Opuscolo del 1946. Ne avevamo promesso la diffusione. Un ripasso veloce, puntuale, agevole.
Lo staff
L’INCARICO A MUSSOLINI
Nella questione istituzionale
— Monarchia o Repubblica — che si dibatte in Italia non hanno poca rilevanza,
fra gli addebiti che si fanno alla Monarchia, le accuse che si muovono al Re
per i suoi comportamenti verso il regime, nonché per la sua acquiescenza alla
guerra e il suo dipartirsi da Roma l'8 settembre. Parrebbe pertanto necessario
esaminare i fatti e i documenti, di cui si è finora a conoscenza per valutare
l'opera del Sovrano; non è che con questa disamina si risolva il dilemma, che
evidentemente si deve impostare su altre basi, ma col chiarire questi punti si
sarà già fatto un passo per la soluzione.
Le ragioni che indussero il Re
a incaricare Mussolini del Governo alla fine dell'ottobre 1922 furono complesse
e non solo contingenti.
Pietro Silva nel suo
recentissimo « Io difendo la Monarchia » (1) ne fa risalire le primissime
origini al decadimento del Parlamento quando nel 1915 « la volontà del
Parlamento per la prima guerra mondiale fu forzata da un moto di piazza»: la
maggioranza Giolittiana della Camera, favorevole alla neutralità nel 1914,
spinta da manifestazioni di partiti favorevoli alla guerra — democrazia
massonica, nazionalisti, socialisti riformisti, gioventù universitaria e dal
gennaio 1915 «i fasci di azione rivoluzionaria per l’intervento» fondati allora
da Mussolini, ed in genere la stampa più autorevole e gli infiammati discorsi
di D'Annunzio - aveva finito per accettare unanimemente Salandra. Vinta la
guerra queste forze popolari estranee al Parlamento, che si erano imposte nel
1915, ripresero il sopravvento nel 1918, guidate da una parte dai partiti
estremi che si erano inanimiti per le vittoriose rivoluzioni russa ed
ungherese, e dall'altra dai Fasci che, oltre a vantare l'apporto della loro
volontà per l'entrata in guerra, impegnavano una lotta sempre più vigorosa
contro gli avversari. Il Paese invece, piegato dall’immane sforzo della guerra
combattuta, si manteneva nella grande generalità quasi agnostico.
In armonia a questo ordine di
cose le elezioni dell'autunno del 1919 diedero la vittoria ai Partiti
cosiddetti di massa; mentre. i popolari portarono i loro deputati a 101; i
socialisti ebbero nella Camera 156 deputati che all'entrata del Re a Palazzo
Madama per il discorso della Corona intonarono «Bandiera rossa». Cominciarono
allora in Paese agitazioni gravi: scioperi industriali, agrari e nei servizi
pubblici; nel 1920 occupazione delle fabbriche… e in Parlamento il marasma più
completo; sì che fu necessario adottare l'unico espediente che la Costituzione
poneva nelle mani del Re: scioglimento della Camera e nuove elezioni
nell'aprile 1921. Ma disgraziatamente la legge elettorale politica a scrutinio
proporzionale anziché dare rappresentanze forti e capaci di costituire forti
governi, favorì lo sminuzzamento in gruppi e gruppetti che collegatisi fra di
loro, diedero al Ministero così scarsa maggioranza che Giolitti nel successivo
giugno rassegnò le dimissioni.
Fu sostituito da Bonomi; ma
l'oscillare dei vari gruppi e la poca adesione da parte anche dei gruppi
maggiori, oltre a dare al suo ministero una permanente debolezza, dopo pochi
mesi di vita stentata, finì per determinare la sua caduta nel febbraio 1922.
Scrive Sforza: «La crisi che ne seguì... fu la più lunga in Italia dal 1848
in poi: il Paese vi sentì una prova che il Parlamento non funzionava più» (2).
Furono dal Re, fatti successivi tentativi con De Nicola, con Giolitti, con
Orlando, che non ebbero seguito per contrasti fra i vari gruppi dalla Camera,
essenzialmente di carattere personale. I Capi dei Partiti restituendo il
mandato designavano Facta. Questi formò il suo primo Ministero nel marzo, ma
durò poco più di tre mesi, «dando la più clamorosa dimostrazione
dell'impotenza della Camera» (3).
Nuovi incarichi da parte del
Saviano: De Nicola, poi Giolitti che dovette ritirarsi per il veto di Don
Sturzo Capo dei Popolari; poi Bonomi che urtò contro l'opposizione dei
socialisti; Meda che ottenne la adesione dei suoi popolari a partecipare al
Governo sua non ne vollero assumere la Direzione e poi di nuovo Orlando che
tentò un ministero di pacificazione nazionale con approcci ai socialisti e
relativa chiamata di Turati al Quirinale; ma la combinazione non riuscì,
volendo i Socialisti il Ministero dell'Interno, al che i popolari si
opponevano. Successivi incarichi ancora a De Nicola e Tittoni non poterono
prendere forma, sì che fu necessario ritornare a Facta e la Camera, che aveva
reso impossibile qualunque combinazione vitale, gli accordò nuovamente fiducia
il 10 agosto 1922.
Come si è visto in poco più di
un anno quattro Ministeri attraverso tentativi di ogni sorta sempre andati a
vuoto!
Era la più angosciosa delle
crisi parlamentari, mentre i fascisti si facevano sempre più arditi capeggiando
nel Paese movimenti di rivolta, occupando case comunali, incendiando sedi di
organizzazioni socialiste e comuniste, con spargimento di sangue; sfociando il
25 ottobre al Congresso di Napoli e alla cosiddetta «Marcia su Roma».
Facta comprende che deve agire
energicamente: raduna il Consiglio dei Ministri per l'indomani e «in vista
delle risoluzioni che sarebbero state prese, telegrafò il 27 al Re per
avvertirlo della opportunità di partire per la Capitale» (4).
S. M. arriva alle 19 ed ha, un
primo breve colloquio con Facta nella saletta della stazione: secondo colloquio
a Villa Savoia alle 21 (5). Disgraziatamente l'autore non dice parola di questi
colloqui, come neppure del terzo che ebbe luogo l'indomani mattina quando il Re
non credette firmare il decreto per lo stato d'assedio che Facta gli portava in
seguito alla decisione del Consiglio dei Ministri tenuto alle 5 del mattino,
decreto già affisso dalle 8,30 sui muri di Roma e telegrafato ai Prefetti alle
7 e mezza (6). Così essendo, quale giustificazione può avere l'isolato «mutamento
di S. M. che Facta andando a Villa Savoia era ben lontano dal prevedere (7) se
di quante avesse significato il Sovrano nei due primi colloqui non è detto
nulla?
Quanto ai motivi per i quali
il Sovrano non avrebbe firmato il decreto, P. Silva riporta che il Re avrebbe
detto a Facta che «lo stato d'assedio opposto ai fascisti sarebbe stata la
guerra civile con le sue gravissime conseguenze» , aggiungendo che «non era
possibile né augurabile soffocare nel sangue un movimento così forte nel Paese
e così sorretto dall'opinione nazionale» (8). E aggiunge ancora altro motivo: «la
ragione addotta dal Re collimava con la dichiarazione fatta poco prima al
telefono da Federzoni il quale, in comunicazione col «Popolo d’Italia» di
Milano alle nove di quel mattino, aveva insistito perché fosse fatto sapere a
Mussolini «che perché il Re non prenda delle determinazioni che senza dubbio
aggraverebbero la situazione incalcolabilmente, bisognava che potesse agire e
subito (incarico a Mussolini) in condizione di visibile libertà, cioè che non
esistesse una pressione... insomma esteriore » (9).
L'opera del Re pertanto non
poteva essere più avveduta e più evidente e così fu giudicata allora e di poi
universalmente in Italia e all'estero. È appena il caso di aggiungere che fu
pura e maligna invenzione quanto fu affermato dai Partiti, avversari alla
Monarchia che il Re avesse cambiato avviso, in seguito a interferenze del Duca
di Aosta. per il timore di veder sostituita la linea secondogenita: chi più
deve aver sofferto di tale insinuazione fu certo il Duca d'Aosta stesso. Il suo
testamento spirituale fa ripetuto cenno della sua lealtà: « Innalzo a Dio il mio
pensiero riconoscente per avermi concesso nella
vita infinite grazie, ma soprattutto quella di servire la Patria e il
mio Re con onore ed umiltà, » e più oltre «...al mio augusto Sovrano che ho servito
sempre con lealtà., con ardore e con fede, rivolgo... » (10). Non è in punto di
morte che un credente e uomo di onore scrive tali attestazioni se non fossero
le più sincere.
Scartata l'idea di
fronteggiare e di sperdere i fascisti,
restava di avvisare come provvedere al dimani. Ho già accennato che il Sovrano
si era reso conto che il movimento fascista era forte in Paese e sorretto
dall'opinione nazionale; e non aveva torto. Scrittori di ogni tendenza
l'accertarono allora e di poi: Sforza nella citata sua opera scrive: «Pochi uomini
furono accompagnati più di Mussolini da voti di successo così numerosi anche se
soltanto rassegnati» (11). E Bonomi: «Corrono a lui reduci di guerra,
intellettuali, studenti, professionisti, piccoli borghesi mossi da uno spirito
idealista di Patria in apposizione alla prepotenza bruta di folle incolte ed
illuse...; finalmente lo ingrossano le folte schiere degli agrari e degli
industriali che vedono in lui uno strumento efficace per distruggere la
minaccia rossa e ristabilire l'ordine nella produzione e nel lavoro » (12). E
ancora ultimamente - 14 ottobre 1945 – nella Gazzetta d'Italia», Labriola
ricordava un suo discorso del 2 aprile 1924 in cui non dubitava di affermare
che «sarebbe difficile negare che nell'ottobre 1922 il Paese non aveva nessuna
voglia di ostacolare la strada al fascismo, come movimento che assumeva di
voler ristabilire la pace interna e di combattere socialismo, il Fascismo
rispondeva a sentimenti abbastanza diffusi…; il
Paese desideroso di pace aiutò il successo del movimento fascista».
Né, possiamo dimenticare che
nello stesso esercito, pur nella totalità fedele al Re, si intravvedevano
correnti non del tutto contrarie a Mussolini, come scrive Alfredo Misuri (13). «...
l'esercito lusingato dalla magnifica rinascita dello spirito guerriero della
stirpe, con la massa enorme degli smobilitati in attesa di sistemazione nella
vita civile che speravano in una ripresa militare; con la massa minore ma
sempre vigile ed attiva degli Ufficiali costretti a vegetare fuori quadri in
posizioni ausiliarie, o che so io, che speravano una ripresa di carriera ed influenzavano i fortunati
colleghi rimasti in servizio attivo a non opporsi, anzi a favorire la rinascita
di uno spirito avventuroso che avrebbe ridato forza alla Nazione, le avrebbe
consentito di conseguire altre vittorie le quali questa volta non sarebbero
state mutilate con la sopportazione dì uomini ad arrestare la Marcia su Roma ».
Il Sovrano pertanto, pur essendo
a conoscenza chele trattative iniziate da Mussolini con Giolitti dopo il
Congresso di Napoli per un Ministero da questi presieduto, ma con otto
dicasteri ai fascisti, era stato alla fine silurato dallo stesso Mussolini, il
quale aveva cercato solo di guadagnare tempo, non credette poter esimersi da un
ultimo analogo tentativo a mezzo di Salandra; ma Mussolini dichiarò « che per
arrivare ad una transazione con Salandra non valeva la pena di mobilitare e che
il Governo doveva essere nettamente fascista»: telegramma della notte del 29 al
giornale « il Mezzogiorno » di Napoli (14)
E poiché ogni tentativo per
far andare Mussolini a Roma a conferire col Sovrano e con Salandra urtò nella
categorica risposta che non si sarebbe mosso da Milano se non dopo aver ricevuto l'incarico di comporre
il Ministero, il Sovrano, su consiglio dello stesso Salandra, incaricò De
Vecchi di mettersi i contatto con Mussolini e dichiarargli che gli affidava
l'incarico di comporre il Ministero (15). Del resto fin dal 13 agosto il sen.
Albertini non aveva dubitato di affermare in Senato che «era arrivata l'ora di
riconoscere che il miglior mezzo di togliere ogni pretesto alla violenza era di
chiamare i fascisti a dar prova della loro capacità di dirigere la cosa
pubblica e mantenere le loro promesse. E lo stesso aveva il 27 ottobre
telegrafato al Gen. Cittadini, Primo Aiutante di campo di S. M. che « era
inutile pensare ad una combinazione Salandra essendo ineluttabile l'esperimento
Mussolini» (3).
Tutto questo bisogna aver
presente per giudicare dell'opera del. Re; da una parte riportarsi alle gravi
condizioni di allora e dall'altra ricordare Mussolini dell'ottobre 1922, non
quale lo vedremo al 1925 e tanto meno come lo possiamo giudicare ora.
Il procedimento del Sovrano fu
allora favorevolmente accolto da tutta la stampa; da tutti si plaudiva al Re
per aver evitato il conflitto fra l'esercito, e le squadre fasciste e non fu
solo plauso di «allora», ma per molti anni in Italia e all'estero «salì verso
il Sovrano per quell'atto tempestivo e coraggioso un coro di elogi » ..
E Mussolini, indubbiamente
tempista, come si compiacevano dichiararlo i suoi seguaci, non» solo ordinò
subito lo scioglimento delle squadre, ma non mancò di ammonire, — sia pure, si
disse, per ispirazione sovrana — gli Ufficiali di astenersi da dimostrazioni e
dalle lotte dei partiti, e costituì un ministero da consolidare la fiducia
della Nazione, chiamando a farne parte coi tecnici militari Diaz e Thaon di
Revel, i rappresentanti di ogni colore politico costituzionale, dai fascisti ai
liberali, ai democratici, ai giolittiani, nittiani, popolari — i democristiani
di allora, — ciò che col Paese, deve aver rassicurato anche il Re.
(1)
Pietro Silva - Io difendo la Monarchia, pag. 12
e segg. Ed de Fonseca - Roma 1946.
(2)
Carlo Sforza, l'Italia dal 1914 al 1944 quale
io la vidi. pag. 136. Ed. Mondadori, 1944.
(3)
lvanoe Bonomi: Edizioni Mondadori. Dal
Socialismo al Fascismo.
(4)
Efrem Ferraris: La Marcia su Roma veduta dal
Viminale.
(5) Efrem Ferraris Op. cit
(6) Efrem Ferraris Op. cit
(7) Efrem Ferraris Op. cit
(8)
Pietro Silva op.cit pag 62
(9)
E Ferraris op.cit
(10) Testamento
spirituale di S.A.R Emanuele Filiberto di Savoia Duca d’Aosata
(11) Carlo
Sfrorza op cit pag 148
(12) Ivanoe
Bonomi op cit pag 44
(13) Alfredo
Misuri con la Monarchia o verso la repubblica
(14) E. Ferraris
op cit pag 108, 125, 122
(15) P.
Silva op cit pag 67
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