NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 15 aprile 2024

“Umberto I, Il Re buono”, il secondo sovrano d’Italia, a cura di Pezzoni Mauri e Salvatore Sfrecola

  



“Umberto I, Il Re buono”, a cura di Edoardo Pezzoni Mauri e Salvatore Sfrecola con prefazione di Maria Pia di Savoia, primogenita del re Umberto II, si sarebbe potuto intitolare “l’Italia al tempo di Umberto I”, il Re ucciso il 29 luglio 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci: tre o forse quattro i colpi di pistola che, come scrive Sacchi, “posero la parola fine alla bella favola risorgimentale che era stata il motivo conduttore della vita del Re Umberto I”. QUi una sintesi della presentazione di Gianni Torre per il blog Un sogno italiano.

 

Secondo in ordine di successione, dopo il padre Vittorio Emanuele, Umberto fu effettivamente il primo Re d’Italia, nel senso che la trovò unita e visse stabilmente a Roma, dove la consorte, la Regina Margherita, con la sua spiccata personalità, divenne presto molto popolare, per le sue opere di carità e perché raccolse attorno a sé personalità della cultura provenienti da tutto il Regno, in tal modo costituendo, accanto alla Corte tradizionale, un ristretto salotto intellettuale (quasi un “Circolo della Regina”), di cui scrivono Rossella Pace ed Edoardo Pezzoni Mauri (“Il mito della Regina!), frequentato assiduamente da artisti, letterati, filosofi e politici, da Marco Minghetti a Terenzio Mamiani, al Premio Nobel per la poesia Giosuè Carducci.

 

È l’Italia che, finalmente unita, anche se mancano ancora Trento e Trieste, ha l’ambizione di diventare “un grande Stato”, come aveva auspicato Cavour all’atto della costituzione del Regno, e intraprende la strada delle riforme amministrative, economiche e sociali con le quali il Paese, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, sarà all’avanguardia in Europa. Basta ricordare il Codice Zanardelli del 1889 che abolisce la pena di morte che rimarrà, invece, nella legislazione di molti paesi europei fino al ventesimo secolo, una riforma sulla quale ha scritto pagine di straordinario interesse il Professor Nicola Pisani.

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“Umberto I, Il Re buono” un libro sul secondo sovrano d'Italia (blitzquotidiano.it)

Visita al Museo dell'Ara Pacis


 Siete cortesemente invitati a un Nostro Incontro di Studio e di Ricerca

dedicato al Patrimonio Storico Italiano, 

con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.

 Invito MUSEO ARA PACIS AUGUSTAE





L’Incontro, occasionato dal Natale di Roma,

illustrerà l’analogia tra l’Ara Pacis e l’Altare della Patria,
mettendo in luce un nesso essenziale
tra la Pax Augustea e l’Unificazione Nazionale.
DOMENICA  POMERIGGIO  21  APRILE  2024  ORE 16
LUNGOTEVERE  IN AUGUSTA  (Entrata in alto)  ROMA
L’INGRESSO E’ GRATUITO     La puntualità è cosa gradita
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA
In ALLEGATO ulteriori informazioni e le modalità di partecipazione.
Cordialmente.
         Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro

mercoledì 10 aprile 2024

Saggi Storici sulla sulla Tradizione Monarchica - VII

 


2) LA DECADENZA DELL'IMPERO

La creazione di questi nuovi stati e l'organizzazione dei comuni, avevano fortemente scosso l'autorità imperiale a cui era pur sempre connessa, titolarmente, anche la corona d'Italia e questa situazione di decadenza dell'Impero era in pieno sviluppo quando sali sul trono di Germania l'Imperatore Federico I Barbarossa (1152). Questi dapprima si alleò con il Papa promettendo di aiutarlo nella resistenza contro i romani che erettisi a comune venivano spesso a contrasto con l'autorità pontificia, e contro i normanni il cui vassallaggio era sempre alquanto pesante e pericoloso, ricevendo in cambio dal Papa Adriano IV la corona imperiale in San Pietro. Ma il Barba-rossa se respinse in effetti bruscamente le pretese del comune di Roma, che avrebbe voluto essere lui ad offrirgli la corona imperiale, desistette però dall'attaccare il regno normanno, retto allora da Guglielmo I perdendo un momento eccezionalmente favorevole, giacché l'imperatore bizantino Manuele I Comneno stava tentando di riconquistare i possessi italiani giungendo a mettere piede a Bari e a Trani, spingendosi sino ad Ancona. I bizantini, non aiutati dai tedeschi, finirono però col soccombere e furono costretti a concludere con i normanni la pace nel 1158, mentre fin da prima Adriano IV si era riconciliato con Guglielmo I accordandogli l'investitura del regno, comprese Capua e Napoli.

La politica del Barbarossa si volse soprattutto al tentativo di schiacciare la potenza dei comuni dell'Italia settentrionale; nella sua seconda discesa in Italia, convocò nel 1158 la dieta di Roncaglia onde stabilire definitivamente i rapporti fra i comuni e i suoi imperiali diritti e rivendicò all'impero la nomina dei magistrati, la coniazione della moneta, l'amministrazione della giustizia, la riscossione dei pedaggi e la disposizione dei feudi. Quando però tentò di inviare i suoi rappresentanti nelle città, Milano cacciò i messi imperiali mettendosi a capo delle città ribelli. Federico assediò Crema che fu rasa al suolo dopo sei mesi d'assedio, dopo oltre due anni di difesa disperatissima Milano abbandonata dalle altre città dovette arrendersi a discrezione e per ordine imperiale fu distrutta dai cittadini di Como, Novara, Pavia e Cremona, città inimicissime della capitale lombarda; sembrò per un momento che la potenza comunale fosse distrutta per sempre (1162).

La potenza smisurata del Barbarossa provocò però una coalizione contro di lui, egli tentò alla morte di Adriano IV di contrapporre al successore canonicamente eletto, Alessandro III, un antipapa suo 'pa­rente che si chiamò Vittore IV; mentre la Germania e parte dell'alta Italia riconobbero l'antipapa, intorno ad Alessandro III si strinsero i comuni antimperiali, la Sicilia, la Francia e l'Inghilterra. Il Papa scomunicò l'imperatore, tentando di deporlo, ma fu costretto a rifu­giarsi prima a Genova e poi in Francia.

Le città della Marca veronese, Verona, Vicenza, Padova e Treviso strinsero una lega antimperiale: la lega veronese, che ebbe l'appog­gio di Venezia ed anche dell'imperatore bizantino, ancora padrone di Ancona, che sperava di riunire sul suo capo le due corone imperiali; la rivolta di Cremona e Mantova, Bergamo e Brescia che con i mila­nesi strinsero il patto di Pontida, furono il primo nucleo della Lega Lom­barda (aprile 1167). Federico tornò in Italia, sottomise Ancona e Ro­ma in cui installò il suo antipapa, ma la lega lombarda, ormai forte e compatta, lo costrinse a fuggire in Germania travestito nei primi giorni del 1168; egli rientrò in Italia dopo sei anni, ricominciando le ostilità; dopo assedi, lotte e tentativi di pace falliti, fu ancora battuto dalla lega a Legnano il 29 maggio e si piegò a riconoscere in Alessandro III il vero Papa. La potenza imperiale nell'Italia setten­trionale era tramontata per sempre e nuovamente prendevano vita le istituzioni comunali riconosciute dal Barbarossa nella pace di Co­stanza il 25 giugno 1183.

Al Barbarossa successe il figlio Enrico VI che sposando l'ultima degli Altavilla, Costanza, riuscì ad impadronirsi della corona normanna con breve lotta contro Tancredi conte di Lecce, rampollo illegit­timo della Casa. Così l'impero che aveva perduto gran parte del suo potere nel settentrione veniva a costituirsi una base potente nel capo opposto della penisola, minacciando i territori pontifici e comunali che si trovarono stretti come in una morsa nei territori imperiali, ma Enrico VI morì improvvisamente a Messina nel 1197 mentre prepa­rava una spedizione contro l'impero d'oriente e la moglie Costanza, seguendolo nella tomba l'anno dopo, lasciò il Papa Innocenzo III come reggente durante la minorità del figlio Federico.

 

Innocenzo, non volendo che le corone dell'Impero e di Sicilia fos¬sero riunite, incoronò imperatore nel 1209 il duca Ottone di Brunswick, vincendo le opposizioni di un partito tedesco ad esso contrario; il nuovo imperatore si mostrò però ben presto avido di potere e dispo¬tico, invadendo il patrimonio di S. Pietro e la parte continentale del regno di Sicilia; allora Innocenzo III lo scomunicò, eccitò contro di lui la lega toscana e i sovrani di Francia e Inghilterra, infine lo depose riconoscendo come imperatore Federico II di Sicilia, dietro promessa di questi di rinunciare ai domini italiani e di riconoscere l'alta so¬vranità pontificia sulla Corsica e la Sardegna.

Federico II condusse una politica quasi esclusivamente italiana, risiedendo quasi sempre nella penisola, soprattutto a Palermo, e curandosi poco delle vicende della Germania. La sua grande intelligenza e la sua formazione lo portarono a rendere il regno e la sua corte palermitana un centro importantissimo di cultura ove brillarono i migliori ingegni dell'epoca, fra i quali il suo ministro prediletto Pier delle Vigne, che fu anche squisito poeta, Giacomo da Lentini e Jacopo Mostacci.

La sua politica assolutista ed il suo indugio a mantenere la pro­messa di partecipare alla crociata per la liberazione della Terra santa, lo portarono però a contrastare sia con i Papi che con i comuni. Gre­gorio IX papa lo scomunicò e dopo che Federico II ebbe sconfitto l'eser­cito della lega comunale a Cortenuova, presso Bergamo, nel 1237 di­venne il protettore delle libertà comunali contro l'imperatore eretico e scomunicato. La lotta si inasprì al punto che il Concilio di Lione, alla presenza di Papa Innocenzo IV, depose Federico, nel 1245, quale spergiuro, sacrilego e sospetto di eresia; ma i Re eletti in Germania contro di lui, Enrico Raspe e poi Guglielmo d'Olanda, non riuscirono a prevalere sul figlio di lui, Corrado, per il quale si schierò gran parte della nobiltà laica dell'Impero. La lotta terminò solo con la morte di Federico avvenuta nel castello di Fiorentino, il 13 dicembre 1250

Poiché Federico II aveva ordinato che l'unione delle corone di Germania e di Sicilia durasse in perpetuo, la reggenza in Sicilia in nome di Corrado imperatore, fu assunta da Manfredi principe di Ta­ranto, suo fratello naturale; morto Corrado poco dopo, nel 1254, la­sciando un solo figlio, Corradino, Manfredi si fece incoronare Re e-la sua potenza si accrebbe fino a farne il capo della fazione imperiale in Italia, già detta dei Ghibellini, tanto che egli sognò per un momen­to di cingere la corona di un regno italico.

La sua potenza preoccupò però il Pontefice, che conservava sempre i diritti di alto patrono del regno di Sicilia e questi offrì la corona a Carlo d'Angiò fratello del Re di Francia e signore di Provenza e di Nizza. Carlo scese in Italia, fu incoronato da papa Clemente IV, Re di Sicilia e sconfitto Manfredi nel 1266 presso Benevento si impadronì del territorio.

Un ultimo tentativo degli Svevi di rioccupare il trono siciliano, fu quello di Corradino che, sconfitto a Tagliagozzo il 23 agosto 1268, fu imprigionato e decapitato per ordine di Carlo d'Angiò a Napoli il 29 ottobre.

 

 

martedì 9 aprile 2024

LIBERTÀ SOTTOTERRA? LA TROVÒ IL VECCHIO PIEMONTE COL TRAFORO DEL FREJUS

 



 

di Aldo A. Mola

 

 

Aldo A. Mola Le vie imperiali...

    Sconfitto a Waterloo a metà giugno 1815, Napoleone “passò”. Ma lasciò molto più di una labile “orma”. A parte i Codici, rimasti modello per tanti Paesi, consegnò ai posteri le strade che ancora ne portano il nome, le migliori d'Europa dal tempo dei romani. Come narrò Hermann Schreiber in “Le vie della Civiltà. Strade e percorsi storici” (Edizioni Odoya), il declino dei “Cesari” portò con sé quello della rete viaria estesa dalla Città Eterna alle più remote province dell'impero. Assediata da erbacce, essa affondò sotto la polvere dei secoli. Anche la civiltà classica finì tra le sepolte.

   Con il repentino disfacimento del Sacro romano impero agli insediamenti sulle coste, fiorenti in età romana, furono preferiti borghi arroccati in posizioni più difendibili in caso di scorrerie ma poveri di collegamenti. Il nemico era ovunque. Quando iniziarono a riaversi, le comunità investirono in mura e chiese fortificate molto più che in strade. Sotto l'avanzata araba e quella, successiva, turco-ottomana l'Europa si restrinse. La svolta giunse con Napoleone. La rete stradale serviva ai fulminei spostamenti delle sue armate, come quella romana per le legioni, e per vivificare il commercio all'interno del “blocco continentale”. Affrontò d'impeto gli ostacoli naturali, a cominciare dalle Alpi, aggredite dalla Costa Azzurra al confine italo-elvetico.

   Nel decennio 1839-1847 i Congressi degli scienziati italiani ideati Carlo Luciano Bonaparte, nipote dell'imperatore e principe di Canino, proposero di abbattere le barriere doganali e di potenziare la rete viaria sull'esempio di Gran Bretagna e Francia. Vaganti dall'una all'altra città storica (ma con esclusione del diffidente Stato pontificio) gli scienziati sapevano quanto fosse arduo viaggiare e trovare albergo per una sosta prolungata e bisognosa non solo di un'aula per svolgere i lavori assembleari ma di ampi spazi per scambiarsi informazioni riservate. Lasciati da parte i pugnali carbonari e mazziniani, essi mirarono a formare l'“opinione nazionale”. Erano “i fatti” a parlare. L'incremento della produzione agricola e manifatturiera esigeva una concezione delle vie di comunicazione non soffocata da controlli di polizia e dazi doganali.

...e quelle ferrate: primato del Vecchio Piemonte

   A differenza degli altri Stati d'Italia, il “Piemonte” albertino aveva dinanzi a sé una sfida: le Alpi. La raccolse proprio sulla traccia di Napoleone. Con le patenti del 18 luglio 1844 Carlo Alberto di Savoia impostò lo schema della rete ferroviaria da realizzare nel regno, con priorità per la Torino-Alessandria-Genova con la diramazione da Alessandria a Novara e al Lago Maggiore. Ma, come bene documentano Marco Albera ed Enrico Cavallo in “L'altro Risorgimento. Cronache del traforo del Fréjus” (Centro Studi Piemontesi), il progetto generale concepito da Bartolomeo Bona, capo dell'Azienda generale delle strade ferrate, su impulso di Des Ambrois de Nevache, comprese anche l'ardita impresa del Fréjus.

   Le strade erano molto. Lo sapeva bene Cavour, che conosceva le difficoltà e il costo aggiunto per il trasporto del suo vino dalle Langhe a Torino. Ma ormai non erano più tutto. Proprio mentre ferveva il loro potenziamento si affacciò dirompente la “strada ferrata”, sull'esempio di quanto avveniva nei Paesi di seconda industrializzazione come Gran Bretagna, Belgio e Francia, avvantaggiati dalle caratteristiche orografiche dei loro territori. Le ferrovie richiesero maggior lungimiranza politica e convergenza tra vertici dello Stato, amministrazioni locali, concorso finanziario pubblico e privato e apertura a imprenditoria estera, attratta da opportunità e da generose “concessioni” di lunga durata. Nel suo insieme l'Italia arrivò tardi a dotarsi di una rete ferroviaria. In quell'ambito il Vecchio Piemonte svettò. Nella primavera del 1859, alla vigilia della guerra franco-piemontese contro l'impero d'Austria, metà delle linee ferroviarie dell'intera penisola erano sue. I numeri parlano da soli: il “Piemonte” contava 802 chilometri di ferrovie contro i 298 del Veneto, i 202 della Lombardia, i 256 della Toscana, i 101 dello Stato Pontificio e i 98 del regno delle Due Sicilie, che era il più ampio tra gli Stati italiani. Alla proclamazione del regno d'Italia (14 marzo 1861) intere regioni dell'Italia centro-meridionale erano ancora povere o del tutto prive di strade ferrate. Sicilia, Puglia, Basilicata, Abruzzo non ne avevano neppure un chilometro. Torino aveva capito prima di Napoli che l'Italia era la scorciatoia dal Canale della Manica a quello di Suez, la cui apertura procedeva rapidamente, e quindi per le Indie e l'Estremo Oriente, ove l'Inghilterra conduceva la spietata “guerra dell'oppio”. La radice della “questione meridionale”, oggi pressoché scomparsa dai riflettori della storiografia, è tutta lì: nell'incapacità dei Borbone delle Due Sicilie di pensare in europeo o almeno “in mediterraneo”. Si ritenevano invulnerabili tra l'acqua salata e l'Acqua Santa. Nell'ottobre 1860 Vittorio Emanuele II di Savoia varcò il passo del Macerone, invase il regno e, in raccordo con Garibaldi, giunto a Napoli dalla Sicilia, lo soggiogò senza neppure dichiarare guerra.

 

Il Traforo de Fréjus, prima che l'Italia venisse

   Quelle scelte politiche fecero la differenza e si proiettarono sul secolo successivo. Altrettanto vale per la legge che il 15 agosto 1857 decise l'apertura del traforo ferroviario del Fréjus: un'impresa ciclopica da molti considerata impossibile o comunque al di sopra delle risorse del regno di Sardegna. A distanza di un oltre un secolo e mezzo merita riflettere sul fatto che essa venne deliberata quando nessuno aveva in cantiere la futura cessione della Savoia alla Francia di Napoleone III. Fu dunque una decisione maturata all'interno e per l'interno del regno, ma al tempo stesso per farne il “ponte” tra l'Italia settentrionale e l'industre e pingue Europa centro-occidentale. Il colloquio tra Napoleone III e Cavour a Plombières del 21 luglio dell'anno seguente, al netto delle leggende, non contenne né lo sbarco dei Mille a Marsala, né l'annessone di Venezia, né, meno ancora, l'irruzione di Porta Pia del 20 settembre 1870. Prevedeva certamente Milano, per secoli agognata da Casa Savoia, premessa del futuro triangolo industriale ligure-piemontese-lombardo proiettato ad assorbire i Ducati padani, l'Emilia e la Romagna, eliminandovi le Legazioni. Ma quelli erano i “confini” del ragionamento e delle speranze: un regno sabaudo dell'“Alta Italia”, senza pregiudizio per il controllo dei valichi orientali da parte dell'impero d’Austria.

   Anche dopo la proclamazione del regno d'Italia, quando furono celebrati i congressi straordinari di Firenze (1861) e di Siena (1862), le comunicazioni stradali e le strade ferrate rimasero nominalmente estranee agli interessi degli scienziati italiani, che si occupavano di fisica e matematica, chimica e farmaceutica, botanica e zoologia, medicina e chirurgia, agronomia e veterinaria, archeologia e storia, filologia e linguistica, economia politica e statistica, filosofia e legislazione, pedagogia.

   La svolta maturò dopo l'annessione di Roma e del Lazio. Per l'XI congresso, presieduto da Terenzio Mamiani, massone di lungo corso, venne pubblicato il volume L'Italia economica nel 1873 (Roma, Tip. Barbera). Imponente per i tempi, esso calcò il modello dei censimenti: meteorologia, idrografia, popolazione, istruzione pubblica (con speciale attenzione per quella industriale e professionale), giustizia penale e civile, carceri, opere pie, esercito, marina, lavori pubblici, finanze dello Stato, delle provincie e dei comuni e statistica elettorale. Nella sezione dei lavori pubblici al penultimo posto comparvero le strade ferrate: appena dieci pagine contro le ventidue dedicate alle strade ordinarie, non per sottovalutazione ma perché queste erano di gran lunga più sedimentate nell'attenzione dei governi. Tuttavia l'Italia economica scrisse che la costruzione di ferrovie stava procedendo “con non minore alacrità” e vantò con orgoglio “il gran tunnel del Cenisio, aperto al pubblico il 16 ottobre 1871, opera gigantesca e ritenuta chimerica fino a questi ultimi anni”. Ne descrisse i requisiti, ne elogiò gli artefici e ne indicò il “costo totale”.

   Quella galleria era motivo di vanto, ma bisognava guardare al futuro. Erano in costruzione altri 1118 chilometri di strade ferrate, 674 dei quali a totale carico dello Stato. Le loro “condizioni eccezionali”, per le “difficoltà tecniche” opposte dal territorio (basti pensare alla costiera ligure e agli Appennini), imponevano qualche comprensibile ritardo. Ma la Nuova Italia non rinunciava all'obiettivo: fare delle linee ferroviarie le arterie per unificare davvero il Paese.

   Non bastasse, lungi dal ripiegarsi sul territorio nazionale, “dopo maturi studi e lunghe trattative”, il Governo italiano il 15 novembre 1869 aveva stipulato con la Confederazione Elvetica una convenzione, con adesione del governo germanico, per la costrizione di una ferrovia attraverso il San Gottardo: altra impresa audacissima, ammirata da tutti i paesi civili, accennata con poche sobrie parole.

   Strateghi del processo economico in corso, innervato sul ministero della Pubblica istruzione retto da Cesare Correnti, erano statisti quali Giovanni Lanza e Quintino Sella, titolare delle Finanze e successore di Correnti alla Minerva.

   A chi si rivolgevano progettisti e fautori delle strade ferrate? La risposta va cercata nella struttura della monarchia rappresentativa fondata da Carlo Alberto con lo Statuto del 4 marzo 1848, preceduto dalle regie patenti che nel novembre 1847 resero elettivi i consigli comunali, provinciali e divisionali e mobilitarono migliaia e migliaia di cittadini chiamati a concorrere alla vita pubblica di concerto con l'amministrazione e gli “uffici”. La Carta albertina fissò la cornice dello Stato: il Re, il “suo” governo (l'esecutivo) e il Parlamento (il legislativo), formato da una Camera di nomina regia e vitalizia e da una elettiva. Quest'ultima era e sarebbe rimasta il luogo proprio delle deliberazione delle leggi di bilancio, con priorità rispetto al Senato. L'elettività propiziò l'avvento di una dirigenza rappresentativa degli interessi superiori dello Stato, perché da un canto liberò gli eletti da ogni mandato da parte dei votanti, dall'altro esortò implicitamente gli elettori ad affidarsi a rappresentanti effettivamente competenti. Se insoddisfatti, al prossimo turno elettorale se ne sarebbero disfatti. La costruzione di una ferrovia non era però cosa di breve durata, come i quattro-cinque anni (a volte anche meno) di una legislatura. Si verificò dunque un miracolo nel miracolo. Mentre la Nuova Italia s’impegnava nella realizzazione di opere gigantesche, gli elettori confermarono reiteratamente la loro fiducia a deputati di sicura capacità, tra i quali spicca un cenacolo di “ingegneri ferroviari” vocati a spiegare nelle Aule parlamentari quanto occorreva per modernizzare l'Italia.

   Andavano dove portavano i binari ancora da gettare, le stazioni da edificare, la complessa ricerca di soluzione dei tanti conflitti tra amministrazioni comunali, circondariali, provinciali e interessi d'ogni classe. Eletto deputato dai collegi di Taninges, Aosta e di Susa Germano Sommeiller fu il meno longevo dei tre ingegneri ferroviari istoriati nella ghiotta opera di Albera e Cavallo. Severino Grattoni rappresentò i collegi di Varzi, Ceva e Voghera. Più giovane di tutti fu Luigi Ranco, che vagò dalla sua nativa Asti a Francavilla e a Borgo San Dalmazzo, la terra di Sebastiano Grandis, altro pioniere delle strade ferrate, per riprenderne la linea Cuneo-Nizza. Dal suo maestro, Pietro Paleocapa, Ranco aveva appreso la non facile arte di ottenere i finanziamenti per la costruzione di ferrovie e la solidarietà della miriade di mediatori necessari per rimuovere le opposizioni al tracciato man mano che esso prendeva corpo. Quando la strada ferrata, talora modificando i progetti originari, arrivava in prossimità di uno dei tanti paesini del percorso in programma ogni suo chilometro diveniva oggetto di dispute animate giacché mutava dall'oggi al domani il valore delle aree contigue. Perciò fu bersaglio di riserve e persino di accuse di collusione con notabili che ottennero altrimenti inspiegabili deviazioni dal tracciato originario. Ma tutto era possibile all'epoca. Anche illudere vaste cerchie di elettori con progetti venturosi, come una ferrovia dalla Valle Maira a Marsiglia, come narra l'anonimo volume Saluzzo. Un'antica capitale (pref. di Gianni Rabbia, Roma, Newton & Compton, 2001), con tunnel e ponti irrealizzabili e dal profitto irrilevante.

Giolitti postino campestre

   Nel 1882 Ranco (1813-1887) chiuse un'epoca. Lasciò il seggio deputatizio per il laticlavio senatoriale. E liberò il collegio di Borgo San Dalmazzo a beneficio di Luigi Roux, direttore-proprietario di “La Stampa” di Torino, bisognoso di un seggio per meglio influire sull'opinione pubblica, come aveva fatto il suo “predecessore” Vittorio Bersezio. Roux si candidò alla Camera per il Collegio di Cuneo I, in una “terna” comprendente Sebastiano Turbiglio, massone e docente di storia della filosofia alla “Sapienza” di Roma, e il quarantenne consigliere di Stato Giovanni Giolitti, alle sue prime armi come politico e allocato a Cavour, un comune all'epoca privo di collegamenti ferroviari e tramviari, talché a volte andava a piedi da casa a Pinerolo per “prendere il treno” verso Torino e Roma. Da “postino campestre”, come si definiva, nel lungo tragitto meditava sulle impellenti necessità per “fare lo Stato” ed educare gli italiani al senso civico. “Fatta l'Italia”, lunga e impervia, urgeva dotare di servizi minimi le terre che non ne avevano da secoli. Quindi il governo dirottò le sue risorse verso terre lontane dal Vecchio Piemonte. Paradossalmente la Francia divenne più remota proprio quando il traforo del Fréjus giunse a compimento. Travolto Napoleone III a Sedan a inizio settembre 1870, la “sorella latina” si mostrò sempre più arcigna nei confronti dell'Italia, malgrado gli appelli dei democratici (garibaldini, protoradicali...) alla Francia di Victor Hugo e Léon Gambetta, sino alla guerra doganale del 1886, al tragico episodio di Aigues-Mortes e alle contese per gli spazi coloniali, aperte con il protettorato di Parigi sulla Tunisia e proseguite con l'aiuto della Francia a Menelik per tarpare le ali all'avanzata dell'Italia dalla costa eritrea all'interno del Continente Nero.

   Le opere in stallo sul confine italo-francese tali rimasero per decenni, a cominciare dalla ferrovia Cuneo-Nizza, intrapresa sin dall'età di Cavour ma completata solo nel 1929, poi interrotta per danni bellici, riattata ma sempre ansimante, riscoperta e promessa a ogni turno elettorale, ma sempre più trascurata con malcelata ironia nei confronti di quanti la proposero e ancora la promuovono come la Berna-Marsiglia passando per Cuneo...

   La storia della rete ferroviaria e in particolare di un'opera come il traforo del Fréjus pone interrogativi di qualche attualità. Anzitutto, come si formano i cittadini e come scelgono da chi farsi rappresentare? In secondo luogo, quali sono le “vie di comunicazione” oggi a loro disposizione? Un tempo pedibus calcantibus, a cavallo o in carrozza essi percorrevano strade; poi salirono sui vagoni ferroviari. Vedevano quel che facevano e bene o male controllavano i conduttori. Ma ora? Chi veglia sulle nuove vie di comunicazioni, nell’incipiente età della misteriosa Intelligenza Artificiale?

   «A che tante facelle?», si domandava angosciato Giacomo Leopardi quando in Italia le ferrovie mossero i primi… binari.