NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 13 marzo 2019

Federzoni, uomo del Re?


ESCE IL SUO DIARIO INEDITO (1943-1944)

di Aldo A. Mola

Comunione e confessione prima del Gran Consiglio
  La mattina del 24 luglio 1943, un sabato, Luigi Federzoni (Bologna, 27 settembre 1878- Roma, 24 gennaio 1967) andò a confessarsi e a comunicarsi. Lo ricordò egli stesso in “Italia di ieri per la storia di domani”, il “memoriale” pubblicato un mese dopo la sua morte. Altrettanto fecero Dino Grandi e “forse qualcun altro” componente del Gran Consiglio del Fascismo, convocato a Palazzo Venezia per le 17 in piena calura estiva. Quei gerarchi, ricorda Emilio Gentile nel saggio più recente sul 25 luglio (ed. Laterza), erano “consapevoli del rischio mortale, ma sereni per la certezza di combattere una battaglia forse decisiva per la salvezza del Paese”. Alcuni alla riunione andarono “bene armati”. Federzoni narra che uno lo “rimorchiò in un cantuccio e con aria alquanto spaccona trasse di sotto la palandrana di prescrizione due bombe a mano”. Era forse il pugnace Cesare Maria De Vecchi, conte di Val Cismon, pluridecorato al valore, quadrumviro della marcia su Roma del 31 ottobre 1922, fiduciario di Vittorio Emanuele III. Il Gran Consiglio, organo supremo della Rivoluzione fascista” dal 1928, non si riuniva da oltre quattro anni. Contava e non contava. I suoi poteri effettivi erano e rimangono dispute tra costituzionalisti. Ne ha scritto recentemente Guido Melis in “La macchina imperfetta” (ed. il Mulino), Premio Acqui Soria 2018. A volte gliene vengono attribuiti molti più di quanti ne avesse, in specie sulla successione al trono, nel quale non ebbe mai alcun potere determinante. Poteva solo esprimere “pareri”. Quanto poco Mussolini lo tenesse in considerazione si era visto negli anni successivi all'abbraccio mortale tra lui e Adolf Hitler, Fuerher della Germania e del suo partito unico, il nazionalsocialista. Esondando dai poteri di capo del governo, il duce del fascismo aveva deciso l'alleanza militare con la Germania, la “non belligeranza” e poi la dichiarazione di guerra (10 giugno 1940) contro Francia e Gran Bretagna, Unione Sovietica e, davvero esagerando, conto gli Stati Uniti d'America senza mai consultarlo. D'altronde nessuno dei suoi componenti si era sentito in dovere di chiederne la convocazione. Anche per loro il Duce aveva sempre ragione.
  Tre anni dopo lo sciagurato ingresso in guerra, perduta in pochi mesi l'intera Africa Orientale (Eritrea, Somalia ed Etiopia, conquistata appena sei anni prima) e poi l'intera Libia e l'ultimo ridotto in Tunisia, anche la Sicilia dal 10 luglio era stata invasa dagli anglo-americani, i cui comandanti impartirono alle truppe direttive poco tenere nei confronti degli italiani, civili compresi. Molte piazzeforti si arresero senza opporre resistenza. Gli “alleati” in molti casi furono accolti come liberatori. A quel punto occorreva salvare il salvabile.

Federzoni avverte il Re, che già sapeva tutto
Federzoni concorse con Dino Grandi alla redazione dell'ordine del giorno da proporre al Gran Consiglio, per proclamare “il dovere sacro di tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l'unità, l'indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l'avvenire del popolo italiano”. Lo pensavano e lo ripetevano da anni quel che rimaneva di liberali, democratici, popolari, socialisti, antifascisti in forzato esilio o da molti anni incarcerati, militanti del neonato partito d'azione e il repubblicano Randolfo Pacciardi, massone. Il Risorgimento non era affatto monopolio dei nazionalisti, meno ancora dei fascisti, che lo avevano confiscato e ridotto a retorica. L'Italia era e doveva tornare a essere degli italiani, come avevano spiegato a loro tempo tanti patres della Terza Italia, quali i “fratelli” Francesco De Sanctis, Giosue Carducci, Giovanni Pascoli e una legione di studiosi che non si erano fermati alla contemplazione letteraria del Paese ma si erano immersi negli studi di statistica, scienze sociali ed economia. Non avevano mai formato un partito, ma una “opinione nazionale”, sulla scia di Cavour e di Massimo d'Azeglio, nel solco di Giuseppe Garibaldi, Francesco Crispi e via via sino a Giovanni Giolitti, capofila del “senso dello Stato”.
Federzoni ebbe il merito di far arrivare clandestinamente il testo dell'ordine del giorno a Vittorio Emanuele III, che ne aveva già notizia indiretta, così come lo ebbe anticipatamente il demolaburista Ivanoe Bonomi tramite Domenico Maiocco, socialista, antifascista e massone. Chi davvero aveva il potere di fare ebbe quindi modo di muovere le falangi di un ordine di battaglia predisposto da tempo.    


Al Re i poteri statutari per salvare l'Italia
Con breve interruzione la seduta del Gran Consiglio durò oltre le due del mattino e si concluse con l'approvazione dell'ordine del giorno Grandi-Federzoni, al quale avevano aderito anche Giuseppe Bottai, Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, mesi prima defenestrato da ministro degli Esteri e nominato ambasciatore presso la Santa Sede (così poté tramare con maggior sicurezza), e altre personalità eminenti del “regime”. Ciascuna di esse poi narrò in memoriali o a intervistatori quanto ricordava. I Grandi Consiglieri del Fascismo tradirono il partito o addirittura l'Italia? Volevano la eliminazione del duce? Anche il verbale redatto da Federzoni molti giorni dopo la seduta conferma che persino i più strenui fautori della “svolta” in realtà si limitarono a “invitare il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re (…) affinché egli voglia per l'onore e la salvezza della Patria assumere con l'effettivo comando delle Forze Armate (…) quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono...”. L'appello era necessario giacché gli anglo-americani preparavano l'assalto alla penisola, le armate italiane erano disperse all'estero, dalla Provenza alla Jugoslavia e alla Grecia, e, dopo anni di stolida autarchia e di razionamento, la maggior parte della popolazione, specialmente nelle città, era ormai alla fame, preda della ”borsa nera”. Gli scioperi del marzo 1943 proprio nei centri industriali avevano suonato il campanello d'allarme: “pane e pace”. Una settimana prima della seduta del Gran Consiglio, nell'incontro di Feltre Mussolini per l'ennesima volta non riuscì a far capire a Hitler che l'Italia non ce la faceva più. Il Fuerher comprese invece che doveva farvi affluire subito divisioni in assetto di guerra per prenderla sotto controllo prima dell'invasione angloamericana. In quelle ore Roma stessa subì un devastante bombardamento aereo “pedagogico”: una brutale esortazione a muoversi, a disfarsi del fascismo e del suo duce prima di essere sistematicamente schiacciata dal cielo, come sin  dal 1940 era accaduto a tante sue città, da Torino a Genova e Cagliari…, in un crescendo di rovine e di orrori. Del resto era stata l'Italia a dichiarare guerra.
  
La mattina del 25 luglio 1943, una domenica, Roma si destò come poteva. Alternava speranza e angoscia. Mussolini, dopo una mattinata di lavoro ordinario (ricevette persino l'ambasciatore del Giappone, al quale assicurò che l'Italia avrebbe  “tirato diritto”: qualcuno ha favoleggiato che stesse approntando la richiesta di pace separata all'Urss staliniana), alle cinque del pomeriggio andò in udienza dal re, che gli revocò la carica di capo del governo, lo fece fermare (non “arrestare” o “incarcerare”) dai carabinieri, “nei secoli fedeli”, e tradurre al sicuro sotto sorveglianza. Poche ore dopo, il maresciallo Pietro Badoglio, duca di Addis Abeba, annunciò per radio la sua successione al “cavalier Mussolini”, che in effetti dal 1924 era insignito dell'Ordine della Santissima Annunziata, “cugino del re”.
Nella seduta, in alcuni momenti concitata ma mai tumultuosa, Federzoni, Grandi, Bottai e gli altri firmatari dell'ordine del giorno avevano chiesto quanto da tempo il Re aveva deciso da sé: il cambio al vertice dell'Esecutivo in vista dell'uscita dell'Italia da una guerra ormai insostenibile, al costo minore possibile. Iniziava una partita difficilissima tuttora poco capita dalla storiografia e dall'opinione comune. Non era la prima volta nei secoli di Casa Savoia. Quel che contava era salvare la continuità dello Stato, sulla base della ribadita unione tra Istituzioni e Paese: “Italia e Vittorio Emanuele”, secondo la formula cara a Garibaldi. L'Italia fu pervasa da manifestazioni di giubilo per la caduta del regime. Non si registrarono mobilitazioni significative a favore di Mussolini né del Partito nazionale fascista, che pochi giorni dopo venne sciolto per decreto legge, come la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, un tempo onnipotente ma che non mosse un dito a favore del “Capo”. Tacquero anche i celebrati “battaglioni M”. Dai cortei nessuno inneggiò a Federzoni, Grandi, Bottai, Ciano o al altri firmatari del poi famoso ordine del giorno. La storia aveva mutato corso senza attenderli. I gerarchi uscirono di scena. Entrò in campo il governo di militari e di tecnici (come Raffaele Guariglia agli esteri) che sin dal 1925 Giovanni Giolitti aveva vaticinato quale unica alternativa alla deriva dell'Italia verso il “partito unico” e le sue nefaste conseguenze interne e internazionali. Qualcuno lamenta che Badoglio impiegò 45 giorni a ottenere la “resa senza condizioni”. Che cosa fa oggi il governo in 45 giorni?

Il regime
Il partito unico ebbe la premessa il 23 febbraio 1923 con la confluenza dei nazionalisti nel partito nazionale fascista, previo un solenne rito sacrificale: la dichiarazione di incompatibilità tra fasci e logge massoniche, deliberata dal Gran Consiglio del fascismo con la partecipazione, in via eccezionale, di uno spretato massonofago, che già aveva pubblicato in Italia i Protocolli dei Savi anziani di Sion e da un decennio faceva da rompighiaccio dell'estremismo contro liberalismo e democrazia parlamentare. Se il giovane Federzoni aveva deplorato la germanizzazione del lago di Garda, quell'ex reverendo aveva scritto un libello su la Germania alla conquista dell'Italia, denunciando i complotti di banche (come la Commerciale di Milano) e di grandi industrie a favore dello straniero.  
A quel punto i nazionalisti ritennero di mettere le briglie al fascismo, ancora un arcipelago di correnti, dissidenze e pulsioni mai giunte a sintesi. Di fatto nell'ambito del regime essi rimasero una frangia autorevole per cultura giuridica e letteraria ma scarsamente influente nell'apparato del partito che era un caleidoscopio di “ras” e di personalità dagli itinerari disparati, ben lontani da qualunque sintesi nella guida politica del Paese.
I nazionalisti avevano avuto maggior peso quando erano la piccola avanguardia dell'opposizione di estrema destra e, sulla scia delle generose visioni di Alfredo Oriani, si erano attribuiti il ruolo di antesignani del grande ritorno a una storia mai esistita. Di fatto avevano funto da mosche cocchiere nella guerra per la sovranità dell'Italia su Tripolitania, Cirenaica e occupazione/liberazione di Rodi e delle Sporadi. Questa venne decisa da uomini pragmatici come il Re, Giolitti e San Giuliano, pronti a tirare le somme di vent'anni di trattative diplomatiche. Del pari si considerarono avanguardia dell'intervento dell'Italia nella Grande guerra, ove però furono anticipati dal loro principale contendente, il Grande Oriente d'Italia capitanato da Ettore Ferrari, e si pronunciarono per la guerra contro l'Austria quando Alfredo Rocco (l'unico nazionalista con alto senso dello Stato) ancora guardava con ammirazione all'impero di Germania quale modello da replicare in Italia. Nel corso del conflitto, che tra gli interventisti registrò la prevalenza di sindacalisti rivoluzionari, socialisti riformisti come Leonida Bissolati, socialmassimalisti alla Mussolini e repubblicani, sempre pronti a minacciare “guerra o rivoluzione”, i nazionalisti ebbero un ruolo marginale, sino alla fase estrema, dopo Caporetto, quando tornò preminente il Grande Oriente guidato da Ernesto Nathan, per il quale bisognava schiacciare i pacifisti come serpenti.
 
Il Nazionalismo e la Nazione
“Nipote” in senso ideale di Giosue Carducci (suo padre, Giovanni, ne era discepolo e cultore), Federzoni dovette il successo del suo esordio politico proprio al declino di Nathan quale sindaco di Roma, non per sua incapacità amministrativa (gli assessori erano competenti e valorosi) ma per la “crociata” da lui incautamente lanciata contro la Chiesa cattolica il 20 settembre 1910. Eletto deputato a soli 35 anni il 2 novembre 1913 nel prestigioso collegio Roma I in ballottaggio contro Antonino Campanozzi (4322 voti contro 3872) Federzoni parve stella cometa di una Quarta Italia. In realtà l'affluenza dei cattolici alle urne era ormai dilagante in tutta Italia in attuazione del “patto Gentiloni” che sommò cattolici moderati, liberali temperati e massoni lungimiranti. Nessuno sentiva bisogno di clericalismo, estraneo all'Italia e soprattutto al suo Re, che aveva da poco scoperto la statua equestre del Padre della Patria e rimaneva scomunicato come i suoi antenati, colpevoli di aver debellato il potere temporale di papi.
Federzoni assunse dunque un ruolo divisivo. La sua ascesa era fatalmente subordinata all'annientamento di un “nemico interno”: il giolittismo e la massoneria, il socialismo riformistico e la democrazia liberale. Non conseguì affatto l'obiettivo. Sulla fine dell'ottobre del 1922 il governo presieduto da Luigi Facta (il sesto in appena tre anni, il peggiore per inconcludenza) fu spazzato via ma non venne sostituito da una compagine nazional-moderata guidata, per esempio, da Antonio Salandra, ma da una compagine di costituzionali capitanata da Mussolini, che andò da Alberto De Stefani al filosofo Giovanni Gentile, da Colonna di Cesarò, demosociale, al giolittiano Teofilo Rossi di Montelera e fu vegliata da Armando Diaz e da Paolo Thaon di Revel, grande ammiraglio. Il quarantaquattrenne Federzoni fu assegnato alle Colonie in successione a Giovanni Amendola, teosofo e massone. Quella del 31 ottobre 1922 non fu Rivoluzione fascista ma continuità dello Stato. Dopo le elezioni del 1924 l’Italia visse la stagione del rapimento e assassinio di Giacomo Matteotti (l'unica certezza sulla sua fine è che morì, ha osservato il suo documentato biografo, Enrico Tiozzo) e dei quattro attentati alla vita di Mussolini, usati quale acceleratore della storia, quasi fosse un paese balcanico. Chiamato a sostituire Mussolini al ministero dell'Interno nella fase più oscura della guerra civile nuovamente strisciante, Federzoni constatò l'ingovernabilità del caos con mezzi ordinari. L'Italia passò allora alle leggi fascistissime, alla reintroduzione della pena di morte per i reati contro lo Stato e al Tribunale Speciale. Il governo aumentò il consenso, ma imboccò il viottolo della repressione di ogni forma di opposizione partitica e, ben presto, di dissenso culturale. Il nazionalismo prevalse solo riducendosi a uno spicchio della Nazione, negando e conculcando la verità della storia. Dal 1925 le Comunità liberomuratorie d'Italia, che facevano da tramite con le democrazie parlamentari più avanzate (monarchie e repubbliche, quali Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti d'America, Svezia, Olanda...), furono costrette ad sciogliersi. Il Paese si era avviato alla decrescita civile. Per frenarla Mussolini stesso chiamò al governo strenui avversari del nazionalismo, quali i massoni Giuseppe Belluzzo all'Economia e all’Educazione nazionale Balbino Giuliano iniziato massone nella loggia “Valle del Chienti” di Camerino quando vi era giovane docente universitario. Ad Alberto Beneduce, grande oratore del GOI, fu affidato il nascente Istituto per la Ricostruzione Industriale. Quella era l'Italia vera.

Federzoni: un umanista di grande talento
Dopo l'avvento del regime di partito unico Federzoni ebbe ruoli eminenti prima da nuovamente ministro delle Colonie, poi come componente del Senato, di cui fu per dieci anni presidente, e soprattutto quale presidente di istituzioni accademiche benemerite, promotrici di opere emblematiche. E' il caso dell'edizione nazionale delle opere di Garibaldi e di Carducci che firmò  con lo pseudonimo “Enotrio Romano” i carmi più  antivaticaneschi usciti da penna italiana (più ancora di quelli di Lorenzo Stecchetti, l'Argia Sbolenfi  ben noto nella Bologna cara al giovane Federzoni).

 Per tutti questi motivi era importante dare alle stampe l'edizione critica del vero Diario scritto da Federzoni nei mesi durante i quali fu ospite dell'ambasciatore  del Portogallo presso la Santa Sede. Riuscì così a scampare alla Repubblica sociale che nel gennaio 1944 condannò a morte e fucilò come traditori Ciano e altri quattro sfortunati firmatari dell'ordine del giorno del 24-25 luglio 1943. E' significativo che a promuovere l'edizione del Diario inedito di Federzoni, impeccabilmente curata da Erminia Ciccozzi, funzionaria dell'Archivio Centrale dello Stato, e da Aldo G. Ricci, suo sovrintendente emerito, sia l'Istituto Lino Salvini di Firenze, per i tipi dell'editore Angelo Pontecorboli: un modello di cultura e di serena contemplazione della grande storia di un'Italia che seppe essere e deve tornare “universale”, lontana dal provincialismo spacciato come sovranismo.
Dal Diario, Federzoni emerge quale aspirante uomo del Re. Ma Vittorio Emanuele III volle essere Re di tutti gli italiani, senza pregiudizio di tessere di partito, di opinioni politiche e di culto religioso. Il carteggio tra l'antico “gerarca” e Umberto II esule in Portogallo documenta la coscienza adamantina e la profonda passione di Federzoni per l'Italia. Cinquant'anni dopo la sua morte, merita di essere conosciuto e riconosciuto nella sua identità di patriota.   


       
  


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