NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 27 marzo 2019

Il Regno del Sud.

Storie, personaggi, curiosità degli ultimi anni della Monarchia, con Riccardo Rossotto

Mercoledì 3 aprile 2019, Ore 18:00



Torino - L’avvocato Riccardo Rossotto torna al Circolo dei lettori mercoledì 3 aprile, ore 18, col suo libro Il regno del Sud. Storie, personaggi, curiosità degli ultimi anni della monarchia (Mattioli 1885), una approfondita e inedita ricostruzione della svolta di Salerno con l’irruzione sul palcoscenico della politica nazionale della figura di Palmiro Togliatti.
È quindi un libro che offre l’opportunità di una rilettura di un periodo fondamentale per comprendere come mai siamo diventati così, con tutti i pregi e soprattutto i difetti che conosciamo bene.

https://www.mentelocale.it/torino/eventi/120068-il-regno-del-sud-storie-personaggi-curiosita-degli-ultimi-anni-della-monarchia-con-riccardo-rossotto.htm

lunedì 25 marzo 2019

Pedro Sanchez non vale un Franco

Il fanatismo dei neosocialisti spagnoli


di Aldo A. Mola
 
Pedro Sánchez il becchino 
“Quieta non movère” è un saggio mònito degli antichi. Invece il chiodo fisso dei neosocialisti spagnoli, da Zapatero a Pedro Sánchez, è rimuovere la salma di Francisco Franco dal Valle de los Caídos per trasferirla nella cripta più nascosta di Spagna. Zapatero ci provò per anni, invano. Sánchez ripete la litania. Ha persino strappato il tacito consenso delle Cortes, con silenzi opachi e astensioni del Partito popolare e di Ciudadanos, sempre affetti dall'orticaria quando si parla di Franco e del Franchismo, quasi arrivino da un altro pianeta anziché dalla lunghissima transizione che vide alternarsi al governo senza traumi i socialisti di Felipe González e i popolari di Aznar. Da quando è stato battuto in Parlamento e ha dovuto indire elezioni anticipate per il prossimo 28 aprile, Sánchez ne sta facendo una questione di vita o di morte. Poiché spera che la nascita di un nuovo governo vada per le lunghe, ha fissato al 10 giugno il giorno nel quale, costi quel che costi, la salma imbalsamata di Francisco Franco y Bahamonde va assolutamente rimossa, malgrado l'opposizione del priore dell'Abbazia benedettina di Santa Cruz, Santiago Cantera, dipinto come bieco reazionario. Contro la pretesa di Sánchez e dei suoi accoliti sono schierati all'unanimità i sette nipoti di Franco (Carmen, Mariola, Francis, Merry, Cristóbal, Arancha e Jaime), l’Associazione per la Difesa del Valle de los Caídos e un ventaglio di organizzazioni sempre più decise a difendere la memoria autentica del Paese. In attesa che il Tribunale Supremo dello Stato si pronunci sui molti ricorsi pendenti, Sánchez fa della estumulazione uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale. Il suo vero obiettivo, però, non è rimuovere quel che resta del Caudillo di Spagna (come Franco venne detto ai tempi della sua sanguinosa ascesa) ma intimidire Popolari e Ciudadanos, ricattarli con l'accusa di paleofranchismo, di “fascismo eterno” (il “vangelo” di Umberto Eco, ora riecheggiato da Francesco Filippi in “Mussolini ha fatto anche opere buone”, ed. Bollati-Boringhieri). In realtà Sánchez mira a “provocare” e ad infoltire le file di “Vox”, il movimento sorto proprio contro l'estremismo neosocialista e la flebilità dei “moderati”. In tal modo calcola di frantumare il fronte avversario in tre corpi separati e di batterli alle elezioni, grazie alla legge elettorale vigente, pensata per il bipartitismo, non per il caleidoscopio di partitelli e partitini (autonomisti come i “canarini”, indipendentisti, separatisti, federalisti, repubblicani senza se e senza ma...), causa sicura della deflagrazione se non vi fosse lo scudo della monarchia.

Le radici dell'ascesa di Francisco Franco al potere
Ma perché mai l'ossessione neosocialista ispanica per la salma di Franco? Come tutte le “idee fisse”, anche questa non è affatto un mistero. A ben vedere è una sorta di franchismo uguale e contrario. Riassumiamo.
Il Caudillo nacque in una famiglia di liberi pensatori. Lo era suo padre, che gli preferiva il fratello, Ramón, massone accanito come altri consanguinei, poi da Francisco abbandonati alla furia dei reazionari. Il futuro Jefe del Estado fece una brillante carriera nell'esercito, conseguì successi Oltremare e divenne il più giovane generale d'Europa. Però non avrebbe mai avuto spazio politico se la Spagna fosse stata capace di darsi un governo parlamentare stabile. Il dramma del Paese arrivava dal suo passato remoto: secoli di “reconquista cristiana” dal giogo dei “moros” e, nel Cinquecento, la lotta per la “limpieza de sangre”, che impose a islamici e a ebrei di andarsene o di travestirsi da moriscos e da marranos, convertiti ma sospettati. La pace di Utrecht (1713), dopo la guerra di successione sul trono di Madrid, segnò il passaggio dagli Asburgo (“Los Austria”) ai Borbone di Francia. Nel 1808 Napoleone I invase la Spagna e impose re suo fratello maggiore, Giuseppe, “don José Primero”. La feroce guerriglia per l'indipendenza, sorretta dagli inglesi, non finì con la cacciata degli invasori ma con l'annientamento degli “afrancesados”, uccisi o costretti all'esilio. Era la vendetta contro la repressione bonapartistica immortalata da Francisco Goya nel “Dos de Mayo”, rivendicazione popolare contro i metodi insopportabili degli occupanti (gli aristocratici in buona parte si erano “accomodati”). L'Ottocento in Spagna fu un secolo di moti liberali (quasi sempre guidati da militari), di sette segrete e di guerre tra opposti rami della dinastia (uno, reazionario, guidato da don Carlos, contrario alla successione femminile sul trono di Madrid), e di complotti che finirono con l'assegnazione della corona a un re designato dalle Cortes: Amedeo di Savoia, Duca d'Aosta, secondogenito del re d'Italia,Vittorio Emanuele II. Don Amadeo Primero regnò poco più di un anno, col beneplacito del “concerto europeo”, ma dovette fare i conti con il malcontento (locale ed eterodiretto) culminato in vari attentati.
Dopo un'effimera repubblica e il ritorno dei Borbone con Alfonso XII e la perdita di Cuba e delle Filippine (1898), lacerata da movimenti rivoluzionari anarco-socialisti (ne fu campione  e vittima Francisco Ferrer y Guardia, fucilato quale promotore della “semana trágica”), la Spagna parve appartarsi dalla storia d'Europa. Evitò di immischiarsi nella Grande Guerra. La sua economia crebbe, come documenta Fernando García Sanz in opere tradotte anche in italiano. Dalle turbolenze postbelliche uscì non con dittature più o meno totalitarie come avvenne dalla Russia all'Italia e alla Germania ma con un governo autoritario e fattivo, presieduto da Miguel Primo de Rivera. Stanco di opposizioni querule, de Rivera si dimise e si trasferì a Parigi. Nel 1931, all'indomani del successo delle sinistre nelle elezioni amministrative, Alfonso XIII di Borbone lasciò la Spagna senza rinunciare alla Corona. A Madrid venne proclamata la seconda Repubblica. Iniziarono anni di travagli. Si scatenò l'anticlericalismo serpeggiante nel Paese come fiume carsico. Furono dati alle fiamme chiese e monasteri e vennero perpetrate infamie ai danni dei cattolici, documentate da Arturo Mario Iannaccone nell'inoppugnabile “Persecuzione. La repressione della Chiesa in Spagna fra Seconda Repubblica e guerra civile, 1931-1939” (ed. Lindau).
Dopo cinque anni di disordini, in risposta al brutale assassinio del monarchico José Calvo Sotelo da parte dei “rossi”, con l'alzamiento di quattro generali nel luglio 1936 la Spagna precipitò nella guerra civile. Accordi sovraordinati indicarono nel generale José Sanjurjo, già promotore di un colpo di stato militare contro la Repubblica, il capo di una giunta comprendente Emilio Mola, vero “direttore del golpe”, Franco e Queipo de Llano. L'aereo che riportava Sanjurjo dal Portogallo in Spagna cadde, forse per il peso eccessivo del bagaglio. Il suo potenziale successore, Mola, repubblicano, sospettato a torto di affiliazione massonica, nel 1937 a sua volta morì in incidente aereo. Queipo era un sanguinario succubo del fascino femminile e dell'alcol, privo di fiuto politico. Rimase Franco, che pazientemente raccolse via via al suo seguito tutti i nemici della Repubblica di Madrid: i falangisti di José Antonio Primo de Rivera, figlio di Miguel, i requetés (monarchici “carlisti”) e un ventaglio di movimenti e personalità. Tutti vennero benedetti dall'alto clero spagnolo e da papa Pio XI, che condannò il nazionalsocialismo pagano di Hitler, il bolscevismo materialistico di Stalin e non aveva certo motivo di avversare chi, come Franco, in Spagna combatteva contro atei dichiarati e anticlericali fanatici. La guerra civile fu orrenda. Franco era vendicativo e crudele. Oltremare aveva utilizzato reparti speciali “di colore” contro i marocchini. Altrettanto fecero tutti gli eserciti coloniali dell'epoca. Mescolò motivazioni di varia genesi. Tra le sue vittime emblematiche rimane Federico García Lorca, che agli occhi dei conservatori rappresentava l'“Anti-Spagna”, anti-nazionale e più “scostumata” che libertina. Eppure da mezzo secolo in Spagna cresceva l'appello alla modernizzazione. Ne erano stati portavoce e interpreti letterati, storici e politici di alto profilo come Miguel Azaña (massone per un giorno), Alcalá Zamora, Alejandro Lerroux, Diego Martínez Barrio, più conservatori che rivoluzionari. Della vera Spagna furono interpreti Miguel de Unamuno e i tanti militari “di loggia” che passarono a fianco dei Quattro generali.


Non fu Franco a semplificare il conflitto e a ridurlo a lotta mortale tra le tenebre e la luce. In realtà, e lo documentano l'inglese Paul Preston, Juan Pablo Fusi e Fernando Cortázar, vi erano non due ma tre Spagne: la rivoluzionaria, la reazionaria e quella che aspirava a liberarsi dalla taccia di “Spagna invertebrata” e a farsi Europa, liberale, democratica, non senza influssi massonici come si legge in “L'integrazione europea e la penisola iberica” (a cura di Romain H. Rainero, ed. Marzorati). Era la Spagna che aveva alle spalle il filosofo e pedagogista tedesco Krause, l'“ideario spagnolo” di Angel Ganivet e Ortega y Gasset. 
La massoneria ebbe un ruolo specifico nel dramma? Ne hanno scritto storici di vaglia come Maria Dolores Gómez Molleda, José Antonio Ferrer Benimeli e Juan José Ruiz Morales, autore di “Palabras asesinas” e di poderosi  saggi sulla repressione di comunisti e massoni da parte di Franco. I fatti però dicono che molti “fratelli” di alto rango, militari, politici e “intellettuali”, si schierarono con il Caudillo. Franco era massonofago. Lo mostrò  negli articoli pubblicati tra il 1947 e il 1950, con lo pseudonimo di J. Boor (una contraffazione delle “lettere” incise  sulle colonne dei Templi: J. B.). Secondo Franco le logge erano al servizio degli stranieri, anzitutto i francesi, i sovietici e le brigate internazionali che portarono migliaia di volontari in Spagna a fianco della Repubblica. Per vincere davvero la Spagna, “faccia al sole e camicia nuova”, doveva eradicare l'altra, la rivoluzionaria, e  spazzare via la “terra di mezzo”. Lo fece con la benedizione del Pontificato. Pio XII scomunicò Juan Perón (caso unico di un capo di Stato cattolico nella storia moderna della Chiesa) e conferì l'Ordine del Cristo a Franco, suscitando l'indignazione di tanti fedeli, anche in Italia. Non solo per il papa, da quindici anni Franco era divenuto il simbolo della lotta contro il “comunismo”. Se questo fosse prevalso a Madrid, l'Europa centro-occidentale avrebbe visto cancellato forse per sempre illuminismo, liberismo, diritti dell'uomo. Per quanto paradossale, proprio in Spagna venne combattuta una battaglia decisiva, che vide anarchici, liberali e molti socialisti spazzati via non da Franco ma dai moscoviti ortodossi, come Palmiro Togliatti, Longo e Vidali.  

Verso la Spagna attuale: Opus dei e instaurazione della monarchia. 
Ma Franco non è né può essere ridotto solo al Caudillo della guerra civile. Ne hanno scritto Edgardo Sogno e Nino Isaia in “Due fronti” (ed. LibriLiberal) che meriterebbe di esser ripubblicato e meditato mentre divampano fatue chiacchiere sul ”fascismo”. Franco ebbe tre meriti indiscutibili, che si impongono anche a chi non ne apprezza la personalità, la sua “retranca”, astuzia del contadino gallego, uso nei secoli a celare i suoi propositi. In primo luogo tenne la Spagna al di fuori della Seconda guerra mondiale, malgrado le pressioni di Mussolini, che lo considerava ingrato nei confronti dell'aiuto datogli dall'Esercito italiano nella guerra civile con il Corpo Truppe Volontarie: il CTV che gli spagnoli traducevano in “Cuando ten vas?”. Dopo aver inutilmente tentato di circuirlo in un lungo esasperante colloquio a Endaya, Hitler disse che mai più lo avrebbe incontrato. Franco era sfuggente, indecifrabile. In realtà pensava alla sua terra. Ebbe la saggezza di lasciarvi approdare silenziosamente gli anglo-americani: un garanzia sulla vita non sua personale ma della Spagna Eterna. In secondo luogo favorì la modernizzazione propugnata dall'Opus Dei, che formò una classe dirigente di tecnocrati. Parlavano anche inglese ma pensavano in spagnolo. Al suo interno ripresero spazio antichi propositi del falangismo di José Antonio: una visione “popolare”, a correzione del ritorno in forze dell'aristocrazia arcaica. Infine il Caudillo ebbe chiaro che il suo potere personale era transitorio: doveva passare dalla “Jefatura del Estado” alla monarchia. Il cambio non poteva però ridursi a puro e semplice ritorno al passato. Di mezzo vi erano stati i molti enormi errori dei Borbone, la condotta di Juan, conte di Barcellona, da lui ritenuta poco lineare e infine la guerra civile. Per essere davvero punto di equilibrio e garanzia per il futuro la monarchia non andava “restaurata” ma “instaurata”. Anche Umberto II, in esilio, si adoperò per convincere don Juan a passare la mano al figlio, Juan Carlos, designato Re. Iniziò il processo che ebbe protagonisti Manuel Fraga Iribarne, Adolfo Suárez e altri uomini della “transizione”, coronata con la Costituzione del 1978 redatta da giuristi anche socialisti come Gregorio Peces Barba. 
Alla morte Franco poté ritenere aver ricostruito la Spagna “una, grande, libre”, membro delle Nazioni Unite dal 1955, lo stesso anno nel quale l'Italia vi venne ammessa.

Il Valle de los Caìdos, simbolo di pacificazione.

La salma del Caudillo non appartiene solo alla sua famiglia e alla Spagna. Essa rappresenta un capitolo della storia d'Europa. Non solo. L'immensa croce ritta sul colle sovrastante la cupa Basilica vuol essere un simbolo di pace eterna, un invito alla meditazione sulla storia universale. Quando pure le sue spoglie venissero rimosse, l'opera di Franco rimarrebbe consegnata alla storia: anzitutto di un'Europa che ha troppo a lungo ostacolato l'ingresso della Penisola Iberica nella Comunità Economica, accampando violazioni dei diritti dell'uomo, per ostacolarne, in realtà, le esportazioni e ritardarne la modernizzazione. Chi ha visitato la Spagna durante la dittatura o all'indomani della morte di Franco e la confronta con l'attuale conosce bene i passi da gigante compiuti dal Paese grazie alla dirigenza cresciuta negli anni del franchismo. Unì senso dello Stato e memoria del Passato. Il Passato che non deve passare. E' il futuro.
Anche Sánchez sa che i “monumenti” sono come la storia. Non si cancellano. Lo ha ricordato Francesco Rutelli contro certe manie dilaganti oltre Atlantico e anche in Italia, ove imperversa la smania di rimuovere, abbattere, obliare. Tuttavia conduce la sua lotta disperata per la estumulazione: vuole svellere la pietra angolare degli avversari, seminare la zizzania tra i suoi rivali, dividerli e sconfiggerli alle urne, per riportare la Spagna all'indietro, a fianco di Maduro, della Cuba perennemente castrista. Senza alcuna nostalgia personale del massonofago Caudillo (che finse di non sapere quante logge anglo-americane proliferassero nel suo Paese malgrado i divieti ufficiali), i quarant'anni del suo dominio hanno diritto a un giudizio storico pacato, libero dai precetti di “leggi sulla memoria” che sanno di censura ideologica e di fanatismo, contrario ma esattamente uguale al suo.


venerdì 22 marzo 2019

UNA CONFERENZA DEDICATA AL RUOLO DELLE DONNE NELLA GRANDE GUERRA




Conferenza in occasione del centenario della Prima Guerra mondiale.
Si parla dei molti ruoli che le donne ebbero durante il conflitto e della rivoluzione epocale che avvenne nei quattro anni di guerra, allorché la penuria o l’assenza di uomini impose il loro utilizzo in mansioni fino ad allora non contemplate dalla società del tempo Il prezzo pagato dalle donne nella guerra fu altissimo: la perdita di mariti o figli, la lontananza, la povertà, la scarsità di cibo. Le mansioni fino a pochi mesi prima appannaggio del solo sesso maschile vennero svolte da loro (dal lavoro in fabbrica per la sempre maggiore necessità di produzioni belliche ai trasporti come conduttrici o bigliettaie di tram, ma anche verniciatrici, saldatrici, etc) all'assistenza ai feriti e ai moribondi, al supporto alle famiglie rimaste sole ed ai soldati in convalescenza o licenza.
Come i loro uomini al fronte, fecero il loro dovere e lo fecero bene.
Indipendentemente dalla classe sociale e dalla ricchezza. Inventarono altresì metodi ingegnosi per aiutare lo sforzo bellico: dalla produzione di coltri e vestiti di riuso, alla raccolta di fondi, al finanziamento di unità mediche e infermieristiche. La Regina Elena non fu da meno ed attrezzò il Quirinale a Ospedale territoriale specificamente per la cura dei grandi invalidi, diventando un icona della donna italiana moderna.
Fu un epopea di cui tutti, ed in particolare i nostri ragazzi, devono conoscere il grande valore nazionale e sociale.

Alla conferenza è concesso l’uso del LOGO ufficiale delle Commemorazioni del Centenario dalla Struttura di Missione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, accreditandola tra gli eventi di interesse nazionale.

Riccardo Balzarotti-Kämmlein
320-4091.752 / info@servizimuseali.com
Riccardo Balzarotti-Kämmlein nasce a Portovenere, La Spezia, nel 1955; si laurea con lode all’Università di Bologna.
1979-‘80 ufficiale di Cavalleria nei “Lancieri d’Aosta”.
1980-‘84 redattore capo della rivista Informatore fitopatologico; 1984-‘93 technical manager di ENDURA SpA.
1987-2006 a Firenze fonda e dirige PHASE srl per lo studio e la commercializzazione di prodotti per restauro
Dal 2007 libero professionista in conservazione di beni culturali in mostre, musei, biblioteche, collezioni, depositi.
Docente di Tecnologia dei Materiali di Restauro all’Accademia di Belle Arti di Bologna; tiene stage e docenze in diverse Università
e aggiornamenti professionali per ordini professionali.
Relatore in conferenze su beni culturali e storia; coordina iniziative e mostre
Presidente Associazione Amici dei Musei Spezzini e della Lunigiana
Già membro Consiglio Direttivo Centro Studi Storico Militari “gen. G. Bernardini” Bologna
Delegato Istituto Nazionale Guardia d’Onore e cavaliere Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro


31 Marzo 2019 ore 10.30


Sala Italia presso “Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), 
o 16/B (ingresso con ascensore)
raggiungibile con le linee tramviarie “3” e “19” 
ed autobus  “ 910” ,” 223” ,”52” e “ 53”

Prima e dopo Caporetto?


Risponde Carlo Cadorna con documenti 



di Aldo A. Mola
  
Gli Uomini che fecero la Storia: Giolitti, Cadorna, Diaz

Il 1928 in pochi mesi portò via Armando Diaz (classe 1861), Giovanni Giolitti (1842) e Luigi Cadorna (1850), tre massimi protagonisti della storia d'Italia: lo Statista e i due Comandanti Supremi dell'esercito nella Grande guerra. Diaz non lasciò memorie. Le sue carte sono state studiate e valorizzate dal generale Luigi Gratton (2001), fiero di essere stato alfiere del Tricolore al rientro dell'Italia a Trieste nel 1954. Giolitti pubblicò le Memorie della sua vita nel suo 80° compleanno, il 27 ottobre 1922. Nei sei anni seguenti non aggiunse nulla, né rilasciò interviste. Ma il 16 marzo 1924, vigilia delle elezioni vinte dal “listone nazionale” filofascista che candidò Enrico De Nicola a Napoli e Vittorio Emanuele Orlando in Sicilia, Giolitti deplorò la deriva precipitosa dalla democrazia liberale di Azeglio, Cavour e Sella al “partito unico”, sempre con l'avallo della Camera dei deputati, pronuba dinnanzi al “duce”, che ripetutamente la umiliò con parole sferzanti. Dal canto suo Cadorna non tenne un “Diario” né pubblicò  “memorie”. Però cent'anni orsono fece di più e di meglio. Nel 1919, vergò la sua opera fondamentale: “La guerra alla fronte italiana fino all'arresto sulla linea della Piave e del Grappa (24 maggio 1915-9 novembre 1917)”. Non generici “ricordi” personali ma Storia, densa di documenti e di atti ufficiali. L'opera è la “biografia” dell'Italia dalla Conflagrazione europea (luglio1914) alla sostituzione  di Cadorna con Armando Diaz a capo dell'Esercito italiano (9 novembre 1917).
Quando scrisse, il Generale viveva a Firenze, in un villino acquistato per festeggiare il suo 68° compleanno: una residenza appartata, modesta, senza riscaldamento. Chi lo visitava nei lunghi mesi del freddo lo trovava alla scrivania “intabarrato e inguantato”, intento a compulsare documenti. Posava la penna e conversava. Limpido, chiaro, tutto “fatti”, dati, luoghi. A volte s'accendeva, alzava la voce, batteva il pugno sulla scrivania, come gli accadde mentre conversava con Olindo Malagodi. Aveva sempre dinnanzi agli occhi le sterminate carte militari “della fronte” e l'“ordine di battaglia” aggiornato per anni, le 35 divisioni iniziali, via via cresciute di numero e di capacità, ma sempre periclitanti per carenza di mezzi e la sorda ostilità serpeggiante malgrado l'attivismo del “fronte interno”.
In “La guerra alla fronte italiana” il Generale ampliò quanto aveva dichiarato alla Commissione d'inchiesta “sugli avvenimenti dall'Isonzo al Piave (24 ottobre-9 novembre 1917)”, titolo pudico della Relazione pubblicata in due volumi nell'estate 1919.
Per capire il canone della sua opera occorre ricordare i drammatici mesi vissuti da Cadorna dal giorno stesso dell'arretramento dalla conca di Caporetto alla destra del “fiume Sacro”, quando fu rimosso dal comando della macchina militare da lui costruita con determinazione, grazie all’intelligente collaborazione di militari di alte capacità, di “militari senza divisa” e dell'apparato industriale, a cominciare dall'Ansaldo di Genova, che si valse, tra altri, delle competenze scientifiche di Federico Giolitti, figlio dello Statista.
Dal dicembre 1917 rappresentante dell'Italia nell'appena costituito Consiglio superiore di guerra interalleato con sede a Versailles (carica accettata con spirito di servizio, dopo iniziale riluttanza), il 20 gennaio 1918 Cadorna fu chiamato “a disposizione” della Commissione d'inchiesta come un teste qualunque, quasi non potesse essere “audito” diversamente, come invece avvenne al migliaio di altre persone chiamate a deporre. Qualcosa non gli tornava. Né torna a chi studi il “caso” senza preconcetti.

Il Generale nella tempesta scrive la verità dei “fatti” 
Tirava vento pessimo. L'antico Comandante Supremo ne colse le prime folate, ma non avvertì la bufera. Nel luglio 1918 fu drasticamente collocato a disposizione “in sovrannumero”, con riduzione di rango e assegni. All'estero il provvedimento venne inteso come punizione, “una vera e propria destituzione”. “Ma le porcherie e le vessazioni – egli scrisse il 1° agosto al figlio, Raffaele, futuro comandante del Corpo Volontari della Libertà - hanno sempre disonorato chi le commette e non chi le subisce”. Protestò col presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, da anni suo fierissimo nemico, lo stesso che in quei giorni incalzava Armando Diaz affinché scatenasse l'offensiva contro l'esercito asburgico e, secondo il vicecomandante Gaetano Giardino, arrivò ad affermare: “Preferisco una sconfitta all'inazione”, quasi che il Paese potesse permetterselo. In realtà, un eventuale sciagurato disastro (la storia insegna che nessuno sa “prima” come finiscano le battaglie né le guerre) avrebbe fatto crollare il regno d'Italia, senza speranze di riscossa, com'era accaduto in Russia e poi avvenne in Bulgaria, Austria, Turchia e Germania. 
Il 21 novembre 1919 Cadorna aveva già terminato i primi quattro dei dieci capitoli del libro “Dalla Bainsizza al Piave”. Contava di terminarlo entro l'anno e di mettere subito mano a un secondo tomo “Dall'origine alla Bainsizza”. Non aveva ancora deciso se pubblicarli separatamente o fonderli in un unico volume. Nel frattempo cominciarono a uscire le memorie di altri generali, come le “Note di guerra” di Luigi Capello, già comandante della II armata, travolta dall'avanzata austro-germanica dell'ottobre 1917, e il memoriale di Luigi Nava, da lui rimosso da comandante della IV Armata. “L'affare di Caporetto –  scrisse Cadorna al figlio – è come una pentola che bolle e che ogni tanto solleva il coperchio e poi si chiude. Figurati che pandemonio accadrà quando se ne parlerà sul serio” (14 marzo 1919).
Il governo Orlando-Sonnino era alla resa dei conti. La delegazione italiana alla conferenza di pace di Versailles non fu all'altezza del compito, né dell'alto prezzo pagato dal Paese per la vittoria finale. Lo ammise Orlando nelle “Memorie” (lasciate incompiute per motivi fabulosi), in cui polemizzò aspramente ex post con il presidente degli Stati Uniti d'America, Woodrow Wilson, “arbitro di fatto dalla forza irresistibile della sua potenza” e al tempo stesso succubo di “una forza occulta”, degli jugoslavi e (venne insinuato) delle loro “attiviste”. Fantasie. Non avendo ottenuto Fiume in aggiunta a quanto previsto dall'arrangement con il quale il 26 aprile 1915 il governo Salandra-Sonnino aveva aderito all'Intesa (senza però entrarvi organicamente: imperdonabile errore strategico di politica diplomatica), la delegazione di Roma lasciò il Congresso di Parigi (“non conferenza di pace” ma arbitrato secondo Orlando), nell'indifferenza degli altri partecipanti, che si affrettarono ad approvare lo statuto della Lega delle Nazioni e a fissare i preliminari del diktat contro la Germania. Non le rimase che riprendere la via francigena. Il 23 giugno la Camera rovesciò il governo Orlando-Sonnino, pochi giorni prima della firma del Trattato di pace nel Castello di Versailles nel quinto anniversario del mortale attentato di Sarajevo, motivo scatenante della conflagrazione.
Anche il nuovo presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, alimentò la canea nei confronti di Cadorna, in vista della pubblicazione della Relazione della commissione d'inchiesta. Questa gli attraeva i consensi degli antimilitaristi. Per lui il generale era solo un “brutto ricordo”. Perciò Cadorna venne messo nell'oggettiva impossibilità di rispondere  pubblicamente con la necessaria efficacia e abbandonato al “crucifige” di una “piazza” da oltre un anno aizzata e assetata del sacrificio di un capro espiatorio. I due volumi di “La guerra alla fronte italiana” rimasero inediti sino all'aprile del 1921. Cent'anni dopo escono (BastogiLibri, Roma, con prefazione di Gianni Rabbia) in vista della Giornata Cadorna in programma a Pallanza il 7 aprile prossimo.  
  
Facit indignatio versum                                                               
Mentre scriveva l'Opus magnum, come fosse due persone in una, con due teste e quattro mani, il generale intraprese l'“altro libro”. Il primo era la Storia, il secondo una sorta di lunga “nota a pie' di pagina”, puntuale e puntuta, meticolosa e rigorosa, sempre documenti alla mano. Man mano che i lavori della Commissione d'inchiesta procedevano, egli sentiva sempre più impellente e doveroso “testimoniare” dinnanzi all'opinione nazionale e internazionale. Doveva illuminare i passaggi fondamentali del différend tra la sua opera di Comandante supremo e i governi susseguitisi dalla conflagrazione alla sua rimozione: Salandra-San Giuliano e Salandra-Sonnino sino al 10 giugno 1916, il ministero Boselli, rovesciato il 25 ottobre 1917, e gli esordi di quello presieduto da Orlando, sempre con Sonnino agli Esteri, anello di congiunzione fra le trame diplomatiche del 1914 e il rovescio del 1919. Neppur Sonnino lasciò “Memorie”. Solo un “Diario”, molto frammentario e lacunoso proprio nei passaggi cruciali, e lettere. 
 
Sin dai primi mesi dell'intervento dell'Italia in guerra Governo e Comando Supremo giunsero ai ferri corti su molti versanti sostanziali delle rispettive competenze. Lo aveva anticipato il ministro della Guerra Domenico Grandi quando, consultato proprio Cadorna, il 23 settembre 1914 aveva avvertito Salandra: il governo era l'unico titolato a valutare lo spirito pubblico e le esigenze politiche e a stabilire se “il Paese” avrebbe condiviso e assecondato, o no, l'ingresso nella fornace ardente, con tutti i rischi derivanti dalla impreparazione dello “strumento bellico”. Poiché non era allineato con gli scopi occulti del governo, Grandi venne sostituito. Ad aggravare la tensione sull'inizio del 1916 intervenne la decisione dell'Esecutivo di intraprendere un'azione militare in Albania. Attestarsi a Vallona (come all'epoca si diceva) per Salandra e Sonnino significava fare dell'Adriatico il “lago italiano”, come a  grandi linee tratteggiato dall'“accordo” (non patto né trattato, a differenza di quanto molti scrissero e ripetono) siglato a Londra il 26 aprile 1915 in vista dell'adesione all'Intesa anglo-franco-russa.
Secondo Cadorna l'apertura di quel fronte bellico sulla “quinta sponda” era invece del tutto fuorviante: avrebbe distratto mezzi e uomini dall'unico vero campo di battaglia e, in prospettiva, assorbito risorse sempre più ampie, in uno scenario politico-militare colmo di incognite e di possibili sorprese negative. Lo stesso valeva per le truppe italiane Oltremare, dalla Tripolitania al Mar Rosso, Ve n'era invece urgente e prioritario bisogno sul lunghissimo sinuoso fronte italo-austriaco. L'Italia, egli soleva ripetere, avrebbe riconquistato la Libia sul Carso, ove, diversamente, rischiava di perdere tutto. Anche Londra si disperdeva in imprese azzardate su teatri diversissimi, ma da secoli era un impero. All'opposto l'Italia doveva invece concentrare tutte le sue risorse per sfondare il fronte austro-ungarico a est, arrivare a Lubiana e Zagabria e aggirare da sud l'impero asburgico, suscitandovi l'insorgenza delle “nazioni senza Stato” o, come poi si disse, dei “popoli oppressi”. La sua visione potrebbe essere classificata mazziniana o garibaldina se non fosse che sin dal 1864 Vittorio Emanuele II aveva caldeggiato un'azione italiana di quel tenore, per destabilizzare l'Austria. Come scrive suo nipote Carlo nel succoso saggio introduttivo a “Caporetto. Risponde Cadorna” (BCSMedia, Grottaferrata, aprile 2019), il Comandante era “un generale del Risorgimento italiano”.

Il “differend” tra governi allo sbando e il Comandante Supremo
La risposta del governo ai suoi mòniti e, presto, alle sue rimostranze, consegnate anche al carteggio con il titolare degli Esteri, Sonnino, fu quanto di più deludente e assurdo. Lo documenta il verbale della seduta del Consiglio dei ministri del 26 febbraio1916, firmato da Antonio Salandra e da Salvatore Barzilai, sinora inedito: “Presenti tutti i ministri. Si autorizza la pubblicazione di un decreto relativo all'avvio delle azioni militari in Albania, in sostituzione del decreto 1 dicembre 1915”. Il governo avocò a sé il comando dell'impresa. Così l'Italia condusse due guerre separate, una con la regia del Comandante Supremo, un'altra “gestita” direttamente da Roma. Quella delibera comportava due diverse politiche estere, perché (lo aveva insegnato Clausewitz) le armi sono la prosecuzione della diplomazia con altri mezzi. Ma era appunto la politica estera il “ventre molle” del governo italiano. Lo si vide anche con l’esecutivo Boselli, quando Roma non poté più esimersi dal dichiarare guerra alla Germania, che si era impegnata a combattere sin dal 26 aprile 1915. Dopo la “spedizione di primavera” (o “punitiva”) austroungarica del maggio 1916 e la controffensiva abilmente allestita da Cadorna, culminata con l'ingresso in Gorizia il 10 agosto, la guerra mutò volto e “ragione sociale”: non poteva più essere confinata nel recinto del “sacro egoismo” accampato da Salandra, il cui vero e miope obiettivo era annientare Giolitti. La guerra dell'Italia andava inquadrata nell'ambito di una visione europea, delle alleanze e delle loro prospettive postbelliche, come da Cadorna scritto e ripetuto sin dal luglio 1914, con lungimiranza superiore a quella dei “politici”.
Solo il 24 agosto 1916, presenti tutti i ministri, il governo Boselli fece mettere a verbale il passo fatale: udita la relazione del ministro degli Esteri, deliberò “in conformità degli impegni assunti con gli alleati, di proporre a Sua Maestà la dichiarazione di guerra alla Germania, [autorizzando] il Presidente  del Consiglio e il ministro degli Esteri di determinare il momento opportuno per dar seguito alla deliberazione presa”. Roma doveva però motivare una decisione così gravida di conseguenze. Lo fece con argomenti di basso profilo: gli aiuti militari germanici all'Austria-Ungheria sua alleata, la consegna agli asburgici di militari italiani evasi dai campi di prigionia, la sospensione del pagamento delle pensioni dovute a operai italiani: contenziosi da sottoporre a commissioni paritetiche, non alle armi. La dichiarazione di guerra venne comunicata alle 13.40 del 27 agosto con efficacia dall'indomani. Lo stesso giorno la Romania scese in campo a fianco dell'Intesa. A quel punto Cadorna chiese a Sonnino di farsi almeno comunicare “i patti interceduti fra gli alleati circa la sorte eventuale dell'impero turco: Costantinopoli, gli Stretti, l'Asia Minore, questioni di primaria importanza per la preparazione della pace, a cui bisogna pure pensare quando non ci sia altra guerra da dichiarare”. Sonnino si chiuse a riccio. La politica estera era suo riservato dominio. Di più e di peggio fece Boselli col sostegno del ministro dell'Interno, Orlando. Lungo tutto il 1917 e specialmente dopo la rivoluzione in Russia, l'ingresso degli USA nella guerra e il rischio di un'offensiva austro-germanica, come bene documenta Carlo Cadorna, il Comandante Supremo incalzò il governo con ben quattro lettere per chiedere il potenziamento del “fronte interno” e la lotta contro il disfattismo che dal paese contagiava l'Esercito. Non ebbe alcuna risposta. Il 27 marzo e il 28 settembre Cadorna partecipò a due sedute del governo. Della prima non v'è alcuna traccia nei verbali del Consiglio dei ministri; la seconda è riassunta in poche righe, elusive, senza alcun cenno al dibattito. Cadorna non compare. Secondo una postuma Dichiarazione di Orlando, il Comandante supremo gli condensò il programma in poche parole a seduta ormai terminata: “Lei pensi ad assicurarmi le retrovie, che ai soldati ci penso io”.
La vera storia di quei drammatici mesi non si comprende appieno dunque né dalle Memorie di Orlando o dal carteggio di Sonnino né, tanto meno, dall'Inchiesta su Caporetto, ma emerge invece a luce meridiana da “La guerra alla fronte italiana” e dal volume ora pubblicato da Carlo Cadorna per riaprire il dibattito su pagine fondamentali della storia d'Italia.                                                    
                                                                                         Aldo A. Mola


    
     
   
  



giovedì 21 marzo 2019

I Cantori di San Cipriano nel sacrario dei Savoia. Ad Hautecombe le loro note per la messa a suffragio di Umberto II



GRAVELLONA TOCE - 20-03-2019 -  Un altro fiore all'occhiello per i Cantori di San Cipriano, la corale diretta da Alessio Lucchini, che l'ha fondata nel 2005 assieme a Roberta Giavina,  sabato scorso 16 marzo è stata chiamata ad esibirsi nell’antica abbazia di Hautecombe, in Francia, da secoli sacrario di Casa Savoia. Nel luogo che custodisce le spoglie dei sovrani sabaudi si è tenuta la messa in suffragio di Re Umberto II e della Regina Maria José, in occasione del 36mo anniversario della scomparsa dell'ultimo regnante d'Italia.  

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lunedì 18 marzo 2019

Cagliari, “Viva il Re Umberto II: sacrosanto ricordare il sovrano nella nostra città”

Lettera al quotidiano Castedduonline.it


La Messa organizzata dai monarchici a Cagliari accende il dibattito: ecco quando sarà

Spettabile Redazione,

il 23 marzo p.v. verrà celebrata una Santa Messa per commemorare il Re Umberto II a 36 anni dalla sua scomparsa. Che, per la precisione, avvenne il 18 marzo.

La funzione religiosa si terrà nella Basilica Magistrale Mauriziana di Santa Croce, in Castello, alle ore 18.

Un importante giornale come il Vostro,che si rifà alla nostra Città di Cagliari, non può dimenticare che il Re (prima dell’esilio) fu a Cagliari nel maggio 1946. E ricevette una vera e propria OVAZIONE POPOLARE.
I 3/4 dei Cagliaritani votarono Monarchia al referendum. Voto NETTO per Casa Savoia.
Ecco perché è sacrosanto ricordare il Sovrano e perché sarebbe altrettanto giusto intitolargli una via o piazza della nostra Città. 
Più che giusto!
Cordiali saluti,
M. Razzoli.


https://www.castedduonline.it/cagliari-viva-il-re-umberto-ii-sacrosanto-ricordare-il-sovrano-nella-nostra-citta/

Intervista del 1956 a Re Umberto II


Sul sito dedicato a Re Umberto una "nuova" intervista del 1956. 


Intervista che Monarchici in Rete e il sito "Dedicato a Re Umberto II" dedicano alla memoria del Nostro Camillo Zuccoli in quanto rimane nitido nella nostra memoria  il nostro piccolo comune rito di gioia allorché ricostruivamo un nuovo tassello  della nostra storia di monarchici fedeli al Re .
"Che meraviglia!" era la tipica espressione di Camillo quando sottoponevamo a lui nuovi ritrovamenti. E tale era stata l'espressione anche in questo caso.

Nel 36° anniversario della scomparsa in esilio del Re lo ricordiamo insieme a tutti quelli che non hanno mai ammainato la sua Bandiera.

Ricordo il Re Umberto II


Il 18 marzo 2019 saranno trascorsi trentasei anni dalla morte dell’ultimo Re d’Italia, Umberto II. Come ogni anniversario lo onorerò partecipando alla Santa Messa, assieme a mio nipote, che ha lo stesso nome del sovrano. Per i trentasei anni dalla sua morte e per ricordare questo buon Re, pianterò nella mia terra una quercia. Il tempo passa, ma l’uomo non riesce a comprendere la grande lezione che Umberto II ha dato alla storia. Il Re d’Italia riuscì a sopportare un destino avverso, una sorte che di solito è assegnata a quelli che hanno le spalle più forti, diventando così un grande esempio per le generazioni future. Sua madre, la Regina Elena, gli aveva insegnato ad amare Dio e ad accettare il suo disegno. 

Re Umberto II non dimenticò mai nella sua vita di essere un buon cattolico. La lealtà, l’onestà e l’umanità lo contraddistinguevano. La solitudine che ha dovuto sopportare il sovrano in esilio fu un duro percorso, che avrebbe messo alla prova chiunque. Qualcuno non ha ancora pensato di fare un film sulla vita di questo sovrano che sicuramente avrebbe successo e permetterebbe di conoscere la vita di un galantuomo. Al momento di lasciare l’Italia, non avrebbe mai pensato che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto il suo Paese. Credo che in cuor suo pensasse di passare qualche tempo in esilio e di ritornare. La storia non è andata in questo modo, il Re trascorse tutta la sua vita in un Paese che non era il suo, amato dai portoghesi che lo stimavano e gli erano grati d’aver scelto il loro Paese per viverci. Passò trentasei anni in esilio, l’unica cosa che domandò fu quella di ritornare a morire in quella terra che aveva amato per tutta la vita. Non chiedeva che un letto da cui non si sarebbe più mosso, era ammalato gravemente e forse avrà pensato al suo amico, il campione Primo Carnera, che anni prima, anche lui aveva scelto di morire nel suo piccolo paese. Il Re non domandava molto, ma il Parlamento italiano vedeva in lui un pericolo, forse si temeva un ritorno nostalgico. Le lacrime di coccodrillo di alcuni politici che vedemmo dopo la sua morte, furono la cosa più triste cui si potesse assistere. Ricordo che in quei tempi la Chiesa non mosse una parola a favore del Re, non un appello alle istituzioni. Eppure la Chiesa aveva avuto molto da Casa Savoia, si pensi solo alla Sacra Sindone. L’atteggiamento indifferente della Chiesa non so ancora spiegarmelo. Fui tra i tanti italiani che parteciparono ai funerali del Re in terra d’esilio e come tutti con un doppio dolore, sia per aver perduto il Re, che per seppellirlo in terra straniera. Nell’abbazia di Hautcombe, anche quest’anno, molti italiani arriveranno per ricordare il Re. La storia di questo sovrano non è mai giunta veramente alla gente e, probabilmente, non ci sarà nessuno tra i politici che lo ricorderà. Il Re avrebbe meritato un trattamento diverso. Alla sua morte, il giornalista Indro Montanelli scrisse sul – Giornale – del 19 marzo 1983, il seguente articolo. ” Nessuno può dire che Re sarebbe stato Umberto di Savoia, se fosse rimasto Re. Nelle poche settimane in cui lo fu, anche i più arrabbiati repubblicani che ebbero a che fare con lui ne riconobbero l’equilibrio, la correttezza e la lealtà. Chiamato a rispondere di colpe non sue, lo fece senza trincerarsi dietro quelle di suo padre. Mai una parola uscì dalla sua bocca, né allora né poi, contro di lui. Quando, anni dopo, gli chiesi a Cascais se era vero che l’otto settembre il Re gli aveva proibito di restare a Roma alla testa delle truppe che dovevano difenderla dai tedeschi- un gesto che forse avrebbe salvato la monarchia- me lo smentì, mentendo. Mi accorsi che non difendeva la memoria di suo padre, per affetto di figlio: di affetti, nelle case regnanti, ce ne sono sempre pochi, e in quella dei Savoia meno che nelle altre. Difendeva, da Re, il Re. Qualcuno gli rimprovera di aver contestato i risultati del plebiscito che sanciva la fine della Corona, qualche altro gli rinfaccia di esservisi troppo facilmente rassegnato. Credo che Umberto si rendesse conto che anche se qualche broglio c’era stato, esso non era tale da sovvertire il verdetto: su un margine risicato, quale in ogni caso sarebbe stato quello del 2 giugno, possono vincere le repubbliche, non le monarchie. Capì che una resistenza avrebbe significato il sangue per le strade.

E preferì abbandonare la partita. Raccontano che, salendo a Ciampino sull’aereo che doveva condurlo a Lisbona, a chi gli diceva che presto sarebbe tornato, rispondesse:”I re sono come is gni: o si ricordano subito o non si ricordano più”. Tante volte nella mia vita mi sono domandato perché avessi nel cuore il Re D’Italia e la Monarchia, cosa mi avesse spinto ad avvicinarmi a queste istituzioni. La scelta fu per me obbligatoria, sono sempre stato vicino a quelli che subiscono delle ingiustizie e il Re aveva subito la più tremenda delle iniquità, quella di essere tradito da tanti che gli avevano giurato lealtà. Questo può capitare a uomini veri, che lottano con lealtà e il Re è sempre stato fino all’ultimo giorno una persona vera e leale. Nel lungo esilio, in cui la solitudine era imperante, trovava nella fede la sua forza. Da buon cristiano andava alla messa e pregava il buon Dio che lo sorreggesse. Quando partì per l’esilio, disse “ Ero incapace di pensare. Avevo la sensazione di essere immerso in un clima irreale. Poi mi resi conto che l’aereo decollava. Vidi Roma laggiù in un velo grigio di pioggia: di colpo riacquistai, acutissimo, il senso della realtà. E in quel momento, lo confesso, non fui più capace né mi curai di trattenere le lacrime”. In quell’aereo cui erano stati tolti i simboli della monarchia, e i cui piloti vestivano normalmente, senza la divisa della Regia Aereonautica, il Re salutava per sempre l’Italia. Un mio amico poeta, un giorno m’inviò questa poesia per farmi capire il dramma che aveva subito il Re. “Fuori dalla mia patria che ho amato e amo con tutto me stesso, osservo il susseguirsi degli avvenimenti senza poter intervenire, senza poter fare qualcosa, senza, quando sarà l'ora, poter dormire il sonno eterno nel mio suolo natio. Osservo, osservo e, dall'estero, deluso e intristito nel cuore, mi rammarico”. Leggendo queste parole ho pensato a quel pugno di terra italiana che una contadina aveva dato al Re prima della sua partenza. Con il Re Umberto II gli avversari non furono molto corretti, specialmente quelli che si consideravano cattolici, lo erano solo davanti agli uomini, ma non davanti a Dio. Quando arrivò in terra d’esilio, il Re scrisse una lettera al suo Ministro Falcone Lucifero e con quelle parole nate dal cuore, spiegava il suo stato d’animo di esule. “ Caro Lucifero! Eccomi in Portogallo! Ma il mio cuore è con Voi tutti: con gli amici noti e ignoti, con tutti quelli che hanno creduto in me per tanto tempo ... e che ora? Io non dimentico, ma senza notizie si sta male, molto male, e il tormento per il Proprio Paese è tremendo e a stento si nasconde… Ripenso alle ultime ore di Roma, a quando mi fu detto che allontanandomi per poco dalla città tutto mi sarebbe stato più semplice e invece quel “trucco “che non voglio qui definire in termini “appropriati”! Non so le reazioni degli amici né quelle degli “alleati”. Attendo con ansia notizie! Balbo forse le dirà qualcosa di qui: il paese è bello, tutti molto cortesi: dal Presidente all’ortolano della nostra villa, ospitalità affettuosa, la casa molto simpatica, il giardino bellissimo con la vista, senza luce però e a trenta chilometri dalla città! Un po’ troppo! E il clima come da noi in marzo-aprile. Caro Lucifero! Lei non può credere come io pensi a Lei! Purtroppo come non le seppi dire partendo da Roma, credo che non saprò mai dirle tutto quello che provo per Lei! La mia gratitudine è come la mia amicizia, sicura, costante e ferma! Mi dia presto notizie e mi abbia sempre per il suo affezionatissimo, riconoscentissimo Umberto . 

Da Cintra, 17 VI 1946 

Avevano convinto il Re di partire per un periodo, per calmare le acque, ma dopo l’allontanamento, il tradimento. Il Re dichiarò alla giornalista straniera Edith Wieland: “La mia partenza dall’Italia doveva essere una lontananza di qualche tempo in attesa che le passioni si placassero. Poi pensavo di poter tornare per dare anch’io, umilmente e senza avallare turbamenti dell’ordine pubblico, il mio apporto all’opera di pacificazione e di ricostruzione ”. Al giornalista e scrittore Bruno Gatta disse:” Mai si parlò d’esilio, da parte di nessuno. Né mai, io almeno, vi avevo pensato. Poi, durante i lunghi lavori della Costituzione s’inflisse l’esilio a me,a mia moglie e a mio figlio. Una pena inesistente in ogni altra legislazione”. Spesso nella mia vita mi sono chiesto se chi subisce un torto debba passare per uno che lo fa. Il Re rimase in esilio tutta la vita, ma nessun politico lo potrà mai accusare di non essere sempre stato un Re onesto. E chi ama si sacrifica per il bene. L’Italia forse non meritava un Re come Umberto II. Ha trascorso trentasette anni in esilio e sono trentasei anni dalla sua morte. Il Re è ancora lontano dall’Italia, ma è nel cuore di quelli che continuano ad amarlo. Con amarezza posso trascrivere quella citazione del grande Francesco Carnelutti:” L’Italia è la culla del diritto, e la tomba della giustizia”. I tempi passano, ma l’Italia non ha ancora permesso ai monarchici di poter dare sepoltura al Pantheon, al proprio Re. Per il trentaseiesimo anniversario della sua scomparsa, esporrò la mia bandiera Sabauda, quella che ha lo stemma del Re. Umberto II confidò al giornalista Giovanni Mosca: ”E’ una pena terribile. Nessuno conosce l’Italia, angolo per angolo, quanto me. Nessuno immagina quanto io la rimpianga. C’è nella lingua portoghese una parola, saudade, che è qualche cosa di più che rimpianto, qualche cosa più che nostalgia. E’ intrisa di dolore”.


venerdì 15 marzo 2019

Conferenza del Circolo Rex


CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA

REX

“il più antico Circolo Culturale della Capitale”
71° CICLO di CONFERENZE 2018-2019




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“ Il 17 marzo 1861 nasce il Regno d’Italia. Il 4 novembre 1918 il Bollettino del Comando Supremo del Regio Esercito , firmato Diaz , annuncia la conclusione vittoriosa della Grande Guerra che vede il Regno d‘Italia raggiungere i suoi confini storici e geografici .
 Il 10 febbraio 1947 un iniquo Trattato di Pace ci sottrae territori storicamente italiani ed altre terre che avevamo fecondato con il nostro lavoro e dove avevamo portato i segni della nostra civiltà. 
Oggi vogliamo ricordarlo insieme con i profughi e gli esuli di queste terre ed i loro discendenti”


Su questi temi

Domenica 17 marzo alle ore 10.30 , dopo una introduzione del Presidente
Domenico Giglio, parleranno:

Giovanna ORTU
 Pres.Naz.le Ass.ne Italiana Rimpatriati Libia -onlus

Marino MICICH 
Pres.te Ass.ne Cultua Fiumana Istriana Dalmata nel Lazio

Massimo Andreuzzi
 Pres.te Ass.ne ex Alunni di Rodi e profughi Dodecanneso

Guido CACE 
 Pres.te Asso.ne Nazionale Dalmata

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Sala Italia presso “Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), 
o 16/B (ingresso con ascensore)
raggiungibile con le linee tramviarie “3” e “19” 
ed autobus  “ 910” ,” 223” ,”52” e “ 53”

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Ingresso libero  / Brindisi augurale

giovedì 14 marzo 2019

Le stragi sabaude? Nate dalla propaganda dei filoborbonici



Il famoso eccidio di Pontelandolfo fu ingigantito dai legittimisti. Un falso storico di lunga durata
Il caso dell'«eccidio» che sarebbe stato consumato il 14 agosto 1861 dal regio esercito piemontese in un paese, Pontelandolfo, oggi in provincia di Benevento è stato elevato, dalla letteratura antirisorgimentale, a simbolo della ferocia con la quale sarebbe stata portata avanti «la conquista del Sud» dalle truppe fedeli ai Savoia.
Per molto tempo è stata accreditata una versione dei fatti che aveva come fonte primaria la Storia delle Due Sicilie di uno storico borbonico, Giacinto de' Sivo, il quale, dopo la caduta di Napoli, alla sottomissione ai Savoia aveva preferito l'esilio e aveva raggiunto a Roma Francesco II rifugiatovisi con la corte. Qui aveva scritto la sua opera, che rimane peraltro il miglior prodotto della letteratura storiografica legittimista e filoborbonica. La tesi di De' Sivo, transitata poi in maniera acritica in tanti altro lavori, è che l'azione militare ordinata dal generale Cialdini, che comandava l'esercito italiano, fosse una rappresaglia per la strage di una quarantina di soldati piemontesi avvenuta l'11 agosto.
Le cose, in realtà, stanno diversamente. E lo dimostra un libro di Giancristiano Desiderio dal titolo Pontelandolfo 1861 (Rubbettino, pagg. 152, euro 14), che non soltanto ricostruisce i tragici avvenimenti di quel periodo sulla base di una lettura critica di documenti e testimonianze ma che, pure, rivista e ridimensiona il «mito» che la letteratura filo-borbonica e anti-unitaria aveva finito per costruire attorno ai fatti di Pontelandolfo.
Gli avvenimenti vanno inquadrati nel clima turbolento che accompagnò il crollo del Regno delle Due Sicilie e l'annessione di quei territori al Regno d'Italia. Si pensò da parte di comitato e nostalgici del regno borbonico di utilizzare le bande di briganti per dare l'illusione della nascita di una Vandea napoletana e di una resistenza legittimista. Ma, come osserva Desiderio, «i briganti rimangono tali e non possono essere trasformati in patrioti borbonici senza falsificare la storia».
Nel piccolo centro di Pontelandolfo i briganti, capeggiati da un certo Cosimo Giordano, un ex sergente borbonico ora a capo di una banda sanguinaria, si erano impadroniti del potere e avevano costituito una specie di governo provvisorio opera dello stesso Giordano e di un sacerdote legittimista, l'arciprete don Epifanio De Gregorio che sognava di trasformare quel luogo nel centro della rivolta sanfedista e antisabauda. L'11 agosto, una quarantina di soldati del regio esercito furono inviati nei pressi di Pontelandolfo per un'opera di ricognizione sul territorio al fine di fare argine ai briganti. Ma, accolti da manifestazioni di ostilità, vennero trucidati. Qualche giorno dopo, il 14 agosto, si ebbe l'incendio e il sacco di Pontelandolfo ad opera dalle truppe inviate dal generale Cialdini e guidate dal colonnello Pier Eleonoro Negri. Si trattò, certo, di fatto di una rappresaglia, ma in realtà l'operazione era stata programmata prima dell'eccidio dei soldati italiani e come una operazione di controllo e di ripristino dell'ordine in una zona che aveva fatto registrare numerosi e violenti atti di brigantaggio.

Dallo studio fatto da Giancristiano Desiderio, che ha messo a confronto le diverse versioni sui fatti oltre che le interpretazioni storiografiche che ne sono state date, emergono una serie di importanti contraddizioni e la inattendibilità della versione, divenuta una vulgata della letteratura filoborbonica, di Giacinto De Sivo. Ma soprattutto da esso risultano ridimensionati sia la portata dell'operazione sia il numero delle vittime. Scrive, dunque, l'autore: «se la controstoria ci dice che a Pontelandolfo il 14 agosto 1861 ci furono centinaia o addirittura migliaia di vittime e l'azione dell'esercito italiano fu una spietata rappresaglia, i documenti tutti i documenti sconfessano il mito della controstoria e dicono che l'ordine di intervenire sull'Alto Sannio non fu concepito come una vendetta e mostrano che nell'incendio morirono tredici persone».
Da attento cultore di Benedetto Croce, qual egli è, Desiderio svela il meccanismo attraverso il quale è stata creata, e si è affermata nel tempo, una versione di quei fatti che è una «falsa storia», proprio nel senso crociano del termine, cioè a dire una storia che, per giustificare una tesi precostituita, non si cura dei documenti. Probabilmente il saggio di Giancristiano Desiderio, per il fatto di demolire un mito della polemica antiunitaria, provocherà in taluni irritazione, ma è un esempio di come la storia dovrebbe la storia dovrebbe essere davvero scritta. Senza cedere alla dittatura delle passioni di parte e allo gusto dello scandalismo.

http://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/stragi-sabaude-nate-propaganda-dei-filoborbonici-1661433.html