di Emilio Del Bel Belluz
Quello che si aspettava Carnera si stava verificando nel mese di novembre del 1945. Gli avevano proposto di incontrare al posto di Giovanni Martin che s’era infortunato, un pugile che non conosceva ma che un tempo era uno dei migliori pesi mediomassimi in circolazione: Luigi Musina, che ora rientrava nella categoria superiore dei pesi massimi. Dopo la guerra era aumentato di peso, e ora voleva farsi un nome nella massima categoria. Musina era originario di Gorizia: la città dove il gigante di Sequals aveva incontrato la donna della sua vita, quella che continuava a dargli le gioie più grandi. Quando venne a sapere la provenienza del suo avversario gli venne spontaneo chiedere a sua moglie se lo conoscesse, o se lo avesse mai visto in posta a Gorizia. La donna non l’aveva mai sentito nominare, ma ogni avversario che il suo amore incontrava sul ring era sempre pericoloso. Pina non aveva mai dimenticato le volte in cui Carnera gli aveva parlato di quella sera in cui aveva incontrato Ernie Schaaf, e di come fosse stato drammatico l’epilogo di quell’incontro. Non aveva mai dimenticato la morte di Schaaf e pure Pina pensava spesso a lui, e a sua madre. Carnera in quel periodo era felice, aveva l’impressione che qualcosa stesse per accadere di positivo. Il grande Primo sperava di tornare imbattibile, gli bastava anche un titolo italiano. La federazione pugilistica gli aveva permesso di combattere e quindi aveva fiducia in lui, non poteva deluderla. Carnera aveva deciso di allenarsi con maggiore serietà, non poteva fallire, e per questo arrivò a Sequals un ottimo peso massimo ungherese, che voleva abitare in Italia. Quel peso massimo aveva le stesse caratteristiche di Luigi Musina. Quel pugile aveva combattuto spesso fuori della’Ungheria perché nel suo Paese non si organizzavano incontri di un certo rilievo, e come si usava dire faceva la fame, tenendo conto che aveva anche una moglie e tre figli da mantenere. Carnera lo ospitò nella sua casa, e mancavano diciotto giorni al combattimento di _Milano che era stato fissato sulla distanza di dieci riprese. La data era quella del 21 novembre 1945. In quella città, pochi mesi prima, era stato appeso per i piedi, dopo l’uccisione, il suo amico Benito Mussolini, a Piazzale Loreto. Quell’ episodio gli veniva in mente spesso, anche lui aveva rischiato di essere fucilato dai partigiani. Quando apprese della morte di Mussolini rimase molto rattristato, e in quella settimana aveva riguardato le foto che lo ritraevano assieme a Mussolini e ad altri gerarchi, pure loro uccisi. La morte di Mussolini era stata una pagina davvero oscura della storia italiana. Carnera non si spiegava come Mussolini, che aveva ottenuto una grande popolarità tra gli italiani, fosse subito dopo la sua morte, dimenticato da molti di loro. Gli vennero in mente le parole del filosofo Sofocle che diceva: “ Non chiamiamo nessuno felice, prima che abbia terminato senza patire mali, la vita ”. Quella citazione l’aveva trovata in una pagina di un giornale. La vita ci poteva sempre riservare delle brutte sorprese. Finalmente era giunto il giorno dell’incontro con Musina. I giornali avevano parlato dell’evento, e alcuni giornalisti erano venuti ad assistere al match, e in quel giorno successe di tutto. “ Il Teatro Nazionale ha seimila posti. E la sera del 21 novembre 1945 sono ventimila le persone che circondano il locale per vedere Carnera, per applaudirlo, per riempirsi la vista e il cuore con un mito splendido del loro passato. Un mito intatto e pulito, un mito valido, non illusorio, se è sopravvissuto alle sconfitte atletiche e all’inferno della guerra. L’organizzatore Gino Officio, prevedendo un “ tutto esaurito ”, ha convinto le autorità a disporre un grosso servizio d’ordine: 200 carabinieri, 160 agenti. Di suo ci mette 60 controllori. Lo schieramento si dimostra insufficiente. La folla dà l’assalto, spazza via i cordoni di protezione. Pochissimi hanno il biglietto. C’è di più: i “ portoghesi “ riescono a entrare dal tetto abbattendo i finestroni e dagli scantinati sfondano le porte. Tre carabinieri finiscono all’ospedale. Molte donne svengono. In quel caos ci sono anche le donne, sissignori. Interviene la military Police. Con le sirene che ululano, e le manganellate piovono come grandine. “ E’una bolgia dantesca” scrive Rosario Busacca. Il primo incontro ha inizio con mezz’ora di ritardo. Quello di Carnera è il secondo. Ma la teppa scatena una vera battaglia. Il ring viene occupato. Esplodono zuffe e pugilati di gruppo. L’altoparlante raccomanda la calma. Tempo perso. La Military Police torna a pestare. Gli agenti sparano dei colpi di pistola in aria . Tutto inutile. La riunione è sospesa. Carnera se la squaglia da un’uscita laterale e cerca rifugio in un bar. Ha freddo . Gli ammiratori lo assediano e gli offrono da bere. Un cognac, due cognac. Una sigaretta, due sigarette. Poi alle 22,25 ecco il contrordine. Le autorità di polizia decidono che la riunione debba riprendere. Temono che gli spettatori, inferociti, diano fuoco alla sala. “Carnera dov’è? “ Lo trovano al bar. Gli impongono di prepararsi. E alla svelta: non c’è tempo da perdere. Ma il gigante non è più in condizione di salire sul quadrato. I due cognac e le due sigarette gli hanno dato alla testa. Nel primo round, difatti, va giù due volte. È un fantasma. Non si muove sulle gambe. Resiste fino alla sesta ripresa, un po’ per mestiere e molto perché Musina cerca di tenerlo in piedi e di non giustiziarlo troppo presto. Alla settima il campione d’Europa forza l’andatura e Carnera è travolto, senza scampo. Solo la spugna salva il povero colosso. Musina è portato in trionfo. Ma la sua è una vittoria da maramaldo. L’incasso netto supera il mezzo milione di lire. Non basterà nemmeno per indennizzare le parti lese e per riparare i danni sofferti del teatro. Altro che affare. La prosa di Busacca è granguignolesca: “ Carnera era a terra domo e vinto, ormai: gli occhi spenti e il grosso corpo prono. Era stramazzato sull’assito, come toro colpito dalla mazzata del beccaio. E quanta gente attorno al ring. Scena d’anfiteatro notturno. Nera e fumosa bolgia con l’accecante luce delle lampade concentrate sull’agonia del campione”. È destino che Carnera deluda sempre, a Milano. Implacabili, i cronisti sportivi vanno a visitarlo, nel camerino. Primo ha l’occhio destro tumefatto e tanta tristezza sul volto. “ Avevo le idee confuse e le gambe di legno” dice a bassa voce. “ Musina mi ha colpito subito duro. Quei cognac mi hanno demolito prima di Musina, che pure è bravo, un bell’atleta che conosce il mestiere.” ( Primo Carnera- L’uomo più forte del mondo- Aldo Santini). Ma Carnera non si arrese. Parlò di andare in America, e di battersi contro Buddy Baer, il fratello minore del suo antico rivale. Nel frattempo incontrò di nuovo Musina il 19 marzo 1946, a Trieste, e perse ai punti in otto riprese. L’incasso fu buono. In seguito il terzo match a Gorizia, il 12 maggio. Nuova sconfitta, sempre al limite delle otto riprese. Primo comprese di aver chiuso con il pugilato. Questi cinque combattimenti gli avevano reso poco, anzi pochissimo, privandolo di qualsiasi credibilità. Carnera sapeva che il mondo della boxe non gli avrebbe dato più da vivere, e non meritava più di insistere. Il suo fisico non era più all’altezza per quello sport. Gli venne offerta la possibilità di tornare in America, questa volta non come pugile, ma come lottatore e con la speranza di poter fare dei grandi guadagni. Nel mondo del cinema americano tanti registi lo cercavano, ma non era nelle sue intenzioni fare ancora l’attore. Carnera appariva triste e sfiduciato, l’attuale parentesi pugilistica non aveva dato i frutti sperati. Quella prima sconfitta contro Musina gli aveva fatto veramente male, e la città di Milano non gli aveva mai portato qualcosa di buono. L’ultima volta nel 1942 gli avevano rubato una penna stilografica a cui era molto affezionato. Ritornato a Sequals poté confidare tutte le sue tristezze all’adorata moglie. La madre non era presente, si trovava nella camera accanto, ammalata. La situazione non era delle migliori, la terza sconfitta patita contro Musina era avvenuta proprio nella città dove aveva conosciuto la donna della sua vita. Quel 12 maggio del 1946 non poteva in nessun modo essere scordato. Il suo amico, principe Umberto di Savoia era diventato il 9 maggio Re d’Italia. Gli italiani si apprestavano a votare il referendum istituzionale. Nella grande cucina aveva giocato con i suoi figli, e ad Umberto aveva ricordato che ora aveva un nome da Re. Con la moglie Pina ricordò i momenti in cui incontrò il Principe Umberto. In un giornale Carnera aveva visto una foto che raffigurava il Re attorniato da tanta gente, e le bandiere Sabaude che garrivano al vento. Carnera da quando era tornato dopo la terza sconfitta contro Musina aveva esposto la bandiera con lo stemma Sabaudo, un omaggio al nuovo sovrano. In quei giorni pregò il buon Dio che lo aiutasse a trovare una nuova via. Pina temeva che potesse scoppiare una guerra civile tra la fazione dei monarchici e quella dei repubblicani. Alle volte si metteva a guardare i bambini, le sarebbe piaciuto avere altri figli, per lei la maternità era davvero la cosa più bella. Ma non era il momento, non ne aveva parlato a Primo, che di sicuro avrebbe voluto altri figli. Una mattina Carnera ricevette una lettera dall’America, non era strano ricevere posta da quel Paese, molti tifosi gli scrivevano per ricevere una foto con dedica. Il postino consegnava sempre tanta corrispondenza a Primo, e proprio l’altro giorno aveva ricevuto delle notizie da un suo amico che si trovava a New York. La lettera che subito catturò la sua attenzione era di Aldo Spoldi, un pugile che gli era amico e che aveva conosciuto ancora dal suo primo incontro di Milano. Quel ragazzo di allora combatteva nella categoria dei pesi leggeri, e ricordava che i suoi piedi erano capaci di entrare in una scarpa di Primo. Carnera chiamò la moglie che si trovava fuori e le chiese di rientrare. Carnera le lesse la lettera a voce alta che si sentiva fino in strada, il suo amico Aldo Spoldi gli diceva che in America almeno una ventina di quotidiani avevano scritto che lui era morto durante la seconda guerra mondiale, e queste notizie erano poi state smentite da altri giornali. Aldo chiedeva a Carnera di poter venire in America. Il grande organizzatore di pugilato Babe Mc Coy gli offriva la possibilità di fare una serie di incontri di lotta libera in giro per l’America. La gente americana non lo aveva dimenticato, e voleva che tornasse. Gli veniva offerto quindi un buon contratto e se fosse risultato vittorioso negli incontri, avrebbe guadagnato delle buone borse che avrebbero risanato la sua situazione economica. Aldo gli aveva detto che aveva incontrato il pugile Philip La Barba che lo attendeva. Pina mentre Primo leggeva la lettera commentò che forse una strada si stava finalmente aprendo, una speranza dopo tante delusioni e paure. L’avvenire dei figli doveva essere assicurato. Carnera soddisfatto di quello che aveva letto, s’incamminò, seguito dalla moglie verso lo studio per scrivere che accettava la proposta dei suoi amici. Sulla scrivania aveva un crocefisso, e osservandolo lo ringraziò perché si era ricordato di lui. Pina pensava alle tante preghiere che aveva fatto nell’ultimo periodo e alle candele che la mamma di Carnera aveva portato alla Madonna supplicando il suo aiuto. Primo scrisse la lettera con una calligrafia data da una mano tremante dall’emozione. Aldo Spoldi, che durante la guerra era rimasto in America, aveva dovuto fermare ogni attività perché essendo italiano, venne considerato nemico degli Stati Uniti: una mortificazione che non meritava. Gli italiani residenti in America durante la guerra furono trattati in malo modo. Primo andò a imbucare subito la lettera, e volle prima di chiuderla mettervi una foto sua assieme alla famiglia, di cui andava orgoglioso. Nei giorni che seguirono la famiglia Carnera attendeva la riposta dall’America che avrebbe cambiato in positivo le loro vite. La situazione politica in Italia non era molto tranquilla, si avvicinava la data del referendum istituzionale, e dai giornali lesse una frase del politico Nenni che lo impressionò molto, perché sentenziava:” O la repubblica o il caos “ . Pensò al suo amico Re Umberto II che stava girando l’Italia per convincere il popolo a votare per la monarchia. Quanto gli sarebbe piaciuto essergli vicino, dirgli che lo stimava, e che sperava che potesse continuare a governare. Venne il tempo delle elezioni e dai risultati vinse la repubblica con una maggioranza minima sulla monarchia. Carnera ne fu dispiaciuto, e condivise questi pensieri con Pina che non disse nulla. La monarchia era finita, e Carnera aveva letto che erano stati contestati i risultati. Si parlava di evidenti brogli, e a Napoli c’erano state delle vittime, persone che tenevano tra le mani la bandiera del re con l’intento di contestare i risultati. La monarchia aveva vinto da Roma in giù con percentuali davvero sorprendenti. Qualche giorno dopo, mentre stava lavorando in giardino, la moglie lo informò che il Re Umberto II era andato in esilio: era il 13 giugno del 1946. Carnera rimase molto rattristato, il suo amico aveva lasciato l’Italia per andare in Portogallo. La sera, prima di addormentarsi, pensò all’ incontro che aveva avuto con lui e alla gioia che aveva provato nel momento in cui la moglie gli aveva detto che se il figlio che aspettava fosse stato un maschio, l’avrebbe chiamato Umberto e così fu. Nei giorni che seguirono Carnera lesse dai giornali che il Re era partito dopo aver ricevuto il commosso saluto dei Corazzieri, e una donna gli aveva dato della terra italiana da portare con sé: un gesto commovente. Quella donna non aveva potuto fare altro per dimostrare la sua fedeltà al Re. Alcune foto che Primo gelosamente custodiva, lo raffiguravano mentre con la mano salutava, prima che il portellone dell’aereo si chiudesse. Pina commentando quella foto gli vennero in mente i figli del re che già avevano abbandonato l’Italia assieme alla madre e si commosse. Carnera non disse nulla e mangiò con grande malinconia la polenta che sua madre aveva preparato assieme a del salame cotto. Una pagina della storia italiana si era chiusa, ma lui non avrebbe potuto dimenticare i Savoia. Qualche settimana dopo ricevette una lettera da Aldo Spoldi che lo invitava ad andare in America, dove lo avrebbe atteso e aiutato a sistemarsi. Carnera s’apprestò per preparare i documenti e il denaro che gli serviva per comprare il biglietto dell’aereo che avrebbe preso per la prima volta. Pina doveva rimanere a casa con i figli, se le cose si fossero messe bene lo avrebbero raggiunto. I giornali riportavano la notizia della sua partenza, e un giornalista del Gazzettino era giunto a Sequals e lo aveva intervistato a lungo. Primo aveva dichiarato che lasciare il suo paese era una grande pena nel cuore, ma gli si offriva una possibilità che non poteva non accettare. Carnera disse che soffriva nel partire solo, e lasciare la famiglia e la mamma malata al paese. Il campione si era lasciato andare a qualche pensiero malinconico, ma bisognava andare avanti, ogni giorno si doveva scrivere una pagina nuova nel libro della vita. Anche Pina appariva molto turbata e triste per la partenza del marito. Carnera arrivò in America nell’agosto del 1946, tra qualche mese avrebbe compiuto quarant’ anni, e non erano pochi per un atleta. L’America continuava ad essere generosa con lui, perché gli offriva la possibilità di ricominciare a sperare. All’arrivo in aeroporto incontrò il suo amico Aldo Spoldi, che lo abbracciò con gioia, e con lui c’era anche il sostenitore di sempre, Philip la Barba che aveva salvato dalla fame lui e i suoi compaesani con quelle casse di cibo mandate dal cielo con l’aereo e successivamente per via terra. Nel mondo della boxe era molto sentito il cameratismo. Carnera e i suoi amici non erano usciti dall’aeroporto che furono avvicinati da un signore piuttosto robusto vestito di scuro, che con aria austera chiese a Primo che si presentasse. Carnera con il suo vocione pensava che questi lo schermisse e gli disse che avrebbe dovuto riconoscerlo, data la sua popolarità in America. Questo signore gli domandò per la seconda volta che si presentasse. Carnera lo assecondò, temendo che ci fossero delle irregolarità sui suoi documenti. Con sua grande sorpresa, l’uomo estrasse dalla sua giacca una busta bianca e la diede a Carnera dicendogli: “ Sono duemila dollari di tasse governative che lei ha pagato in più di quanto dovesse”. Questa somma era rimasta nelle mani del governo americano dal 1936 al 1946, maturando anche degli interessi. Questo fu il primo contatto che Carnera ebbe con lo stato americano. Primo osservò subito il contenuto della busta, non vedeva tanto denaro da molto tempo, e quasi si commosse. Il suo pensiero fu per i figli e la moglie, e la prima cosa che voleva fare era quella di spedire la somma a casa. Questa sorpresa fu un ottimo benvenuto da parte della vita, ma ora bisognava fare un passo in avanti maggiore. Carnera nei primi giorni della sua permanenza in America aveva compreso che doveva iniziare tutto da capo. I sui amici gli avevano offerto una possibilità che non poteva fallire, Lo consolava molto nel vedere che gli italo-americani non l’avevano scordato e lo accoglievano con grande calore, come si faceva con un amico che ritornava a casa. Dall’Italia non si era portato molte cose, la sua valigia era quella di un emigrante che stavolta era arrivato in aereo. Quei pochi vestiti consunti dovevano essere sostituiti, pertanto, fu accompagnato da un sarto che gli prese le misure per una serie di abiti. Carnera ci teneva a vestire bene. Dentro di sé c’era una grande voglia di ricominciare, e Aldo Spoldi lo faceva sentire a suo agio. Nel momento in cui si incontrarono con il nuovo procuratore, fu firmato un primo accordo economico molto vantaggioso, Carnera richiese anche la presenza di un suo avvocato che analizzasse tutti i contratti che avrebbe sottoscritto d’ora in avanti. Non voleva essere truffato come era successo in passato. L’ avvocato avrebbe percepito l’1% degli incassi, ma d’altro canto, avrebbe donato una grande tranquillità al campione. Secondo il contratto Carnera doveva combattere quasi ogni giorno e in posti diversi dell’America. Quando vi era stato per la prima volta, come boxeur combatteva anche tre- quattro volte al mese, senza risparmiarsi, ma allora era più giovane.
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