NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 27 dicembre 2021

Nuovo aggiornamento del sito dedicato a Re Umberto II


Carissimi,

dopo aver dato una sistemata generale alla struttura del sito ricominciamo con la pubblicazione, speriamo regolare, di tutto ciò che riguarda Re Umberto II.
Riproponiamo la prima parte dell'opuscolo di Nino Bolla che avevamo iniziato sul vecchio sito e che era rimasta ancora esclusa dal nuovo. 
Proprio il tentativo frustrato di pubblicare la seconda parte ci ha costretto alla revisione generale di tutto.

Il tempo dedicato al sito ha sottratto attenzione a tutto il resto.

Speriamo che il 2022 sia meno difficoltoso degli anni precedenti e che si possa diffondere la conoscenza del nostro Sovrano e della sua grandezza d'animo.

L'imminente cambio della guardia al Quirinale ce lo fa rimpiangere ancora di più.

https://www.reumberto.it/umberto-di-savoia-luogotenente-generale/





sabato 25 dicembre 2021

Buon Natale, Maestà!

Ultima pagina di copertina, Candido, dicembre 1958.
Al Re non mancava l'affetto degli italiani.


 

Il santo Natale del Re Umberto II dall'esilio in Portogallo

 di Emilio del Bel Belluz


Il giorno di Natale è sempre stato per me il più bello di tutto l’anno, perché è portatore di pace, amore e serenità, valori che vengono trasmessi dalla Sacra Famiglia.

Quando ho ultimato il presepe, con molta cura metto una piccola pietra nella capanna, vicino a Gesù Bambino, che apparteneva a Villa Italia, dove visse l’ultimo Re Umberto II.

Quando compio questo gesto, desidero avere vicino i miei nipoti, in particolare quello che porta il nome del sovrano e racconto loro quanta tristezza aveva provato Umberto II nei suoi trentasette anni d’esilio e di come il Re era solito andare alla messa di mezzanotte nella piccola chiesa di Cascais che distava non molta strada dalla sua abitazione. 

Questo percorso la faceva a piedi, perché gli era gradevole il silenzio che regnava attorno.” Una breve strada in salita, uno spiazzo, e chiese più semplici di questa, bianca di calcina, che mi si presenta allo sguardo è difficile trovare. Una facciata nuda, tre finestrine, due campanili che non superano la croce posta sul sommo del tetto. Una povera chiesa di pescatori, tra gridi di gabbiani e leggeri voli di spume “. 

Una volta entrato in chiesa con il messale che gli aveva donato la mamma Regina Elena, si metteva al solito posto sulla destra, vicino ad una statua della Madonna a cui era molto devoto.

Seguiva la liturgia dal messale, e s’accostava alla comunione come fanno quelli che amano il Buon Dio. Alla sua uscita si intratteneva con i poveri che lo aspettavano per chiedergli l’elemosina.

Il Re d’Italia, dal cuore buono, offriva a tutti dei soldi, e questa gente gli voleva bene, e sapeva di contare su una persona grande. Si parlava della sua bontà anche nei paesi vicini e sempre più poveri affluivano fuori dalla chiesetta, attendendo l’obolo.

Quando era il giorno di Natale il Re era ancora più generoso. La gente del piccolo villaggio di pescatori condivideva il suo dolore per la lontananza dalla sua patria, un’ingiustizia che doveva portare come una croce. Il Re, poi, si avviava a casa di alcuni di loro con i quali sorseggiava un bicchierino di porto.

Il sovrano era un grande uomo che aveva imparato dalla mamma Elena l’amore per la povera gente, per i disperati e gli ultimi.  Nel giorno di Natale avrebbe voluto poter stare con i suoi pescatori, mangiare a tavola con loro, sentire i canti di Natale, vedere i bambini che davanti al presepe osservavano le statuine e mettevano vicino a Giuseppe e Maria, il Piccolo che era nato. La vita lontana dal suo Paese lo aveva privato dei suoi affetti più cari, e spesso la sua anima si riempiva di tristezza, e nonostante gli sforzi per celarla, traspariva ugualmente dal suo volto.

Ogni anno davanti al mio presepe penso a quel Re che riposa ancora lontano dalla sua terra, e che attende d’essere sepolto al Pantheon dove ci sono gli altri Re d’Italia. Davanti al presepe, lo scorso anno, raccontai a mio nipote Umberto che in quella chiesetta di Cascais, ho fatto giungere una statua della Madonna in ricordo del Sovrano.

Il Ministro Falcone Lucifero in un’intervista disse che il Re, alla sera, in solitudine osservava il mare, e le navi le cui luci giungevano da lontano. Un poeta scrisse: “Osservate più spesso le stelle. Quando avrete un peso nell’animo, guardate le stelle o l’azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, quando qualcosa non vi riuscirà, quando la tempesta si scatenerà nel vostro animo, uscite all’aria aperta, e intrattenetevi da soli col cielo. Allora la vostra anima troverà la quiete”.

Anche adesso nel mio presepe il Re è presente.

giovedì 23 dicembre 2021

Il volume, edito da BastogiLibri; via Giacomo Caneva,19;  00141 Roma;   

E. mail:  bastogiLibri@alice.it; ( tel. 340. 6861911), è uscito nella collana

“de Monarchia” e comprende saggi di Carlo M. Braghero, Carlo Cadorna,

Giuseppe Catenacci, Gian Paolo Ferraioli, Luca G. Manenti, Aldo A. Mola,

Rossana  Mondoni,  Aldo  G.  Ricci,  Tito  Lucrezio  Rizzo,  Gianpaolo

Romanato, Giorgio Sangiorgi, Cristina Vernizzi e Antonio Zerrillo.   




 

lunedì 13 dicembre 2021

DA QUATTRO ANNI VITTORIO EMANUELE III E LA REGINA ELENA A VICOFORTE



Un “Memoriale” dei Presidenti della Repubblica? 

Tutti i grandi Stati onorano i propri “Capi” antichi e recenti. Sono gli Stati che, quale ne sia la dimensione territoriale, quando è il momento, accettano le sfide della Storia e, se necessario, combattono. Alcuni vincono, altri perdono. I vinti sopravvivono se conservano memoria di sé. È il caso del Giappone, che si fonda sulla memoria degli Antenati. E chi è più “antenato” in uno Stato se non il suo Capo? Egli è la sintesi della sua identità. Tra le debolezze “di sistema” della Repubblica attuale vi è la discontinuità del ricordo dei suoi “Capi”, da De Nicola all'attuale. Manca un “Memoriale” che li componga nella loro sequenza. I Presidenti della Repubblica sono narrati in opere degnissime (per es. in “Parla il Capo dello Stato” del quirinalista Tito Lucrezio Rizzo) ma le loro effigi non sono raccolte insieme in un luogo “pubblico”. Per rendere omaggio all'Italia i successori dei Re salgono ai piedi della Dea Roma in cima all'Altare della Patria, voluto dalla monarchia che unì l'Italia. All'esterno e all'Interno del Vittoriano non manca lo spazio per sintetizzare i 160 della “unità nella continuità”, assicurata dal Re Soldato nella stagione più drammatica della sua lunga storia e l'effigie dei Capi dello Stato dal 1946 a oggi.

Nella preoccupante riffa in corso sull'elezione del prossimo Presidente della Repubblica merita riflettere sulla Sepoltura di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena: un esempio di grande civiltà. 

Prima i vivi... 

Quattro anni orsono, il 15 e il 17 dicembre 2017, giunsero in Italia le salme della Regina Elena e di Vittorio Emanuele III. La loro traslazione era stata per decenni in vetta alle richieste dei monarchici (partiti, movimenti, associazioni...) e, per “ragione sociale”, dell'Istituto nazionale per la guardia d'onore alle Reali Tombe del Pantheon. Verso fine Novecento però tra i più prevalse la direttiva “prima i vivi, poi i morti”. Fu data la precedenza alla richiesta di abolizione dell'esilio che ancora colpiva Vittorio Emanuele di Savoia e suo figlio Emanuele Filiberto, nato a Ginevra il 22 giugno 1972. 

Il 23 ottobre 2002 il Parlamento approvò la legge costituzionale (in vigore dal 10 novembre successivo) che esaurì gli effetti dei primi due commi della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione. Essi privavano dei diritti politici attivi e passivi gli ex Re di Casa Savoia, le loro consorti e i discendenti maschi, a ciascuno dei quali era vietato l'ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale. Rimasero in vigore l’avocazione allo Stato dei beni degli ex Re di Casa Savoia, delle consorti e dei discendenti maschi esistenti nel territorio nazionale e l'annullamento di trasferimenti e costituzioni di diritti reali sugli stessi avvenuti dopo il 2 giugno 1946, giorno “convenzionale” dell'avvento della Repubblica, che in realtà data dal 19 giugno seguente, come recita la “Gazzetta Ufficiale”, citata da Argenio Ferrari in “Lex et Libertas in potestate Regis” (ed. Bastogi Libri). La sorte delle Salme finì in un cono d'ombra. 

Finalmente… quei giorni 

Nondimeno alle 7.30 del 15 dicembre 2017, mentre appena albeggiava, il feretro della Regina Elena fu estumulato in forma privata nel cimitero Saint Lazare di Montpellier, la città ove era morta il 28 novembre 1952 ed era stata inumata. La sua Famiglia fu rappresentata dall’avvocato sanremasco Luca Fucini, componente della Consulta dei senatori del regno, munito di apposita delega. La cerimonia venne ripresa dalle reti televisive France 2 e Montpellier Actualité, previamente informate dalla Mairie, malgrado la raccomandazione di assoluta riservatezza. Alle 17.30 il feretro giunse al santuario-basilica di Vicoforte. Fu accolto dal conte Federico Radicati di Primeglio, delegato dalla Famiglia Savoia “per tutti gli atti necessari a estumulazione, traslazione e ritumulazione delle salme della Regina e di Vittorio Emanuele III”, e dal Rettore del Santuario, monsignor Bartolomeo (Meo) Bessone, vicario della Diocesi di Mondovì, poi parroco a Dogliani e purtroppo rapito dalla pandemia di covid.19. “Don Meo” impartì la benedizione di rito ed evocò la figura della Regina “Rosa d'Oro della Cristianità”. Uno storico, che da mesi affiancava il conte Radicati, aggiunse che per allietarsi dell'evento non era necessario essere monarchici; bastava sentirsi italiani. La lapide reca la scritta “Elena di Savoia/ Regina d’Italia/ 1873-1952”. Presenziarono il sindaco di Vicoforte, Valter Roattino, e l’architetto Claudio Bertano, autore del progetto monumentale. Tempestivamente informata dell'avvenuta traslazione, con una nota alla sede di Parigi dell'agenzia Ansa la principessa Maria Gabriella di Savoia ne dette annuncio alle 17.45, poco prima che iniziasse la conferenza stampa convocata dal sindaco di Montpellier per le 18. Ringraziò monsignor Luciano Pacomio, vescovo di Mondovì, catechista insigne, il Rettore del Santuario e quanti avevano operato “nella discrezione raccomandata dal vescovo” e aggiunse: “A nome e per conto dei discendenti dei Sovrani che vissero cinquantun anni di matrimonio in unione con gli italiani nella buona e nella cattiva sorte e mentre ricordo mia zia Mafalda, morta tragicamente nel campo di concentramento in Germania, ove era stata deportata dai nazisti, esprimo profonda gratitudine al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che propiziò la traslazione delle Salme dei Nonni in Italia, in prossimità del 70° della morte di Vittorio Emanuele III e nel centenario della Grande Guerra, per la ricomposizione della memoria nazionale”. Immediatamente diffusa in apertura dei telegiornali della sera, la notizia fece supporre che fosse imminente la traslazione della salma di Vittorio Emanuele III. Estumulato nella notte del 16 dal retro dell'altare di Santa Caterina di Alessandria d'Egitto, il suo feretro arrivò a Vicoforte sul mezzogiorno del 17 dicembre e fu tumulato con onori militari e l'esecuzione del “Silenzio” con la scritta “Vittorio Emanuele III / Re d'Italia/1869-1947”. Su entrambe le arche è incisa la Stella d'Italia. Così Vittorio Emanuele III e la Regina Elena vennero ricongiunti in Italia. A quanti domandarono perché fossero resi onori militari alla salma del Re fu ricordato che Vittorio Emanuele III morì quattro giorni prima che entrasse in vigore la Costituzione della Repubblica. A differenza di quanto solitamente si dice, non morì affatto “in esilio”. Si congedò dalla vita mentre era cittadino italiano all’estero, nella pienezza dei diritti politici e civili di ex capo dello Stato e delle Forze Armate. 

Gli antefatti della Traslazione. Perché Vicoforte? 

La tumulazione delle salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena a Vicoforte fu il punto di arrivo di un lungo percorso. La scelta venne formulata a Roma in una seduta della Consulta dei senatori del regno il 19 marzo 2011. Fu scartato il Pantheon per indisponibilità di spazi idonei alla dignità di Tombe Reali e per prevedibili intralci di varia natura. Del pari venne ritenuta non idonea la Basilica di Superga, mausoleo dei Re di Sardegna (a eccezione di Carlo Emanuele IV, sepolto a Roma), mentre Vittorio Emanuele III fu Re d'Italia. Voluto da Carlo Emanuele I, duca di Savoia dal 1580 al 1630, quale mausoleo della Casa il Santuario-Basilica di Vicoforte sorge nel cuore della Provincia Granda, seconda “culla” dei Re sabaudi che la vissero intensamente, dai Castelli di Racconigi e Valcasotto alle case di caccia disseminate nelle valli. Vittorio Emanuele III partì per l'Egitto il 9 maggio 1947 col titolo di conte di Pollenzo, il borgo che ospita la vasta tenuta regia poco distante da Vicoforte, ove seguì personalmente i poderi modello avviati sin da Carlo Alberto. Infine il Santuario, circondato dal verde e immerso nella quiete propiziata dal vasto spazio tra la sua facciata e la Palazzata, è affiancato dall'antico monastero cistercense, poi seminario vescovile: un complesso identico da secoli e incontaminato. È il Grande Silenzio che si addice al riposo. Il 7 gennaio 2013, previ ripetuti colloqui con il Rettore del Santuario, la principessa Maria Gabriella di Savoia e il presidente della Consulta espressero al vescovo di Mondovì, monsignor Luciano Pacomio, il “vivo desiderio di congiungere le salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena in Italia” e precisamente nel Santuario di Vicoforte, “che bene si addice ad accoglierle”. Prospettarono una cerimonia funebre da celebrare “in forma strettamente privata, così unendo in morte due italiani che vissero insieme cinquantun anni di matrimonio”. Anche per far meglio apprezzare il Santuario da quanti ancora non lo conoscevano, il 16 marzo 2013 venne organizzato a Vicoforte il convegno di studi “Incontro Umberto II. Trent'anni dopo” con la partecipazione di Amedeo di Savoia, duca di Aosta, che nel 1997 aveva presieduto a Vicoforte il convegno su “L'Italia nella crisi dei sistemi coloniali fra Otto e Novecento”, con la partecipazione di Eddy Sogno, Oreste Bovio, Franco Bandini, André Combes, Fernando Garcia Sanz, Antonio Piromalli e altri storici. A conclusione dell'incontro del 2013 la presidente della Provincia di Cuneo, Gianna Gancia (poi consigliere regionale del Piemonte e dal 2019 deputata al Parlamento europeo), nel preveggente discorso “Casa Savoia nella memoria della Granda” disse: “Sentiamo il dovere di accogliere nella nostra terra le salme di chi certamente amò la Granda, il Piemonte, l'Italia: Vittorio Emanuele III, le cui spoglie giacciono ad Alessandria d'Egitto, in una landa ogni giorno a rischio; e la Regina Elena sepolta a Montpellier. Le loro salme sono emblema di una separazione, di una lontananza, che viviamo come una lacerazione da una parte di noi. Lo Stato non fa? Facciamolo noi d'intesa con la Principessa Maria Gabriella di Savoia, che bene conosciamo quale custode delle memorie della Casa. Dobbiamo averne il coraggio”. Il 22 aprile 2013, sentiti il consiglio di amministrazione del Santuario e il suo rettore, il vescovo di Mondovì, Luciano Pacomio, accolse l’istanza della Principessa e della Consulta. Ricordò che Carlo Emanuele I in visita al Pilone dal quale ebbe origine il Santuario aveva affermato “questa terra è santa, deponiamo i vecchi calzari”. Chiese però l'impegno a “mantenere il profilo strettamente privato” della tumulazione, da attuare “nella forma più discreta, con la collaborazione dei Responsabili del Santuario”. Avvalorò l'iniziativa alla luce della parola del salmo 39,13: “Siamo tuoi ospiti, pellegrinanti, come tutti i padri nostri”. Così andava fatto. E così venne fatto. Quattro anni dopo, a coronamento di lunghi preliminari sorti da fortunate convergenze, il 10 maggio 2017 il principe Vittorio Emanuele di Savoia e la principessa Maria Gabriella a nome delle sorelle Maria Pia e Maria Beatrice scrissero al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, auspicando che il Centenario della conclusione della Grande Guerra offrisse motivo per congiungere le salme del “Re Soldato” e della sua Consorte “in Italia”, senza alcuna indicazione di luogo. Previ numerosi incontri con il Rettore e il presidente della Consulta, l'architetto Bertano approntò il progetto in fitto dialogo con la Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per le Province di Alessandria, Asti e Cuneo. Venne avviato l'intervento nella Cappella di San Bernardo per “la realizzazione di monumenti/arche funerarie in marmo” in cui deporre “i resti di due persone meritevoli di speciali onoranze”, non nominativamente specificate. Il 6 novembre il vescovo e il rettore inoltrarono alla Soprintendenza il progetto, che fu approvato. Con rapidità e assoluta riservatezza vennero espletate le complesse procedure previste dalla deliberazione della Giunta Regionale del Piemonte 8 maggio 2012, n. 27-3831 per il rilascio di “autorizzazioni concernenti l'individuazione di siti idonei a tumulazione in località differenti dal cimitero ex art. 105 D.P.R. 10 ottobre 1990, n. 285 e art. 12 L.R. n. 2020/2007”. Acquisiti ope legis tutti i documenti richiesti, ebbero corso estumulazione, traslazione e ritumulazione. Il 17 dicembre, al termine della sepoltura di Vittorio Emanuele III, il conte Radicati precisò che tutto era avvenuto “nelle forme proprie di una cerimonia privata”, “di Famiglia”. 

Alcune incomprensioni 

Alle 21 del 15 dicembre 2017 Vittorio Emanuele di Savoia emanò una “nota” sulla tumulazione della salma della Regina Elena “presso il Santuario di Vicoforte”. Deplorò che fosse avvenuta “in totale anonimato” e rivendicò il Pantheon per “il riposo dei sovrani sepolti in esilio”. Con encomiabile tempestività il 18 con i familiari e ampio seguito egli rese omaggio alle tombe a Vicoforte. Ribadita la richiesta di immediato trasferimento delle salme al Pantheon, lamentò che la traslazione fosse avvenuta “in forma occulta”. In un quotidiano di Roma venne persino insinuato un oscuro baratto tra intervento del Capo dello Stato e consegna alla Presidenza della repubblica di misteriose quanto inesistenti “carte” sull’esito del referendum del 2-3 giugno 1946. Fandonie. La traslazione suscitò un ventaglio dichiarazioni polemiche contro la figura di Vittorio Emanuele III, colpevole dei tre “colpi di Stato” secondo lo “storico” Luigi Salvatorelli, a volte indulgente a polemiche inconsistenti. Secondo lui il Re era responsabile dell'intervento dell'Italia nella Grande Guerra il 24 maggio 1915; della mancata proclamazione dello stato d'assedio e dell'incarico a Mussolini di formare il governo (28-31 ottobre 1922); della revoca di Mussolini (25 luglio 1943, quasi sia un demerito), nonché, in aggiunta, della mancata difesa di Roma e del suo abbandono alla proclamazione dell'armistizio il 9 settembre (la cosiddetta “fuga a Brindisi”). Altri aggiunsero la firma delle leggi razziali nel 1938 e le sue conseguenze di lungo periodo nel 1943-1945, particolarmente gravi nelle regioni governate dalla Repubblica sociale italiana e di fatto occupate dai tedeschi (al di fuori, dunque, da ogni responsabilità diretta del Re e del governo Badoglio). I promotori della traslazione avevano messo in conto la delusione dell'Istituto nazionale per la Guardia d'onore alle Reali Tombe del Pantheon (agevolmente componibile con l'adozione, in forma discreta da convenire con le autorità competenti a consentirla, della “guardia” anche alle tombe di Vicoforte) e l'irritazione di chi indica nel Re (anziché, come è, nel Parlamento) il “responsabile” delle leggi razziali. Qualcuno ritenne uno sgarbo non essere stato previamente informato. Non tutti capirono che era un funerale “della Famiglia”, non “della Casa”, e che pertanto esigeva il necessario riserbo, sia per rispetto della precisa richiesta del vescovo di Mondovì, sia per scongiurare inopportuni schiamazzi di guitti dell'ultim'ora e, peggio, manifestazioni ostili, che avrebbero turbato la solennità dell'evento: il ritorno dei Reali nella loro terra, sotto la cupola ellittica più grande del mondo. Sin dal 16 dicembre altri sedicenti “monarchici” protestarono che “tutti i Reali d'Italia” dovevano “quanto prima trovare sepoltura nell'unica sede ad essi deputata: la Basilica del Pantheon”. La complessa e impegnativa sepoltura nel Santuario di Vicoforte (da taluno sminuito a “chiesetta di campagna”) doveva dunque essere considerata del tutto effimera e sanata con altra immediata traslazione. Parlare è facile. Altra cosa è fare. Tra le tante professioni di indignazione (“istituti storici”, parlamentari, circoli e associazioni varie) il sindaco di una città di qualche peso nella “Granda” dichiarò che non sarebbe mai andato a pregare in un santuario contaminato dalla salma di quel re. La preghiera chiede forse un “luogo” che non sia l'“anima”? A cospetto di tante dichiarazioni polemiche il presidente della Repubblica e quello del Consiglio dei ministri, Paolo Gentiloni, motivarono il concorso alla traslazione come “gesto umanitario”. Riecheggiò quanto proposto dal vescovo di Mondovì: la “carità” nei confronti di “due persone meritevoli di speciali onoranze”, provate dal lutto (la morte della figlia Mafalda d'Assia in campo di concentramento in Germania; la detenzione da parte nazista della figlia minore, Maria) al pari di tanti italiani, “pellegrinanti, come tutti i padri nostri”. Per prevenire gesti inconsulti, il prefetto di Cuneo dispose che la cancellata della Cappella di San Bernardo rimanesse chiusa sino a quando le tombe fossero tutelate, come sono, da videosorveglianza e sistema di allarme. Dal 28 dicembre 2017, 70° della morte di Vittorio Emanuele III, esse furono meta di un numero crescente di “boni viri” d'ogni Paese che si raccolgono in meditazione su monumenti evocativi della Storia e, senza bisogno di essere cortigiani, ripetono con Giacomo Leopardi: “la vostra tomba è un'ara”. Settantacinque anni dopo la discussa vittoria della Repubblica al referendum sulla forma dello Stato (2-3 giugno 1946), al di là di dispute irrilevanti e di incomprensibili silenzi, la Traslazione delle reali salme a Vicoforte può forse propiziare la rivisitazione storiografica del lungo travagliato regno di Vittorio Emanuele III e nuove risposte ai molti interrogativi ancora aperti sull’ultimo mezzo secolo della monarchia in Italia.

martedì 7 dicembre 2021

LA TELENOVELA CHIAMATA “CORSA AL QUIRINALE”

Ogni 7 anni, in Italia va in onda la telenovela chiamata “corsa al Quirinale”Stampa, tivù, classe politica impegnano tempo ed energie su questo argomento trascurando in parte argomenti che a noi italiani interessano veramente: crisi economica (che il Covid ha accentuato), aumenti di luce, gas, generi alimentari, disoccupazione sempre elevata, inflazione in aumento. 

Beate le Nazioni che hanno un sovrano come capo dello Stato! Non devono perdere tutto questo tempo ed hanno al vertice dello Stato una persona preparata fin da bambino per questo incarico. Infatti i Re hanno molte meno probabilità di sbagliare rispetto ai presidenti di repubblica. E (altra cosa da non trascurare) costano molto meno dei presidenti! In Italia si tira fuori la solita lagna della monarchia sabauda “filofascista”. Ed è un falso storico smentito dai diari del Conte Galeazzo Cianogenero di Benito Mussolini, che raccontava di un duce ai ferri corti col Re Vittorio Emanuele III

E poi nel Ventennio la stragrande maggioranza degli italiani apprezzò o non disprezzò il fascismo. Ed il Re non c’entrava nulla. Molti futuri padri di questa repubblica furono convinti fascisti. E non pochi di loro, anche antisemiti. Tra questi ultimi, si annovera Amintore Fanfani. Uno dei 75 che scrissero l’attuale Costituzione antifascista.

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http://www.opinione.it











sabato 4 dicembre 2021

Vent'anni dalla morte della Principessa Maria

 di Emilio Del Bel Belluz 


Il 4 dicembre 2021saranno trascorsi vent'anni dalla morte di Maria Francesca Anna Romana, figlia di Vittorio Emanuele III e della sua consorte Elena, avvenuta in Francia, a Mandelieu. 

Fu l'ultimogenita, la più coccolata e la più amata dei figli. Era nata nell'anno in cui il destino dell'Europa fu determinato dall'attentato fatto da Gavirlo Princic' il 28 giugno del 1914 che fece scoppiare la guerra. Nacque il 26 dicembre 1914, a Roma: il giorno dopo il Santo Natale e credo che per questo le fosse stato dato il nome di Maria, come la mamma di Gesù. 
Chiamarsi come la Mamma del Salvatore era davvero importante. Maria di Savoia lo avrebbe ricordato per sempre. Il Re Vittorio Emanuele III si allontanò da Roma per quasi 41 mesi per stare vicino al fronte, e la buona Elena si occupava dei feriti in guerra. La vita della principessa trascorse, comunque, serena assieme ai suoi fratellini che erano più vecchi di lei. 
Era la preferita dell'allora principe Umberto, che aveva dieci anni più di lei. Nelle foto della famiglia reale la si nota subito, essendo la più piccina con quegli occhi così belli che guardavano al futuro. 
Studiò con profitto, aveva una grande passione per il calcio e lanciò la moda del taglio dei capelli a carré. Presenziava assieme al padre quando a Palazzo Reale venivano ricevute delle scolaresche. Fu madrina di varie fondazioni ed istituzioni e Dama di gran croce onoraria, del Sacro Militare Ordine di Malta. 

Nel 1938 si fidanzò, a ventiquattro anni, con il principe Luigi di Borbone - Parma, appartenente alla famiglia che al principio del secolo regnò a Lucca e quindi a Parma, dove nel 1700 succedette ai Farnese. 
Altra data importante il giorno del suo matrimonio avvenuto nel 1939, il 23 gennaio, l'anno in cui la guerra stava iniziando, e che culminò pochi mesi dopo con l'invasione della Polonia, da parte di Hitler e Stalin. Il matrimonio si celebrò nella cappella Paolina al Quirinale, la sposa indossava uno stupendo abito bianco e dava il braccio al padre Re Vittorio Emanuele III. 
Alla cerimonia parteciparono numerose teste coronate, come il Re e la Regina di Spagna, il Re e la Regina di Bulgaria e l'ex zar di Bulgaria, Ferdinando. Tra gli invitati illustri figurava anche Benito Mussolini. Dall'unione matrimoniale nacquero tre figli: due maschi Guy e Remy, e una bimba Chantal. 
La sua vita non fu facile, sempre percorsa dalla guerra come se fosse segnata da un destino crudele. Dopo l'8 settembre del '43, fu imprigionata assieme ai suoi bambini dai tedeschi, come la sorella Mafalda, in un campo di concentramento vicino a Berlino. Sopravvisse alla prigionia e fece ritorno in Italia nel '45, che abbandonò dopo il referendum istituzionale e la dipartita del fratello Umberto II. Andò a vivere sulla Costa Azzurra e rimase amorevolmente vicina alla madre fino al suo ultimo abbraccio del 28 novembre 1952. 
Le sopravvisse 49 anni, rappresentando Casa Savoia e i suoi valori fino all'ultimo giorno. Sono passati vent'anni dalla sua morte, e mi auguro che qualche giornale ricordi la sua figura. 
La principessa Maria di Savoia lo meriterebbe. Mi sarebbe piaciuto posare sulla sua tomba un fiore e questa frase tratta dal diario di Charles de Foucauld: "Niente ti turbi/ Niente ti spaventi. /Tutto passa. /Dio non cambia. /La pazienza ottiene tutto./Quando si ha Dio, non manca niente. /Dio solo basta. /"Quel Dio che conosce il cuore di chi ha sofferto e lo tiene vicino al suo.

domenica 28 novembre 2021

La Regina dal cuore gentile

 di Emilio Del Bel Belluz 



Il 28 novembre 1952 moriva in terra d’esilio, a Montpellier, Elena di Savoia, seconda Regina d’Italia, consorte di Re Vittorio Emanuele III e madre di Umberto II, Re d’Italia. Quando si pensa alla Regina Elena viene in mente la figura della madre che si prodigò senza risparmiarsi verso tutti gli italiani e tutto quello che aveva lo dava ai poveri. Basti pensare che nel periodo della Grande Guerra trasformò le sontuose stanze del Palazzo del Quirinale in ospedale militare si mise a curare i feriti, vegliare i  moribondi e lavare i cadaveri.  
Il primo ferito ospitato nell’ospedale della Reggia era un militare bergamasco che venne ricoverato in gravi condizioni, la mattina del 3 agosto del 1915. La Regina si prese cura di quel poveretto come una madre. Lo vegliò giorno e notte, gli teneva la mano, gli asciugava il sudore della  fronte mentre pregava per lui e piangeva in silenzio per non disturbare le sue ultime ore di agonia. Quando morì, fu lei a chiedergli gli occhi, con lo stesso cuore che avrebbe fatto una madre. 
Per la  Sua bontà ineguagliabile  e per la sua abnegazione nei confronti delle persone più sfortunate, Le fu concessa da papa Pio XII, - La Rosa d’oro della Cristianità - e fu nominata “Venerabile”. 
Nel periodo in cui si trovava in esilio, dopo la morte del marito, continuò ad aiutare i poveri attingendo dalle sue sostanze in modo totale, da essere richiamata dal suo amministratore che le fece presente che la sua situazione economica stava diventando difficile. 
Una sentenza antica diceva: “Genitoribus atque magistris, nunquam satis. “ Ai genitori e ai maestri non si rende mai abbastanza”. La Regina Elena si comportò non solo come una madre ma fu un lucido esempio di buona cristiana che aveva donato la sua esistenza al prossimo. Alla sua morte il Papa Pio XII inviò al figlio, S. M. Umberto di Savoia, il seguente telegramma: “Al lutto che ferisce in  Vostra Maestà il cuore di figlio, alla fede che ne consola il dolore uniamo le nostre suppliche alla Divina Misericordia per la eletta defunta Regina Signora della carità benefica ed inviamo per la Maestà Vostra e la Sua Augusta Famiglia la nostra Apostolica Benedizione”. 
Mi auguro che Papa Francesco possa riconoscere il grande percorso umano della Venerabile Regina Elena e il suo ruolo di Madre di tutti gli italiani e possa innalzarla agli onori degli altari.

sabato 27 novembre 2021

Piccola rassegna stampa sui gioielli della Corona depositati alla Banca d'Italia



1899. Il Re a Sassari e la prima sfilata di costumi sardi: così nacque la Cavalcata

 Lo spettacolo clamoroso offerto a Umberto e Margherita in visita nell'isola. Per la Regina è «l'evento più bello e più gradito che mi abbia potuto offrire la Sardegna»

 

ARTICOLO PUBBLICATO IL 21 APRILE 1899

26 NOVEMBRE 2021


Alle 4, di ritorno dal Tedeum, nel Duomo, i Reali vanno al giardino pubblico dove deve sfilare la cavalcata in costumi sardi. 

Gli ampii viali del giardino pubblico sono già affollati, carabinieri e guardie durano fatica a contenere la folla perché resti libero il percorso della cavalcata. 

Anche le adiacenze, specialmente l'emiciclo Garibaldi e la via Carlo Alberto, sono affollati.

Nel giardino pubblico sono due bande, quelle della Scuola di musica e della Società S. Cecilia. Alle 4 precise la fanfara Reale annunzia l'arrivo dei reali con Pelloux, Lacava, la marchesa Villamarina, la marchesa Trotti, il gen. Ponzio Vaglia e tutto il seguito. Sono ricevuti sul palco dal sindaco Mariotti e dal conte d'Ittiri, presidente del comitato dei festeggiamenti.

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I monarchici scendono in campo per il "Made in Italy". "A Natale fate shopping patriottico"


Shopping natalizio Mady in Italia. E’ la campagna lanciata dall’Unione Monarchica Italiana col motto “Compra italiano, sostieni le aziende, sostieni il popolo, sostieni la Patria”. In sostanza, un esplicito invito agli italiani affinché prediligano gli acquisti sotto casa piuttosto che le grandi piattaforme on line.

“Partiamo dal presupposto che in Italia qualsiasi tipo di produzione è una eccellenza - afferma Michele Pivetti, ideatore della campagna e vice presidente dell’UMI -. Oggi le grandi aziende di e-commerce stanno drogando il mercato con prezzi sempre più insostenibili per le piccole realtà locali e per le piccole e medie imprese che dal gettito finanziario del periodo natalizio ricavano grande parte dei loro fatturati”.


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www.iltempo.it













lunedì 22 novembre 2021

VITA DI RE VITTORIO EMANUELE III A RACCONIGI


Racconigi, un Paese di sogno

“Qui a Racconigi mi trovo benissimo. Più vedo questo paese e più mi piace; siamo in mezzo al verde più completo e non lontani dalle colline, e le Alpi si vedono lontane ma non molto. Vado riconoscendo i dintorni a cavallo e in vettura; aspetto quanto prima un'automobile per estendere ancora più le mie gite. La Città di Racconigi è piccola, e lontana abbastanza dalle grandi città. La casa mia è abbastanza grande, vi è un magnifico giardino a Parco di 184 ettari con laghi, canali; e piante ve ne sono di ben 150 qualità e molte altre qualità ne farò mettere. Le proprietà mie intorno a Racconigi sommano a 1300 ettari circa, e sono molto frazionate; poco alla volta me ne rendo conto; ho il mio tavolino pieno di mappe, rilievi ecc.; tutti i giorni giro mattina e sera per conoscere il mio; è tenuto con ben poca cura; ma spero di rimettere ogni cosa a posto in un tempo relativamente breve; delle proprietà private nostre nessuno si era seriamente occupato dopo Carlo Alberto, mentre sono veramente meritevoli di cura, come le sole delle quali posso liberamente disporre. Qui, nei sulè mort (cioè i sottotetti NdA) ho trovato molti interessanti ritratti dei P(rinci)pi e delle P(rincipe)sse di Carignano, e un bel ritratto del tempo della Duchessa Iolanda, moglie di Amedeo IX. Questi ritratti sono subito stati messi in posti di onore”.

   Così il 25 luglio 1901 Vittorio Emanuele III descrisse al generale Egidio Osio, già suo “Governatore”, il primo importante “impatto” con la sua “casa” a  Racconigi, ove era da poco giunto con la Regina Elena e la primogenita, Jolanda, per un soggiorno estivo. Gli dette appuntamento a Roma per il 29, anniversario dell'assassinio di suo padre, Umberto I, e aggiunse: “spero di poter rientrare qui il 31”.

  A Racconigi il trentaduenne re d'Italia era già stato almeno due volte. La prima il 28 agosto 1893 con il ministro della Real Casa Urbano Rattazzi jr, il generale Emilio Ponzio Vaglia e piccolo seguito. L'aiutante di campo Paolo Paulucci delle Roncole (un po' pettegolo) annotò nel Diario che il Castello era l'unica proprietà privata del sovrano con la Palazzina di Caccia di Stupinigi.  Vittorio Emanuele vi tornò “in gita” il 31 ottobre 1898, quando fece una corsa da Torino, in un mese fitto di viaggi da La Spezia a Monza, Torino e ancora Monza, Napoli e Roma (per la “Commissione di avanzamento” dei gradi nell'Esercito) per rifugiarsi infine a Montecristo, lontano dalla capitale.

 

Ubi Rex...

Per le vacanze estive dal 1901 alla vigilia della Grande Guerra Vittorio Emanuele III scelse il Castello di Racconigi a preferenza di altre residenze reali, come Castelporziano, San Rossore e, s'intende, la Villa di Monza, che “chiuse” all'indomani del regicidio.

  Ubi Rex ibi Potestas con tutti i suoi “tentacoli”, la Casa Militare, la Casa Civile e l'esercizio di prerogative e funzioni. Per alcuni mesi l'anno Racconigi divenne la Reggia. Vittorio Emanuele III vi ricevette missioni di Stati anche remoti (Siam, Giappone, Persia, Abissinia...), presidenti del Consiglio, ministri, notabili, artisti e scienziati.

   Nel 1909 il Castello fu scenario della visita in Italia dello zar Nicola II Romanov, da anni programmata ma rinviata per gravi motivi: la guerra russo-giapponese, la prima rivoluzione in Russia, la crisi del 1908. Arrivato per mare a Marsiglia e proseguito in treno, lo “csar” (come all'epoca si scriveva) arrivò in Italia da Modane-Bardonecchia. Vestiva “militare” come Vittorio Emanuele III, che lo accolse alla modesta stazione di Racconigi il 23 ottobre 1909 e lo condusse in carrozza al Castello, in tempo per la prima conviviale. Venne lasciata su altra carrozza la statuaria guardia del corpo, due metri di stazza, mantello rosso sino ai piedi. L'incontro di Racconigi suggellò la lunga svolta della politica estera voluta dal re d'Italia, che, senza rompere l'alleanza difensiva con Berlino e Vienna, dal 1901 aveva avviato relazioni nuove con Parigi e ribadita l'amicizia con la Gran Bretagna, meta del suo viaggio di Stato nel 1903.

   Nei nove anni da quando l'aveva scelto per le vacanze, il Castello era migliorato molto ma non aveva i fasti del Quirinale, del Palazzo Reale di Torino e di altre splendide residenze “di Stato”. Però offriva il pregio più importante: la sicurezza, garantita dal presidente del Consiglio e ministro dell'Interno, Giovanni Giolitti, che stese all'intorno una cortina di vigilanza, tanto discreta quanto impenetrabile. Il nonno dello zar, Alessandro II, era stato assassinato dinnanzi agli occhi del figlio, Alessandro III, da una nobildonna anarchica. Il padre di re Vittorio fu ucciso da Gaetano Bresci. Negli stessi anni vennero ammazzati il re del Portogallo, presidenti di Francia e Stati Uniti, primi ministri in Spagna e altrove…: tutti fautori di riforme. Che strano. Stessa sorte toccò a Sarajevo il 28 giugno 1914 a Francesco Ferdinando d'Asburgo che voleva ammodernare il vetusto impero d'Austria-Ungheria.

   Per ricevere degnamente Nicola II il re arredò il Castello. La regina Elena conosceva bene la sontuosità dei palazzi imperiali della Terza Roma a Mosca e a San Pietroburgo. L'Italia non poteva sfigurare. I giornali annotarono tutto: “Continuano a giungere, inviati da Torino e da Roma, carri e furgoni carichi di mobili e di oggetti d'ornamento. Mentre uno stuolo di operai, agli ordini dei giardinieri più esperti s'adopera con tutta lena a spianare i viali del Parco, a cospargerli di finissima ghiaia, a rimuovere aiuole ed a creare artistici parterre di fiori, numerosi falegnami, tappezzieri ed elettricisti si avvicendano in un febbrile lavoro di arredamento, o meglio di rinnovamento delle sale. Una ditta di Torino ha inviato qui i suoi migliori e più abili operai, per surrogare tutte le tappezzerie, tutti i tappeti, tutte le tende. È una profusione spaventosa di mobili ricchissimi, di statue, di candelabri, di piante ornamentali, di lampadine elettriche. Gli appartamenti del primo e del secondo piano saranno tra due o tre giorni completamente trasformati. Questo addobbamento speciale non è però destinato a rimanere ma è soltanto provvisorio”. Chiacchiere, forse anche per depistare.

  La visita rimase impressa nella memoria di Umberto, all'epoca principe di Piemonte, nato nel Castello il 15 settembre 1904. In un’intervista rilasciatagli a Cascais il 4 novembre 1979 Lucio Lami ne pubblicò i ricordi: “Rivedo poi, proprio come in una sequenza cinematografica, la visita a Racconigi dello zar. Soprattutto la vigilia del suo arrivo, perché passai ore a guardare un reparto di bersaglieri che provavamo la sfilata nel viale davanti al Castello, quel bel viale con le piante di aranci. Ero anche affascinato da un grande rullo compressore che andava su e giù sul piazzale, livellandolo a dovere. Dello Zar ricordo perfettamente le mani inanellate; potrei riconoscerlo ancor oggi dalle mani. Poi la sua giubba rossa e la sua voce. Parlava francese, con noi, ma appena poteva preferiva l'inglese. Dal suo paese aveva portato per noi ragazzi un giocattolo gigantesco, un intero villaggio russo riprodotto in legno in dimensioni ridotte; relativamente ridotte, visto che le costruzioni erano alte quasi mezzo metro. C'erano la chiesa, la casa del pope, le isbe, i recinti. Tutto era contenuto in una grande quantità di casse che furono portate in uno dei saloni del Castello, dove vennero aperte alla presenza di tutti. Alcuni di quegli altissimi cosacchi che l'Imperatore s'era portato appresso si misero all'opera per montarlo. Ricordo che lo Zar ci disse: Vi ho portato questo dono perché impariate a conoscere la Russia e sperando che un giorno verrete a visitarla”.

   Mentre i ministri degli Esteri dei due Stati mettevano a punto il Trattato che il 24 ottobre riposizionò l'Italia nel quadro delle Grandi Potenze, poiché la mattina era nebbiosa il re sostituì la partita di caccia con una corsa in auto a Pollenzo  passando da Carmagnola, Sommariva Bosco e Bra per far vedere allo zar il Castello, la vasta tenuta e le rovine romane, l'anfiteatro e i ruderi di un tempio. Nel ritorno a una delle due auto scoppiò uno pneumatico e i suoi occupanti fecero tardare il pranzo “di Stato”.

 

Il Re, la Regina, la nazione nascente

   Il Castello fu anche luogo d'incontro tra i reali, la popolazione e visitatori di tutte le classi sociali. Una volta la Regina Elena accolse a colazione una moltitudine di donne e di ragazze “interessandosi specialmente di quelle più umili e modeste, o meno fisicamente favorite dalla fortuna. A tutte faceva coraggio, le invitava a mangiare ed a portar via senza soggezione quanto avanzavano dalla lauta refezione. – Portate pure a casa – diceva; questa sera avete poi già da far a merenda e la cena”.

  A Racconigi Vittorio Emanuele III alternò vita “pubblica” e “privatissima”. Annotò: “Domenica la Regina ed io abbiamo celebrato il V° anniversario del nostro fidanzamento con una bella passeggiata di 360 km per Cuneo, Tenda, et Breglio. Siamo andati a Ventimiglia, poi lungo la riviera sino ad Oneglia, poi per Pieve del Teco abbiamo passato il colle di Nava e per Garessio, Ceva, Dogliani, Cherasco, et Brà, siamo tornati a casa; in 13 ore di gita”. 

   Lungo il giorno il Re si occupava a lungo delle “questioni di Stato”, chiudendosi nel suo gabinetto col generale Ugo Brusati, primo aiutante di campo, e con altri segretari particolari, sbrigando la corrispondenza. Aprivano i grossi pacchi di carte, specie del ministero dell'Interno, che anche due volte al giorno gli venivano recapitati da Roma.

   Quando poteva, viaggiava in incognito. Un giorno partì dal Castello alle 4 del mattino. Vestito in borghese con cappellino di paglia e accompagnato dal generale Brusati si recò in phaeton guidato da lui stesso e scortato da alcune guardie cicliste a visitare la Tenuta di Pollenzo per esaminarvi di persona le migliorie. All'andata percorse la strada verso Bra sbucando presso il Santuario della Madonna dei Fiori e transitò per Bra verso le 6. Alle 9 rientrò procedendo per strade di campagna, dalla Pedaggera alla salita del gerbido, girando così intorno a Bra. Tornò a Racconigi per Cavallermaggiore, deludendo le aspettative dei braidesi che, ormai avvertiti, lo attendevano nelle vie Vittorio Emanuele e del Santuario.

   La mattina del 25 agosto, una domenica, per desiderio della Regina si tenne nel parco una festa per i fanciulli delle scuole della Città e dei dintorni. Verso le 9, narrano le cronache, gli alunni e le alunne (più di settecento) con i rispettivi maestri e maestre accedevano all'interno del Parco Reale dalla porta cosiddetta Torre Cinile, preceduti dalla banda della Società Operaia Umberto I, che, non appena scorti i sovrani, i quali, per meglio vedere, si erano affacciati da un ripiano dello Scalone, ha cominciato a intonare la Fanfara Reale, mentre i bambini procedendo in fila gettavano mazzetti di fiori, omaggio visibilmente gradito alla Regina. Al termine della sfilata tutti il direttore didattico, cavaliere colonnello Luciano, pronunciò un discorso patriottico. La Regina si intrattenne   affabilmente con i bambini degli asili e con le fanciulle. Il re, in bassa tenuta di generale, fece altrettanto con gli alunni delle scuole elementari. La regina vestiva satin gris perle con largo cappello. Ottenuto il permesso di prendere d'assalto le due lunghe tavole, cominciò la vera festa mentre la banda eseguiva un programma scelto. Un bambino lamentò con un “anziano” di non aver ancora bevuto nulla; l'“anziano” provvide. Era Vittorio Emanuele III. Alle 11 iniziò a piovere e ognuno tornò “a casa”.

 

  Il Castello era anche la “base” per salire nelle valli, in specie sopra Sant'Anna di Valdieri o a San Giacomo d'Entraque, per pesca e caccia al camoscio. Ne hanno scritto Walter Cesana in “I Savoia in Valle Gesso” e Alessandro e Simone P. Milan in “Residenze Reali di Casa Savoia nel Distretto di Caccia di Valdieri in Valle Gesso (1864-1943), libri “di nicchia”.

   Il 28 agosto 1901 i sovrani andarono in automobile a Moretta per visitare il caseificio dei fratelli Barberi. Ne accenna “Moretta. 120 anni di industria agroalimentare” curato da Antonio Battisti, Maria Cristina Moine, Mario Piovano e Domenico Podio per l'UniTre di Moretta (settembre 2021). Lì avveniva la trasformazione della maggior parte del latte del circondario di Saluzzo: “Verso le 9 (venne narrato) l'automobile reale si fermava nell'ampio cortile del fabbricato tra la sorpresa degli operai presenti; discesone il re ha subito pregato il proprietario, Attilio Barberi, venuto ad accoglierlo con alcuni collaboratori, di non interrompere i lavori e gli ha raccomandato il silenzio sulla sua venuta. All'interno gli augusti visitatori si sono molto meravigliati delle potenzialità del macchinario, della modernità dei sistemi di lavorazione, della finezza dei meccanismi delle scrematrici, su cui scorrevano continuamente fiumi di latte, e della coagulazione del latte col caglio. Poscia i reali si sono recati a visitare le stalle annesse al caseificio, dove sono allevati migliaia di suini di tutte le razze. Terminata la visita il re si è congedato e si è congratulato vivamente coi fratelli Barberi. Dopodiché la reale comitiva si è diretta nuovamente verso Racconigi dove giungeva dopo le 10, ora in cui, a causa della fiera nelle strade dove è passato l'automobile reale, cioè via Regina Margherita, Piazza Carlo Alberto e via Umberto I, la molta gente venuta da fuori ha salutato vivamente i sovrani visti per la prima volta. All'ingresso ovest del parco reale detto Porta del Cinile le Loro Maestà e i principi sono scesi dall'automobile e si sono recati facendo pochi passi al grande setificio dirimpetto, detto Potagero, di cui è proprietario il cavalier Sacerdote, ivi accolti dal direttore Giordano, anche se quasi subito è arrivato anche il cav. Sacerdote prontamente avvertito della presenza degli augusti visitatori, ai quali dopo averli ossequiati ha dato loro le più minute spiegazioni. Purtroppo essendo la trattura della seta nella filanda ferma i reali si sono dovuti accontentare di vedere in funzione la sola lavorazione nel filatoio che hanno esaminato attentamente dal “baratrone” all'“incannatoio”. Al termine del sopralluogo, gli operai e le operaie stupefatti della visita inattesa prorompevano in una spontanea ed entusiastica acclamazione ai sovrani i quali a loro volta hanno salutato operai e proprietario mostrandosi vivamente soddisfatti”.

  Una decina di giorni dopo, la domenica 8 settembre, i reali andarono in treno a Saluzzo per assistere allo scoprimento del busto in bronzo di Umberto I (oggi nascosto in un “deposito”, come quelli di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II), opera dello scultore Leonardo Bistolfi, massone, molto apprezzato da Vittorio Emanuele III. Era il coronamento delle feste per il terzo centenario dell'annessione dell'antico Marchesato di Saluzzo ai domini di Casa Savoia. Poi visitarono la Cattedrale, ricevuti dal vescovo monsignor Mattia Vicario, dal capitolo e dal clero e il grandioso “Ospedale” Tapparelli d'Azeglio.

   Erano anni operosi, di progresso e di coesione civile nell'Europa della “Belle Epoque”. Il “sistema” istituzionale, però, era e rimase un triangolo scaleno mentre cresceva la tensione militare tra gli Stati. Anziché appagati dall'espansione coloniale accelerata dal 1880 le maggiori potenze vennero travolte da un'onda di ritorno che si ripercosse sui confini più fatiscenti, a cominciare dall'impero turco, e nei Balcani sino a innescare la Grande Guerra. Tornarono a soffiare inarrestabili venti di guerra. Anche l'Italia intervenne. A fine maggio del 1915 da Roma il “re soldato” si trasferì a Martignacco, presso Udine, in zona di operazioni. Poco a poco Racconigi perse il rango di “capitale estiva” del Regno d'Italia.

   Nei quarantasei anni di trono Vittorio Emanuele III visse per l'Italia, uno Stato che da appena trent'anni aveva Roma capitale quando egli ereditò la Corona, un Paese che nel suo mezzo secolo di regno ebbe alleati, ma nessun vero amico.

domenica 21 novembre 2021

Capitolo XLI: L’otto settembre 1943, l’Italia divisa.

 di Emilio Del Bel Belluz


 Il 25 luglio 1943 venne arrestato Benito Mussolini, una data che non potrà mai essere dimenticata, specialmente da quelli che lo avevano conosciuto. Carnera apprese la notizia dalla radio, e pensò al momento in cui lo aveva incontrato e alle  parole che Mussolini gli aveva detto quando lo ricevette  a Palazzo Venezia dopo l’incontro vittorioso sostenuto contro Paulino Uzcudm. Lo consolò per i fischi di qualche tifoso, perché  avrebbe voluto che Carnera battesse lo spagnolo per Ko e non ai punti. Mussolini gli disse: “ Primo non devi scoraggiarti se il pubblico pretende di più di quanto dovrebbe. Ma, oltre ad essere duro, il pubblico è anche volubile. Cambia opinione sovente, e non è da escludere che se oggi ti fischiano, domani ti applaudiranno”.  
La gente oggi ti ama e l’indomani non ti conosce più. Capita  che nel momento del bisogno le persone facciano finta di non conoscerti. Passano da una parte all’altra della barricata, come se fosse solo un gioco, che Primo non avrebbe mai fatto. Il giorno dell’arresto di Mussolini ne parlò con Pina, e gli dispiaceva che si fosse arrivati a questo. Nessuno conosceva dove Mussolini era stato portato. Lo tenevano nascosto  temendo che qualcuno volesse liberarlo. Pina non disse nulla, aveva molto da fare con i bambini, Carnera non volle continuare a parlare. Quel giorno se ne andò alla trattoria in cui era solito incontrare gli amici. Qualcuno aveva il giornale e stava leggendo a voce alta quello che era successo, Carnera non commentò l’accaduto con gli amici,  non era di buon umore. Si accorse che all’osteria avevano tolto la foto incorniciata di Mussolini, che stava vicino a quella del Re Vittorio Emanuele III e della Regina Elena, una donna che aveva sempre ammirato per la bontà e per il bene che aveva sempre fatto ai poveri. Tutti conoscevano questo lato del suo operato, ma non tutti la ricordavano con affetto. Una Regina che era venuta da lontano, dal piccolo regno del Montenegro. Quel giorno giocò con gli amici a carte e buttò giù qualche bicchiere di buon vino, per alleviare la tristezza che aveva dentro al cuore. Quel giorno di luglio era caldo, l’afa era opprimente, tutto aveva contribuito a infastidirlo. La sera rientrò tardi, Pina aveva già mangiato e i piccoli stavano dormendo placidamente. 
La casa gli sembrò più vuota, però lui non tolse il quadro incorniciato di Mussolini. Lo aveva conosciuto e non gli pareva giusto dimenticare quello che aveva fatto per l’Italia, almeno ci aveva provato a migliorarla e questo non era poco. Le settimane successive lo preoccuparono, perché alcuni impegni di lavoro furono annullati. Carnera lavorò nel suo giardino, aveva deciso in quei giorni di piantare degli alberi, voleva in questo modo ricordare i suoi figli, e per questo volle mettere a dimora due  cedri del Libano. Umberto e Giovanna Maria vedendoli crescere avrebbero potuto avere un punto di riferimento importante: gli alberi hanno una forza che bisogna imitare, ci dicono che nella vita bisogna lottare contro le avversità I cedri del Libano gli erano sempre piaciuti, come amava le querce, ne aveva piantate alcune in un pezzetto di terra che possedeva vicino alla vecchia chiesa. Quei mesi passarono con molte difficoltà. Dal mondo del cinema non lo avevano più chiamato, anche se continuava a sperare di poter recitare in qualche ruolo. Un produttore lo aveva chiamato, mandandogli anche il copione da studiare, ma poi non se ne era fatto nulla. La delusione fu appianata dalla grande forza che aveva accumulato in quegli anni. Non disperò, perché sapeva che la vita donava delle possibilità anche nei momenti che sembravano più duri. La sera  dell’otto settembre del 1943 avevano dato la notizia alla radio dell’armistizio. 
La voce del generale Badoglio doveva essere stata incisa in un disco, perché ascoltandolo gracchiava e diceva: “ Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo della forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze armate anglo-americane deve cessare da parte delle forze armate italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza ”. La guerra però non era finita, il Re e il suo seguito andarono via da Roma. La vita non sarebbe stata più quella di prima. Il 12 settembre con l’operazione “Quercia”, nome in codice, avvenne  la liberazione di  Mussolini dal Gran Sasso ad opera degli uomini di Hitler e , poi, fu fondata la Repubblica Sociale Italiana.  Carnera non era felice che  la guerra continuasse. Anche a Sequals arrivarono i tedeschi assieme ai cosacchi che occuparono il centro del paese. 
Bussarono anche alla casa di Carnera, i tedeschi e quelli della R.S.I. volevano conoscere il campione, farsi fare un autografo o una foto con lui. Ne avevano sentito parlare, e a molti sarebbe piaciuto che si fosse incontrato sul ring con Max Schmeling,  pure lui era stato campione del mondo dei pesi massimi, e  la Germania lo amava. Durante la guerra si era  arruolato con i paracadutisti.  Carnera  era un uomo molto generoso, non si negava a nessuno, aveva sempre la porta spalancata per tutti quelli che lo volevano vedere. Nella sua grande Villa viveva con la moglie, con i suoi due figli, con la mamma, con la cognata Marianna, moglie di Secondo. Il fratello si trovava internato nell’Isola di Man. Allora non era facile vivere, e bisognava in qualche modo adattarsi. Il rapporto che Carnera tenne con i tedeschi fu cordiale, e per loro fece delle esibizioni di boxe in qualche paese, ricevendo in cambio del cibo che non era mai sufficiente. In quel periodo dovette lavorare per i tedeschi, facendo strade, e soffrendo. Quando il pugile Max Schmeling venne a conoscenza che Carnera non se la passava bene s’i impegnò affinché venisse confortato economicamente e per questo lo volle, oltre che aiutare, anche incontrare. Il mondo del cinema si era trasferito da Roma a Venezia, e il tedesco volle che Primo fosse invitato ad un incontro.  
Carnera allora tornò alla ribalta, lo si vide con il puglie tedesco, sorridente che gli stringeva  la mano, e furono fotografati mentre erano in gondola. Lo scopo era quello di far vedere che ci fosse armonia tra i tedeschi e gli italiani. In quei giorni trascorsi a Venezia sotto i riflettori, Carnera gli sembrava d’essere tornato ai bei tempi. La gente lo salutava, lo applaudiva, gli dimostrava cordialità e tutto questo avveniva durante il periodo della Repubblica di Salò.  Primo era lontano dal ring da anni, ma aveva sempre il suo fisico possente, si teneva in forma con degli allenamenti nella palestra che era adiacente alla Villa ed aveva come insegna la scritte:” Mens sana in corporae sana”. In quel periodo difficile insegnava la boxe a  dei giovani, tra cui qualcuno della R.S.I. e qualche soldato tedesco della Wehrmacht, il tutto per raggranellare qualche soldo. La guerra continuava a mietere vittime e in paese, più di qualche famiglia piangeva i suoi cari caduti. Anche la lotta tra partigiani e tedeschi provocava morte e desolazione. Era difficile anche sfamarsi, e a Primo veniva in mente il periodo dell’infanzia, in cui patì la fame e lo costrinse ad emigrare in Francia. La sua casa era meta di persone che venivano a chiedere dei favori. Sapevano che Primo era una persona che contava e generoso com’era, non era capace di rifiutare un aiuto.  Una notte giunse da lui  una madre in pena, perché il figlio era stato fatto prigioniero dai tedeschi. Questa donna era disperata, non faceva altro che piangere, nei suoi occhi si leggeva  la paura dell’uccisione del figlio. Carnera venne a sapere che lo avevano trasferito a Udine e rinchiuso in carcere assieme al medico del paese e che li avrebbero inviati in Germania. L’intervento di Carnera presso le autorità tedesche fu determinante e il giovane Antonio detto “ Toni Musciu “ fu salvato, e riportato in famiglia. Il giovane della classe 1924 aveva solo 19 anni. 
I tedeschi fecero lavorare Primo nell’organizzazione Todt che si occupava della costruzione di strade. Era un lavoro pesante,  ma lui non si lamentava.  Adesso aveva una famiglia da mantenere. Aiutava anche Pina nell’accudire i figli, lei non poteva farcela da sola, avendo anche le incombenze domestiche. In tempo di guerra erano importanti anche i piccoli aiuti che venivano scambiati tra paesani. Primo ospitava anche dei vagabondi che non avevano un tetto sopra la testa. Carnera aveva simpatia per un vecchio che veniva a trovarlo. L’uomo poteva definirsi uno di quelli che portavano le storie di paese in paese. Il cantastorie aveva spesso raccontato la storia di Primo. L’uomo aveva studiato in passato in un collegio, sapeva disegnare molto bene, e raccolse in un libretto una quindicina di disegni a matita che raffiguravano la vita di Carnera. Tutte le volte che lo ospitava gli faceva dono di un nuovo disegno. Il campione era davvero felice nel vederlo, anche se nella sua vita aveva ammirato cose importanti, conosciuto molte persone, nutriva della simpatia per gli uomini che sapevano raccontare degli aneddoti. L’uomo si guadagnava la vita vendendo anche qualche santino della Madonna. Il cantastorie, nella sua semplicità, sapeva trasmettere una certa serenità di cui Carnera in quei tempi ne aveva bisogno. Fu proprio lui a raccontare a Carnera dell’uccisione da parte dei partigiani del grande pugile Bonaglia che era stato campione italiano ed europeo dei pesi mediomassimi. L’uccisione del boxeur era stata una vera e propria esecuzione. 
Gli spararono a bruciapelo, e l’uomo che era denominato lo spaccapietre aveva incontrato nella sua vita anche Max Schmeling a Berlino, e aveva perso per Ko alla prima ripresa. Quel match era stato seguito molto dagli italiani che speravano , invece, in una sua vittoria. Carnera aveva ascoltato le parole del vecchio, e dentro di sé sapeva che Bonaglia era amato da Mussolini ed era morto perché aveva aderito alla RSI. Quella sera l’uomo raccontò a Primo che aveva deciso di smettere con quella vita.  La povertà gli aveva fatto conoscere tante persone gentili, ma non aveva più voglia di lottare, e voleva ritirarsi da una sua parente che era rimasta sola al mondo e gli aveva chiesto d’andare ad abitare da lei. Aveva una casa grande e comoda, non era ricca ma aveva un pezzetto di terra che lavorava prima con il marito, e ora aveva bisogno di qualcuno. Il vecchio volle donare a Carnera quel libretto con i quindici disegni. Era come se avesse deciso di lasciare una parte del suo cuore ad una persona che gli voleva bene. L’indomani l’uomo partì e non lo vide più. Il quaderno lo volle mettere tra i ricordi  che avrebbe rivisto nell’età avanzata. Nei giorni che seguirono Carnera era pensieroso, il cantastorie gli aveva detto di stare attento perché la ritirata dei tedeschi avrebbe favorito le vendette dei partigiani verso i fascisti e i loro collaborazionisti. Carnera  nella sua vita non aveva mai danneggiato e fatto del male ad alcuno, ma non  si sentiva tranquillo. Temeva per il futuro della sua famiglia di cui rappresentava l’unico sostegno. Passarono alcune settimane e i bombardamenti degli aerei  anglo-americani provocarono delle vittime anche a Sequals e nei paesi limitrofi. Carnera aveva una grande fede nella Divina Provvidenza, gliela avevano insegnata sua madre, e la cara maestra. Non ci potevano essere dei momenti, dove la paura e lo sgomento si impossessavano di tutto. 
Ogni evento  lasciava trasparire una sua opportunità. La sua maestra  gli ripeteva spesso la frase:” Dio vede e Dio provvede” ed aveva scritto alla lavagna la citazione di Virgilio: “Labor omnia vincit improbus” e sotto l’aveva tradotta con calligrafia precisa: “ Con uno sforzo sufficiente si può ottenere  qualsiasi risultato”. Queste parole gli erano venute in mente perché aveva ripreso tra le mani un vecchio quaderno delle elementari, e lo aveva mostrato a Pina. La donna si era appassionata a queste parole piene di speranza, e quel giorno erano servite a scacciare la malinconia.  Carnera un giorno stava potando un albero, quando sentì il rumore di un aereo che stava passando proprio sopra la sua casa. Primo pensò subito di mettere in salvo la moglie e i figli, ma proprio in quel momento l’aereo lasciò cadere  una grossa cassa che non si ruppe. Carnera spaventato pensò che fosse una bomba, che sarebbe esplosa da un momento all’altro, invece, dopo aver allontanato i suoi famigliari, si avvicinò alla cassa, aprendola. Al suo interno trovò ogni ben di  Dio, vi erano delle scatolette di carne, di  tonno, della farina, della birra, e tanti altri cibi che da tempo non era abituato a vedere. Anche i famigliari accorsero, la moglie e la mamma gridarono al miracolo, qualcosa di bello e stupendo era successo. Con un carretto caricò la cassa e la portò a fatica in casa e notò che c’erano del latte in polvere, dello zucchero, e  del caffè, sufficiente per offrirne una tazza calda a tutto il paese. Quando ebbe tolto tutto questo ben di Dio si accorse che sul fondo c’era una lettera. Con emozione lesse il suo contenuto:” Caro Primo finalmente ti ho ritrovato.  
Sono il tuo amico Philph La Barba, abbiamo fatto tanta strada dall’ultima volta in cui ci siamo incontrati in America, dove tu sei riuscito a salire in cima al mondo nella categoria dei pesi massimi. Sono sempre stato un tuo ammiratore e questo tu lo sai bene. Il sangue italiano che ti scorre nelle vene è uguale al mio, anche se io ho scelto di rimanere in America. Allo scoppio della seconda guerra mondiale  mi sono arruolato, anche se ho un occhio solo. Per questo mi hanno dato un grosso incarico, sono addetto al vettovagliamento delle truppe americane. Ti assicuro che ho avuto difficoltà nell’individuare il luogo dove vivi. Dal  mio superiore che ti conosce molto bene, avendo assistito ad alcuni tuoi incontri, ho saputo che eri in difficoltà. Allora non ho pensato un solo istante e gli ho chiesto il permesso di mandarti questo primo pacco di cibo, e ti prometto che ne seguiranno degli altri. Il mio comandante  vuole da te una foto con dedica che gliela consegnerai al suo arrivo. All’interno della cassa vi ho messo delle bottiglie di ottimo liquore, bevile alla nostra salute e alla  nostra amicizia. La boxe non è fatta solo di pugni che si danno, ma anche di cameratismo”. Appena finito di leggere la lettera, Carnera ebbe un momento di commozione, si sentiva felice, perché anche dall’America non lo avevano dimenticato. La moglie quella sera per cena aprì delle scatole di carne e brindarono al loro amico.  L’indomani Carnera volle dividere quella cassa con le persone più bisognose del paese, e per questo si recò dal suo amico parroco per comunicargli l’arrivo del pacco di cibo.  Al curato non disse che in quella cassa avevano messo dei liquori, voleva fargli una sorpresa una volta che fosse venuto a  fargli visita. Nelle settimane successive per altre due volte dal cielo piovve quella mamma di Dio, accompagnata dal solito biglietto, che ancora una volta sorprendeva Carnera. Il cibo ricevuto era ancora più abbondante. 
Nella chiesa del paese più di qualche cero era stato acceso da quelli che avevano potuto godere di quei viveri. Intanto, si temeva l’acuirsi degli scontri nell’ultima fase della guerra.  Una mattina presto i tedeschi si ritirarono da Sequals, uno di loro che era amico di Carnera, essendo stato alcune volte in palestra volle salutarlo, sapeva qualche parola d’italiano, e il buon Primo gli augurò di poter fare ritorno nella sua patria sano e salvo. Il militare tedesco aveva una moglie e due figli che sperava non fossero morti nei tanti bombardamenti che c’erano stati. 


La guerra però non era finita, dopo il ritiro dei tedeschi, molti soldati della RSI li seguirono, verso il confine. Temevano d’essere uccisi dai partigiani e non avrebbero in nessuno modo ceduto le armi. Carnera parlava di queste cose alla moglie, mentre dava da mangiare ai figli. Quello che preoccupava molti italiani erano i partigiani, che avevano dato inizio al tremendo periodo delle vendette.