «Life» poi in italiano a Napoli nel settembre 1945.   

 

(3)        S. Malacoda : op. cit. pag. 87.

 

(4)        P. Silva : op. cit. pag. 144.

 

venerdì 28 gennaio 2022

Dino Buzzati Traverso a cinquant'anni dalla sua morte


 di Emilio Del Bel Belluz

Il 28 gennaio 2022 sono trascorsi cinquant’anni dalla morte di uno dei più grandi scrittori del Novecento: Dino Buzzati Traverso. Quando penso a lui, nato nel 1906 a S.Pellegrino, presso Belluno, mi viene in mente un suo coetaneo che di sicuro aveva conosciuto: Primo Carnera, che nacque anche lui vicino alle montagne, nella terra friulana. Primo, che fu un grande campione di boxe, morì qualche anno prima di lui nel 1967, ed  aveva appena compiuto  sessanta anni. Entrambi assistettero allo scoppio della Grande Guerra che coinvolse anche l’Italia. Avevano nove anni, l’età dell’infanzia in cui i ricordi  non si dimenticano ed hanno un’importanza fondamentale. La vita di Buzzati fu molto diversa da quella di Carnera, ma ambedue amavano la quiete della montagna e ne ammiravano i suoi colori. Successivamente si trasferì a Milano con la famiglia. Il padre era professore di  Diritto internazionale all’Università di Pavia, dove in seguito  divenne insegnante il figlio: Adriano Buzzati. La strada che scelse Dino fu quella del mondo letterario, anche se il primo amore fu quello per il violino che il padre gli aveva regalato per il suo nono compleanno. La passione per la musica  lasciò il posto all’amore per la letteratura, per il giornalismo e per la pittura. La sua prima opera letteraria uscì nel 1933, con il titolo: “ Barnabo delle montagne”. Anche Primo Carnera visse uno splendido 1933, conquistando il titolo mondiale dei pesi massimi, il primo che l’Italia vinse. Dino Buzzati non dovette attendere molto per essere conosciuto. Lavorò al Corriere della Sera nella cui redazione vi entrò nel 1928: un posto davvero prestigioso per un giovane di appena 22 anni, se consideriamo che nella stessa redazione lavoravano i più grandi intellettuali di quel periodo.  Nella antologia per le scuole medie redatta da Vigorelli- Romani nel 1942 troviamo alcune sue pagine che scrisse come inviato negli incrociatori “Fiume” e “Trieste” per il  Corriere della Sera. Nella stesso libro è riportato uno scritto su di lui. “ Dino Buzzati è un nostro giovane narratore. Il suo terzo romanzo  “Il Deserto Dei Tartari” Rizzoli Milano 1940, è stato riconosciuto per uno dei migliori di questi ultimi anni. Qui leggerai,  invece un suo servizio di guerra – una” umile cronaca” (come a lui è piaciuto definirla)  d’una sortita navale. Pochi articoli di guerra sono stati scritti con la sincerità e l’onestà di questo. Ogni tanto infatti il Buzzati sospende la narrazione come a chiedersi con scrupolo se tutto quel che ha detto è vero; poi riprende, e va a scoprire schiettamente i giusti timori e i generosi ardimenti del soldato. Ancora una volta il soldato è salutato nella sua qualità più alta: la civile umanità italiana”. Nel libro che molti ragazzi di allora avevano in dotazione appariva una cronaca molto dettagliata sulla guerra, scritta in modo schietto come era il suo stile. A distanza di cinquant’ anni Dino Buzzati non è uno scrittore studiato a scuola o letto dai giovani perché non sono inclini alla riflessione e alla solitudine che possono dare le  sue pagine.  Quelli della mia generazione lo lessero e lo amarono, considerandolo una persona che aveva saputo ricostruire un mondo che sarebbe andato perduto per sempre. L’incanto dello scrittore può essere rispecchiato anche da poche righe che ho trovato in un suo racconto, tratto dal libro Sessanta racconti una favola che fa riflettere specialmente in questi tempi difficili. “ I Santi hanno ciascuno una casetta lungo la riva con un balcone che guarda l’oceano e quell’oceano è Dio. D’estate, quando fa caldo, per refrigerio essi si tuffano nelle fresche acque e quelle acque sono Dio”. Fu uno scrittore cattolico che cercava sempre Dio, quel legame forte che fa bene allo spirito e alla vita. Ecco che allora tornano i segni dell’uomo del tempo, contraddistinti dall’amore per Dio, per la Patria e per la famiglia. Questi valori che adesso mancano in questa Italia che si è impoverita. Qualche volta ci si chiede come mai non si ascoltino gli anziani, quelli che avendo vissuto già gran parte della loro vita sono ricchi d’esperienza. La stessa cosa la si poterebbe dire per gli scrittori, non ci sono molti scrittori che hanno la stessa tempra che aveva avuto negli anni,  Dino Buzzati. Seppe scrivere della bellezza della natura, del suo legame con la montagna e il deserto che hanno in comune le stesse caratteristiche, cioè il silenzio, la solitudine ed il mistero.  Nel libro Incontri in libreria di Francesco Grisi si racconta del libro di Buzzati:  Il deserto dei Tartari.  “L’uomo è solo, ma non è in solitudine, perché vive, palpita e muore nel suo destino, e la solitudine di Kafka è vinta da questo senso arcano dell’attesa.  Il tempo accarezzando, e ingigantendo  l’attesa accompagna il cammino: fluisce silenzioso e solenne nelle profondità segrete dell’universo e nelle nostalgiche rive che avvolgono, nella luce dolcissima dell’alba, l’umanità. Ne “Il Deserto dei  Tartari”, ad esempio, il tempo pur schematizzandosi in anni e stagioni, è un respiro eterno e l’eroe, il tenente Drogo, più che subirlo lo filtra nelle sue speranze e lo gusta nelle sue illusioni. Ugualmente il simbolo con i suoi derivati  si illumina di  valore emblematico nell’attesa. L’uomo, in Buzzati, è il simbolo perché non recita una sequela unicamente legata al suo individuale destino, ma é impegnato in passioni…” Il tenente Drogo non poté assistere all’assalto della fortezza che tanto aveva sognato, perché essendo stata declassata a caserma di confine, ne fu allontanato. Anziché morire combattendo, finì gli ultimi giorni della sua vita consumato dalla malattia e dagli anni. Il tema della morte si  pone come determinante alla fine del romanzo, come riscatto ad una vita vuota e vanagloriosa.  Quello che mette in evidenza  Dino Buzzati nell’opera Il deserto dei Tartari   è lo stesso che sostenne un soldato alla fine della Grande Guerra : la cosa più importante che riportai dalla mia esperienza militare era il forte legame cameratesco che c’era tra di noi, lo spirito di corpo che ci univa. Il libro Il Deserto dei Tartari,  in origine sarebbe dovuto intitolarsi “La Fortezza”, ma Leo Longanesi lo sconsigliò di mettervi questo titolo. Visto che era scoppiata la seconda guerra mondiale, eravamo nel 1940, e l’Italia presto sarebbe entrata nel conflitto, quel titolo poteva indicare che il libro avesse come tema la guerra. Nella rivista “ Fantastico quotidiano” n. 13 del 2018 , Enrico Rulli scrisse: “Lo scrittore risultava essere stato iscritto al Partito Fascista, come molti intellettuali della sua generazione, ma a differenza di altri non aveva mai fatto pubblica abiura di quella sua appartenenza. Inoltre, era indubbio il fascino che provava per il mito, declinato in diverse forme: la guerra (specialmente quella navale), la montagna, il soprannaturale, le grandi personalità del suo tempo”. Poche ore prima che lo scrittore entrasse in coma, ricevette la visita, richiesta d’urgenza, del cardinale Giovanni Colombo che s’intrattenne nella stanza d’ospedale per cinque minuti. La moglie quando rientrò, lo ritrovò sereno. Non si può parlare di conversione all’ultimo momento, perché Buzzati era stato cristiano durante tutta la sua esistenza, se si considera fede la sua incessante ricerca di senso nelle sue opere e nella sua vita, e l’ ansia per la ricerca dell’assoluto. La moglie asseriva che Buzzati credeva in Dio e di questo era certo anche Paolo VI, con cui aveva instaurato una grande amicizia e lo aveva convinto a sposarla. Prima della morte, che avvenne il 28 gennaio 1972, a Milano chiese di baciare un crocefisso.

domenica 23 gennaio 2022

Capitolo XLIV: Carnera giudicato dalla commissione atletica dello stato della California.

di Emilio Del Bel Belluz



 Carnera  aveva combattuto nella boxe per molti anni, ma il suo primo sport che aveva praticato per guadagnarsi da vivere ,era la lotta libera, quando in Francia si era trovato a interpretare l’uomo più forte del mondo,  in un circo equestre. Da quel periodo erano  passati tanti anni: dal 1928 al 1946. L’acqua sotto i ponti aveva scritto tante storie, ma Carnera rimaneva sempre lui: una persona che aveva fiducia nella vita, che vedeva solo il positivo delle cose e che amava tutto quello che riusciva a fare di bello. In Italia poi era diventato campione della lotta libera vincendo il titolo nazionale nel 1942,  e questo era già un traguardo importante . I tifosi lo cercavano, come pure i suoi avversari attendevano con impazienza l’ora di vederlo in azione. La sua presenza in America aveva suscitato oltre a titoli a caratteri cubitali sui giornali, una vera e propria scommessa su come  avrebbe debuttato. Molti atleti erano impazienti  di incontrarlo e pensavano a quanti soldi avrebbero potuto incassare, la lotta era fatta di spettacolo e non era da tutti incontrare un campione del mondo di boxe, anche se ora il titolo non lo possedeva più. Anche in albergo il nuovo Carnera era assediato da gente che non lo mollava. Dopo alcuni giorni che si era allenato, dando il massimo di se stesso, aveva calato alcuni chili di troppo. La notizia che la commissione non gli voleva rilasciare la licenza per combattere fu come un fulmine a ciel sereno. “ 
La commissione Atletica dello stato della California- che controlla le organizzazioni e gli atleti con lo scopo di proteggere il pubblico e i suoi diritti- chiede a Carnera che si procuri la licenza di lottatore professionista prima di salire su di un ring Californiano” ( Io e Primo - La vita de il gigante buono di Aldo Spoldi ). Gli organizzatori iniziarono l’iter burocratico per procurare a Carnera la licenza richiesta ed erano convinti che il tutto si svolgesse in modo molto sbrigativo. Ma nei giorni successivi il tanto atteso documento non arrivava a causa di fatti  svoltisi nel 1930 e precisamente durante il combattimento del 14 aprile 1930 ad  Oakland in California, contro Léon  Chevalier,  pure lui un massimo che calcava il ring da qualche tempo, e che voleva farsi un nome nella boxe, ma non aveva le qualità che gli permettessero di raggiungere questo sogno. 
Durante le prime riprese i due pugili si studiarono, cercando di capire le mosse dell’avversario, facevano da padroni l’inesperienza e la paura di perdere. Ad un certo punto l’arbitro li richiamò a battersi con più convinzione. Il pubblico aveva pagato il biglietto e voleva vedere lo spettacolo. L’incontro si accese e l’avversario di Carnera mise a segno alcuni colpi che preoccuparono Primo. Dal suo angolo si levavano le grida dei suoi allenatori affinché mettesse a segno dei colpi più convincenti. Il pugile italiano,  avendo acquistato coraggio, mise all’angolo il suo avversario con dei colpi netti, ma allo stesso tempo confusi. In quel momento dall’angolo di Chevalier si vide il lancio dell’asciugamano, l’arbitro sospese il combattimento decretando la vittoria di Carnera, alzandogli  il braccio. 
Quello che accadde dopo è difficile ricostruirlo, il pubblico si mise a protestare, e ci fu il caos totale. Dovette intervenire la  polizia in forze per sedare i malumori. I due pugili dovettero nascondersi sotto il ring, per non essere presi dai tifosi inferociti. Lasciarono il posto, dove erano trincerati con l’aiuto della polizia. Tutto era nato da un equivoco, così venne stabilito dopo il temine dell’inchiesta, e i due pugili vennero dichiararti colpevoli. La Commissione d’Atletica  aveva quindi squalificato i due pugili e ora non voleva rilasciare la licenza di lottatore a Carnera. Aldo Spoldi  scrive
 “ Preso nota delle accuse, l’organizzatore della prossima “ turnée”di lotta libera americana con Primo Carnera in qualità di lottatore , si procurò i servizi di uno  dei migliori avvocati di Los Angeles. Si trattò di un avvocato che, nel 1930, faceva parte di quella Commissione Atletica della California. L’esperto avvocato fece capire al giudice che Primo Carnera era, dei quattro incolpati della faccenda del 1930, la parte veramente innocente. E mentre, più avanti, sia Chevalier e sia il suo manager, erano stati reintegrati dalla Commissione, proprio Carnera, la parte veramente innocente, veniva riconosciuta trentasei anni dopo, ancora colpevole di un gesto da lui sempre ignorato. 
Il giudice prese buona nota di questi fatti e pronunciò la completa innocenza di Carnera relativamente allo “ scandalo” del 1930”. La sera che Carnera apprese della sua assoluzione ne fu felice, ma questa gioia non durò a lungo. Infatti, ancora una volta qualcosa stava andando storto, come spesso accadde. Il suo avvocato non aveva voluto allarmarlo, ma la lotta per ottenere quella licenza non era ancora conclusa. La commissione ora accusava Primo Carnera d’essere stato un fascista fino alla fine del governo di Mussolini e di aver ospitato durante la guerra i tedeschi e i fascisti nella sua casa. L’abile avvocato, che gli organizzatori avevano assunto, non si lasciò sfuggire l’occasione per dimostrare in modo pieno l’innocenza del suo assistito. Carnera non aveva mai chiuso la sua casa di Sequals  a nessuno, pertanto, capitava che i soldati tedeschi, saputo che in quel paese abitava il campione del mondo della boxe, venissero a cercarlo. Tanti soldati gli domandavano l’autografo, volevano fare una foto con lui da mandare a casa alla famiglia. Questi gesti di gentilezza Carnera li faceva con tutti, perché facevano parte del suo carattere.  In quel periodo Carnera aveva dovuto lavorare per i tedeschi nella Tot, come qualsiasi persona, per un pezzo di pane. 
Quello che il suo avvocato non poteva però dire era che Carnera era stato aiutato dal campione tedesco Max Schmeling, che  grazie alle sue conoscenze era intervenuto affinchè venisse trattato con più umanità. Il suo avvocato con una dialettica e con delle prove molto importanti disse che se Carnera era stato accusato d’essere fascista per le sue foto con Benito Mussolini, allora anche tanti uomini importanti ed alte personalità dello stato americano dovevano essere accusate d’essere fascisti. L’abile avvocato avvicinandosi ai giudici mostrò alcune foto dove si vedeva Carnera assieme al presidente degli Stati Uniti d’America, Roosevelt e ad altre autorità americane, tra cui degli ambasciatori degli Stati Uniti d’America e questo fu sufficiente per scagionare definitivamente Carnera.  Nel settembre 1946 il gigante italiano diede inizio alla nuova attività sportiva.

sabato 22 gennaio 2022

La Monarchia dal 1922 a .... domani - II parte

IN REGIME FASCISTA


Fin dalla prima seduta della Camera si intravvide però subito il suo vero animo intransigente e minaccioso: gli italiani allibirono all'insulto da lui fatto alla Camera e per conseguenza al Paese che l'aveva eletta, col noto oltraggio: «di. quest' aula sorda e grigia avrei potuto fare un bivacco di manipoli!» (e mi sia lecito aggiungere che quando Mussolini venne a 'Vicenza nel '24 alloggiando in Prefettura, ebbe a gloriarsi, me presente, di tale frase precisando che non gli fosse sfuggita, ma voluta dire espressamente per marcare che, i fascisti erano assai superiori ai Deputati). E la Camera, l'ultima eletta liberamente dal popolo italiano, fu muta e gli diede il suo voto di fiducia.

Se il Re era uscito pienamente giustificato dall'aver commesso (concesso?) le redini del governo a Mussolini, appariva pur troppo chiaro fin d'ora che della Costituzione, cioè libero funzionamento degli organi istituzionali, non sarebbe rimasta che la struttura formale.

E così fu infatti: il Re, sminuito dei suoi poteri dall'invadenza, sempre maggiore di Mussolini, sine a diventare «diarchia» il reggimento dello Stato, come egli scrive nel suo libro «Storia di un anno», mettendo nello stesso piano il Re e se stesso, veniva nella realtà privato del potere sovrano, dovendo la volontà sua estrinsecarsi sempre a mezzo del Capo del Governo.

Non è che mancassero i motivi per rimediarvi, né le occasioni. Non mi tratterrò certo, su tutte le leggi e i provvedimenti in cui Il sistema costituzionale fu, se non sempre apertamente, certo nella sostanza violentato: esaminerò solo i provvedimenti che vi contrastarono in pieno ed ebbero grandissima importanza: le due leggi elettorali, quelle contro la libertà di   stampa, riunione ed associazione; nonché la legge sul Gran Consiglio.

Il primo attentato allo Statuto è stato la legge elettorale del 1923, non tuttavia alla stregua della dicitura letterale: dice l'art. 39: «La Camera elettiva è composta di Deputati scelti dai Collegi elettorali conformemente alla legge» eppertanto, data una legge approvata e sanzionata, violazione formale  non vi era. Ma se si assurge all'essenza della legge, l’offesa alla Carta costituzionale è enorme, in quanto era stabilito che i due terzi dei seggi appartenessero alla lista vincente, fascista, e solo l'altro terzo a tutti gli altri partiti insieme. E la Camera l'approvò e l'approvò il Senato: al Re non restava altra possibilità che di sanzionarla.  Veniva così a mancare l'espressione della «libera» volontà popolare.

 

* * *

È in questo clima di asservimento del Parlamento che fu perpetrato il delitto Matteotti. Già nel maggio 1923 per un coraggioso discorso alla Camera l'on. Misuri eri', stato ridotto in fin di vita; il 30 maggio successivo anno, l'on. Matteotti osava altro discorso; il 10 giugno veniva assassinato. Io non credo che Mussolini avesse prospettato di spingere le cose a questi estremi, che non gli era vantaggioso; ma l'idea di precludergli ogni altra interferenza alla Camera nei pochi giorni prima. delle vacanze estive certo fu sua; complice pertanto nella preparazione del colpo, che poi aveva ecceduto.

L'indignazione fu generale, ma non vi corrispose né la Camera né il Senato. Mussolini aveva bensì tentato di garantirsi di ogni evenienza chiedendo al Re un decreto di scioglimento della Camera colla data in bianco, ma il Re vi aveva opposto reciso rifiuto; così Malacoda (1). Allora Mussolini giocò di audacia chiedendo il 3 gennaio alla Camera di tradurlo davanti l'Alta Corte, di Giustizia ai sensi del l'art. 47 dello Statuto. La Camera, alle cui sedute aveva continuato ad essere assente il cosiddetto Aventino malgrado il Re avesse ben due volte fatto sapere ad Amendola - uno dei suoi Capi più autorevoli - che era il momento buono per il ritorno nell'aula» (2) era il 3 gennaio ancora assente, sì che nessuno si mosse all'intimazione di Mussolini, e neppure il Senato nella successiva seduta: tre soli Senatori — fra cui mi piace ricordare Abbiate — parlarono contro e i voti contrari furono 21!

Gli è che il Parlamento sapeva che la partita era perduta d'avanzo e che Mussolini aveva con sé le masse popolari, aveva la Milizia, aveva la grande riserva dello squadrismo padano e toscano» (3). Che cosa potava fare il Re? Egli che, come abbiamo visto, aveva inutilmente chiesto nel secondo semestre 1924, all'opposizione «di restare al suo posto e di provocare un voto che potesse dargli modo di constatare un mutamento nella maggioranza... sì da poter invitare il Presidente del Consiglio a ritirarsi, come aveva assicurato a Giolitti (4), tentò un ultimo espediente chiamando a Consiglio gli ex capi gabinetti liberali Giolitti, Salandra e Orlando, i quali opinarono essere inopportuno di avventurarsi in un cambio che preludesse ad un governo dominato da socialisti o popolari » (5). Di fronte a queste negative, ripeto, cosa poteva fare da solo il Re? Rincalza Silva: (6) «Poteva il Re solo contro tutti affrontare la lotta? Con quali possibilità, e con quali mezzi?... Privato dell'appoggio del Parlamento non aveva aperta altra via che quella della forza e della guerra civile per liberarsi del fascismo liberarne l’Italia»; e Mussolini stesso l'aveva chiaramente prospettalo in Senato: «La Corona dovrà servirsi dell'Esercito per disperdere la Camera che non le piace» (7).

E detta da lui, non era minaccia vana, che «sciogliere» la Camera, come in tempi normali quando si trattava di contrasti fra la medesima e il Governo in questioni sia pur gravi, non era certo rimedio da potersi sperare in quelle circostanze. Senza contare che sarebbe stato provvedimento quanto mai incostituzionale e il più antidemocratico cui si potesse pensare, in `quanto non era certa dai mormorii a due o dalle barzellette o dai giochi di parole che si potesse giustificare il dissenso del Paese.

Di fronte pertanto alla certezza della guerra civile con tutti gli orrori, che. era facile: prevedere, il Re non si sentì di gettare il Paese a tanto sbaraglio, tanto più non potendosi lusingare- di vincere tanto facilmente la partita, poco sicuro di aver rappoggio del Paese dei cui sentimenti i voti del Parlamento erano stati tutt'altro che rassicuranti indizi. Chi gli può dar torto?

E così l'occasione tragicamente favorevole del delitto Matteotti passò... inasprendo invece purtroppo' l'assolutismo di Mussolini.

Già subito dopo detto delitto, nel luglio: erano stati presi provvedimenti per «impedire polemiche intemperanti e propalazioni tendenziose per denigrare sistematicamente il Governo» (8), e nel novembre successivo altre disposizioni che «vietavano fino a nuovo ordine qualsiasi adunata, comizio o corteo con carattere politico»; e nel dicembre altre ancora per hi massima vigilanza su tutti i giornali per poter provvedere tempestivamente ed efficacemente a sequestro e diffida, per qualsiasi pubblicazione che potesse comunque arrecare turbamento all'ordine pubblico». Tali provvedimenti affidati ai Prefetti furono dopo il 3 gennaio legalizzati, quanto alla stampa colla. legge 24 giugno 1925, approvata dalla Camera con 261 voti favorevoli e 5 contrari, e dal Senato con 150 favorevoli e 46 contrari; è quanto al resto con la legge 12 dicembre successivo sui nuovi poteri a Prefetti, alla quale avevano invano tentata di opporsi soli trenta deputati, fra cui mi piace ricordare, Giolitti e Soleri, con una mozione ché Mussolini... rimandava a sei mesi tra applausi generali.

Lo stesso dicembre altro colpo ancora allo Statuto con la legge che sostituiva il Capo del Governo al Presidente del Consiglio, sì che i Ministri cessarono di essere collegialmente responsabili verso il Re, il quale perdeva il diritto di sceglierli, dipendendo essi d'ora innanzi direttamente dal Capo del Governo.

E prosegue ancora l'opera di Mussolini a scalzare l'autorità regia: il 1928 - 27 maggio - vede approvata la nuova legge elettorale che sostituisce ai Deputati i Consiglieri Nazionali tutti scelti dal Gran Consiglio. È la più completa violazione dello Statuto che li voleva scelti dai collegi elettorali. Da questo momento cessa la libertà in Italia e il Re resta solo e disarmato di fronte al Fascismo, perché viene a cessare in Lui la possibilità, che è garanzia di libertà, di cambiare il Ministero messo in minoranza dalla Camera ed anche di sciogliere la Camera se più non risponda alla volontà del Paese: il fascismo ebbe dalla Camera dei Deputati lo strumento per alterare deformare la volontà del popolo.

E nel dicembre successivo altro attentato alla dignità *della Monarchia in data del 9, che conferiva al Gran Consiglio — creato nel 1923 ma fino allora pressoché ignorato — straordinari poteri. Fu questo uno degli atti più rimproverato al Re; esaminiamone la portata. Scrive Mussolini nel suo libro «Il Gran Consiglio rivendicava, a sé il diritto di intervenire nella successione della Corona... ciò voleva dire un colpo mortale allo Statuto che regolava automaticamente questo problema (vedremo che mentiva). Taluni arrivarono ad insinuare che quell'articolo fosse di ispirazione repubblicana e che si volesse in ogni caso ostacolare l'assunzione al trono del Principe Umberto e proporre l'allora Duca delle Paglie. (Ambe insinuazioni tutt’altro che contrarie alle aspirazioni di Mussolini, se pur messe a carico di anonimi «taluni»).

Seguita Mussolini «da quel giorno — 1928 — Vittorio Savoia cominciò a detestare Mussolini e a covar un odio tremendo contro il Fascismo. Il regime, disse un giorno il Re, non deve entrare in questa materia che una legge fondamentale ha già regolato. Se un Partito in regime monarchico vuole decidere contro la successicene al trono, la Monarchia non è più tale; il grido della successione non può essere che il tradizionale: il Re è Morto! Viva il Re!».

Non è il caso di rilevare la perfetta argomentazione del Re; invece è tutt'altro che fuor di luogo notare che di fronte all'opposizione del Re, la legge fu alla fine conformata in modo da non urtare, sia pur solo formalmente, alla Costituzione. A parte che il Gran Consiglio dà solo parere su tutte le questioni aventi carattere costituzionale: la successione al trono e le attribuzioni e le prerogative della Corona, è precisato in modo inequivocabile che si deve trattare di questioni; ora 'questione' non vi può essere quando si tratti della normale successione al trono, essendo questa regolata dall'articolo 2 dello Statuto in modo preciso e tassativo con la disposizione: «il trono è ereditario secondo la legge salica». È pertanto evidente che il caso previsto, stando alla lettera della disposizione, non avrebbe, potuto essere quello normale ma altro eventuale non previsto dalla legge salica, per esempio la mancanza di maschi nell'agnazione o impedimenti a regnare nei sucessibili secondo la legge medesima. E questo fu più esplicitamente riconosciuto dallo stesso Mussolini, come è precisato nel diario Ciano sotto la data 11 febbraio 1939.

Finezze di interpretazione, certamente ma è appunto in grazia, ad esse che vien chiarita la reale portata della disposizione, resa letteralmente costituzionale per non urtare contro il 'persistere del Re e rifiutarne la sanzione; mentre a Mussolini essenzialmente importava quello che poteva apparire ai più e cioè un colpo alla Dinastia, una messa in guardia per il Re e una sfida al Principe Ereditario, che si sapeva contrario al Fascismo. E contemporaneamente gli dava in Mano l'arma da far agire, forzandone l'interpretazione, quando si fosse sentito tanto forte da osare sul sicuro del colpo mancino, non essendo allora più il caso di occuparsi della costituzionalità ma non volendo perdere il vantaggio che gli sarebbe venuto dalla legalità specie di fronte a quelli che sarebbero stati allora beni felici di avere un pretesto legale, perché sancito a suo tempo dallo stesso Re interessato, per mancare alla loro fede monarchica.

Queste le leggi che più offesero la costituzione e poche altre minori; tutte però nella loro applicazione inquinate da spirito di parte, favoritismi, imposizioni, soprusi, corruzioni. Ma i pericoli ed i danni che man mano questo stato di cose andava preparando alla Nazione, non si, prospettarono che lentamente alla generalità degli Italiani, vuoi per il fervore di numerose opere pubbliche, vuoi per la novità stella legislazione corporativa, tanto poi tralignata nell’applicazione, ma che al suo apparire ha indubbiamente dato delle speranze, vuoi per un certo benessere generale, e normale andamento di vita sociale, nonché per la fortunata conclusione dei Patti Lateranensi..., sì che per un certo periodo, che sì può calcolare sino nel corso del 1940, fu generalmente riconosciuto da scrittori e uomini politici d'Italia e all'estero che « il Fascismo fosse un complesso fenomeno che si era imposto anche agli spiriti meno benevoli e più saldi ».

E allora conclude P. Silva (9) i non si scaglino anatemi alla Monarchia se ha dovuto accettare questo fenomeno. È ingiusto pretendere che essa con

un gesto magico potesse dissolvere il regime indovinando, quando tutti lo esaltavano, la rovina che avrebbe prodotto.

Fu, è vero, anche durante questo periodo rimproverato al Re questo o quest'altro atto di assai ridotta importanza, ma pur ostico alla popolazione - visita a Predappio, il «Voi», alcuni telegrammi al Duce, il saluto e il passo romano... -. hanno questi critici pensato a quant' altri atti gli sarà riuscito di opporsi, a quante pressioni morali invece costretto in altri casi sì da giustificare se valesse la pena - qualche volta di opporsi in vista del minor male?

 

(1)  Secondo Malacoda: Popolo, Fascismo e Monarchia pagg 44

(2)   Giornale « L'Epoca »: La verità sull'Aventino

(3)   Pietro Silva, op cit pag 98,

(4)   Pietro Silva, op cit pag 102,

(5)   Pietro Silva, Op cit, pag 98

(6)   Pietro Silva, Op cit, pag 100

(7)   L. Sturzo:  L’Italia e l'ordine internazionale da Malacoda op. cit. pag. 48'

(8)   Circolari ai Prefetti

(9)   Pietro Silva, Op cit, pag 124