NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 31 agosto 2022

Incontro di Studio al Vittoriano


 INVITO AL VITTORIANO

MUSEO CENTRALE DEL RISORGIMENTO 

Prof. Massimo Fulvio Finucci 

D.ssa Clarissa Emilia Bafaro

Siete invitati a un Nostro Incontro di Studio e di Ricerca

Il percorso museale sarà illustrato in senso cronologico,

evidenziando i momenti fondamentali della Storia dell'Unità d'Italia,

dall'Età Napoleonica alla Grande Guerra,

attraverso reperti e cimeli di natura storico-artistica.

APPUNTAMENTO: DOMENICA 4 SETTEMBRE 2022 ORE 16.

Presso INGRESSO DEL MUSEO, che si trova all'interno

del Vittoriano IN ALTO. La puntualità è cosa gradita.

A necessità è disponibile un ASCENSORE che collega direttamente

con il Museo, ingresso lato Capolinea Atac

(guardando il Vittoriano a destra).

L'ingresso al Museo è GRATUITO,

la durata della visita è di circa 2 ore.

PRENOTAZIONE OBLIGATORIA OFFERTA LIBERA

Telefono 338 4714674

Email terzanavigazionefutura@gmail.com 

domenica 28 agosto 2022

Mafalda di Savoia, vttima innocente dei nazisti


Egr. Direttore,

fra le tante date storiche umanamente significative del calendario italiano, ritengo s’annoveri anche quella del 28 agosto 1944: in quella data, dopo quasi un anno di privazioni e torture fisiche e psicologiche, morì nel campo di concentramento nazista di Buchenwald la Principessa Mafalda di Savoia, Langravia d’Assia, figlia della Regina Elena.

Catturata dai nazisti con l’inganno a Roma il 22 settembre 1943, non curata adeguatamente per giorni dopo essere rimasta ferita in un bombardamento che coinvolse il campo, la Principessa morì, pregando i suoi compagni di sventura di ricordarla come una di loro.

Da sempre nemici di Casa Savoia, i nazisti la seppellirono a Weimar sotto una lapide che recitava “Una donna sconosciuta”, ma fu ritrovata, dopo ricerche impegnative, da cinque marinai di Gaeta e restituita alla memoria del mondo, testimone umile e silenziosa di atrocità che il mondo non avrebbe più dovuto sperimentare.

Dr. Alberto Casirati

Presidente Istituto della Reale Casa di Savoia (fondato nel 2002)



https://www.cancelloedarnonenews.it/mafalda-di-savoia-vittima-innocente-dei-nazisti/

Capitolo XVIII: Il valoroso aviatore

 di Emilio Del Bel Belluz

 

Nelle settimane che seguirono, la pesca si era resa sempre più difficile a causa del gelo.

 Allora decisi con Elena che mi sarei messo a cercare un lavoro per un certo periodo. Un mio amico mi aveva detto che erano alla ricerca di un uomo con esperienza per lavorare in un barcone che percorreva il fiume scaricando e caricando della merce. Il lavoro sarebbe stato piuttosto duro, ma remunerativo e pertanto non volli perdere questa opportunità. Anche se dovevo assentarmi per un po’ di tempo, mi sentivo tranquillo perché in casa, a fare compagnia ad Elena e ai bimbi, sarebbero rimaste Genoveffa e Silvana. La mattina dell’imbarco non c’era molta visibilità, una nebbiolina, alla quale ero abituato, mi faceva compagnia. Il capitano mi venne incontro e mi fece salire. Era un uomo molto robusto dai capelli brizzolati, aveva un cappello militare da capitano. 

Subito volle presentarmi gli altri uomini dell’equipaggio. Era d’abitudine per quelli che salivano a bordo per la prima volta che gli fosse offerto un caffè corretto con dell’ottima grappa che il capitano riservava per le grandi occasioni. Il barcone non era ancora partito e dentro di me sentivo una certa ebbrezza; non ero abituato a bere a digiuno.  Il capitano aveva un accento francese perché, si diceva, che si fosse arruolato nella Legione Straniera. Quello che si aspettava da me era un impegno costante in cui si doveva dare il massimo; il compenso che mi spettava era particolarmente alto. Il capitano ci mostrò le merci che dovevamo scaricare, e poi al ritorno avremmo dovuto imbarcare delle derrate alimentari destinate al mercato generale. 

Il padrone mi diede una pacca sulla spalla e mi volle rassicurare che ci saremmo trovati bene in quei giorni. Faceva questo lavoro da molti anni e non si lamentava della sua vita. Poi mi chiese se fossi stato in grado di navigare con un grande barcone come il suo, soprattutto in quei tragitti dove l’alveo del fiume diventava stretto e tortuoso. Gli risposi che il fiume lo conoscevo molto bene, perché vi ero nato e avevo sempre fatto il pescatore, anche se con alterna fortuna e lo rassicurai dicendogli che avevo ancora navigato con delle chiatte e avevo accumulato una discreta esperienza. 

Il mio primo giorno lavorativo fu duro, ma il notare sul volto del capitano l’approvazione per quello che avevo svolto, mi ripagò di ogni fatica. Verso sera, dopo aver fatto l’ultimo carico, ci fermammo in una piccola darsena, dove poco distante c’era un’osteria. Non conoscevo quel posto. Si trattava di una vecchia casa, abitata un tempo da pescatori, e adattata per diventare un luogo in cui rifocillarsi e ripristinare le proprie energie. Era abbastanza grande ed era gestita da una coppia avanti con gli anni, aiutati, pertanto, da una giovane ragazza. Quando fummo seduti tutti a tavola, l’anziana donna venne al tavolo per prendere le ordinazioni. Ci consigliò lo spezzatino con patate e fagioli che aveva cucinato la mattina, oltre al vino che proveniva dalle loro vigne. 

Quel piatto ci poteva essere servito con molta abbondanza, essendo noi gli ultimi avventori che il fiume aveva portato. In una saletta accanto alla nostra scorgemmo un vecchio che sorseggiava del vino in solitudine: la bottiglia era già mezza vuota. Si seppe che era giunto in quel posto con un piccolo asino che era stato legato fuori vicino alla stalla e che era un vagabondo che si spostava di paese in paese per fare dei lavori, guadagnandosi il suo pane quotidiano. Gli facemmo cenno di unirsi a noi, ci aveva intristito il cuore vederlo da solo e forse a pancia vuota. L’uomo accettò e felicemente ci sorrise. Il cibo venne portato in tavola e anche l’ospite incominciò a mangiare e a raccontarci che parte della sua vita l’aveva vissuta in montagna. Alla morte dei genitori aveva deciso di lasciare i monti, perché era molto malinconico vivere da solo e nei luoghi che gli ricordavano ogni giorno l’assenza dei suoi cari.  

Con la sua nuova occupazione, invece, aveva la possibilità d’incontrare tante persone e di allacciare anche delle vere amicizie. L’uomo dopo aver mangiato si accese la pipa, avvolgendo la stanza in una nuvola di fumo che pareva una nebbia. Aveva ottenuto dai padroni dell’osteria di fermassi per la notte nella stalla; l’indomani sperava di trovare qualche lavoretto adatto alle sue capacità. Si era abituato a vivere con poco.  Prima che se ne andasse gli domandai se mai una donna avesse fatto parte della sua vita e, sorridendo, disse che in gioventù aveva conosciuto una ragazza che stava per sposare, ma poi le cose andarono in maniera diversa. Gli dissi che se passava per il mio paese, Villanova, l’avrei ospitato molto volentieri, assieme al suo fedele asino. Quando se ne andò, il capitano chiamò la padrona, per pagare il conto, e chiederle se potevamo rimanere durante la notte dove era stato attraccato il barcone. 

L’indomani mattina presto saremmo ripartiti. La donna si offrì di preparare la colazione, l’osteria apriva alle cinque e non sarebbe stato un disturbo. Una volta saliti sul barcone ebbi dal capitano la mia coperta. Prima di addormentarmi pensai a Elena e ai miei figli e nel mio cuore speravo che sentissero la mia mancanza. Poi mi addormentati improvvisamente, come uno che era stremato dal duro lavoro della giornata.  L’indomani mattina, lavandomi nell’acqua del fiume, vidi alcuni pesci che guizzavano: il posto doveva essere davvero ottimo per la pesca. Ricordavo che, nella sala dove avevamo mangiato, c’erano alle pareti appese delle foto di alcuni esemplari di storione, verosimilmente, pescati in quel luogo. Oltre alla verdeggiante vegetazione che costeggiava il fiume, notai anche molti alberi da frutto che forse erano nati grazie agli uccellini che avevano trasportato qualche seme. 

Ciò mi faceva pensare alla forza, alla grandezza e alla perfezione della natura, quando non viene brutalmente intaccata dall’opera dell’uomo.  Sulla sponda destra del fiume scorsi una casa diroccata, forse qualcuno un tempo vi era stato felice. Dal camino non usciva più il fumo. Quello che era rimasto era un grande mucchio di mattoni. Pensavo di conoscere il fiume come le mie tasche, invece, avevo trovato degli scorci che mi erano sfuggiti; forse perché la mia attenzione nel passato era tutta rivolta alla barca che non incontrasse degli ostacoli. Era molto facile trovarsi davanti a dei tronchi che il fiume silenzioso si portava con sé come se fossero dei giganti morti. La paura di distruggere la barca era sempre presente in me, perché avevo dei gradi responsabilità da rispettare, come il sostentamento della mia famiglia. Sentivo il fiume come se fosse una persona che conoscevo da sempre. Durante la navigazione il capitano mi raccontò delle storie che aveva sentito, talora vissuto, che avevano come protagonista il fiume. Sulla sponda di un’ansa incontrai i ruderi di un antico castello.  

Agli inizi dell’ottocento vi viveva una famiglia nobile, i cui antenati avevano partecipato alle guerre per l’Unità d’Italia. Il vecchio conte era morto da anni, lasciando la moglie e due figli.  L’ultimo erede di quel casato morì combattendo nella Grande Guerra. Era un giovane aviatore che si era distinto abbattendo molti aerei. Questo prode eroe era sepolto in un piccolo cimitero lungo il fiume. Dopo la sua morte eroica, il suo corpo martoriato era stato recuperato dal nemico che gli aveva dapprima reso onore dall’alto, e poi lo aveva sepolto con tutti gli onori militari che i tedeschi riservavano ad un soldato valoroso. Al funerale militare era presente anche l’aviatore che lo aveva colpito.  Dopo la fine della guerra, Vittorio Emanuele III lo volle insignire di una medaglia al valore che fu consegnato ad una vecchia parente. Il capitano parlandomi di questo eroe del cielo si era commosso perché lo considerava degno di non essere mai dimenticato.  

Il capitano vista la mia attenzione per quello che stava raccontando volle che ci accostassimo alla riva, a poca distanza, dai resti del vecchio castello. Una volta sbarcati mi mostrò la lapide posta sulla sua tomba su cui c’era un bassorilievo raffigurante l’immagine della Madonna. Il vecchio lupo di mare davanti alla tomba si tolse il cappello, delle lacrime solcavano il suo volto ed iniziò a recitare delle preghiere sottovoce. Aveva raccolto degli articoli che parlavano di questo eroe, tra cui una poesia scritta da una studentessa per onorare la sua figura. Possedeva anche delle foto inerenti alle azioni di guerra più importanti di questo asso dell’aviazione del Regio Esercito Italiano. In un’altra più sbiadita si vedeva il pilota nella sua immacolata uniforme vicino al Re Vittorio Emanuele III, che si era recato a visitare gli uomini che combattevano in cielo. Il Re aveva espresso in quell’occasione delle parole di gratitudine per la loro fedeltà dimostrata alla patria. Il capitano sapeva che, in quel luogo dopo la morte del pilota, si recava spesso una donna che lo aveva amato e che non lo aveva mai dimenticato. Riprendemmo la navigazione, quel giorno fu particolarmente gravoso, infatti, le derrate alimentari che caricammo erano aumentate rispetto al solito. La sera stessa attraccammo nella città di Motta di Livenza e ci fermammo a mangiare in una vecchia osteria. 

Lì vicino c’era una chiesetta dedicata a S. Rocco, che stranamente era ancora aperta data l’ora tarda, per cui decidemmo di entrarvi. In quel momento il parroco stava recitando il Santo Rosario, alla presenza di alcune donne.  La statua di San Rocco era posta sul lato destro dell’altare maggiore. Quando finì la funzione, una donna ci spiegò che la devozione al Santo era molto sentita perché era il protettore dei viandanti, e dei pellegrini. La donna, che non era molto giovane, disse che la chiesetta veniva spesso visitata dai pescatori che giungevano da Caorle con il pescato da vendere. 


Costei volle sapere da dove arrivassimo. Il capitano le disse che avevano la barca attraccata vicino al ponte e domani mattina saremmo ripartiti. La strada che ci riportò alla barca sembrava più lunga, data la stanchezza che ci impadroniva.

sabato 27 agosto 2022

L'Unione Monarchica invita a votare per i patrioti (come ha sempre fatto)

 Elezioni, scendono in campo i monarchici dell'Umi: “Riservandosi di indicare i candidati nelle varie liste, non può trascurare di segnalare Fratelli d’Italia”

“In vista delle elezioni del 25 settembre l’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.) invita gli elettori a non disertare le urne, così onorando quel “dovere civico” che è una conquista dello Stato parlamentare, istituito dalla Monarchia rappresentativa, e alimentato dai valori civili e spirituali del Risorgimento Nazionale”.

Lo rende noto il presidente, avvocato Alessandro Sacchi in una nota ufficiale.

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https://www.affaritaliani.it/roma/l-unione-monarchica-invita-a-votare-per-i-patrioti-un-assist-alla-meloni-812316.html?refresh_ce

mercoledì 24 agosto 2022

Piemontesi a Lepanto. La flotta sabauda nella battaglia del 1571


Tre galee e due giganti della storia subalpina, l’ammiraglio Andrea Provana di Leinì e il duca Emanuele Filiberto di Savoia.
Anche i piemontesi fecero la loro parte, si distinsero e combatterono come leoni nella battaglia di Lepanto. Quel giorno, il 7 ottobre 1571, oltre 400 galee e quasi 200.000 uomini si scontrarono nella più grande battaglia navale dell’Era moderna, 200 galee cristiane contro 200 galee turche, 90.000 cristiani contro 90.000 turchi. Come gran parte dei principi italiani, anche i Savoia inviarono navi e soldati per combattere i turchi e respingere la minaccia ottomana nel Mediterraneo e in Europa. Nella seconda metà del Cinquecento gli Ottomani erano una grande potenza e una grande minaccia per l’Europa cristiana. I ciprioti ne sanno qualcosa: l’isola veneziana, baluardo cristiano nel Mediterraneo orientale, fu conquistata dalla flotta turca e gli abitanti di Famagosta furono massacrati. L’eccidio provocò una tale ondata di sdegno in Europa che spinse i sovrani a rispondere con la forza per frenare l’espansione turca verso occidente. La vittoria cristiana a Lepanto fu forse sopravvalutata perché bloccò solo temporaneamente i piani del sultano ma fu anche la prima e più importante vittoria di un’armata cristiana contro i musulmani. La gloria di Lepanto si protrasse per secoli e la data del 7 ottobre 1571 viene ancora oggi ricordata e commemorata nei Paesi europei. Su Lepanto sono stati scritti numerosi libri ma nessun testo finora ha messo bene in risalto il ruolo dei sabaudi e la partecipazione alla battaglia navale della piccola ma coraggiosa flotta piemontese comandata dall’ammiraglio Andrea Provana di Leynì e inviata nel Golfo di Patrasso da Emanuele Filiberto. Una lacuna che il libro “Lepanto, i piemontesi combattono”, di Massimo Alfano e Giorgio Enrico Cavallo, Pathos Edizioni, ha provveduto a colmare. “Un volume che, scrive nell’introduzione Paolo Thaon di Revel, narra con dovizia di particolari l’inizio della marineria di Casa Savoia svelando episodi e notizie curiose spesso ignorate o sottovalutate”. I Savoia dunque si fecero valere anche sul mare con una propria marina, piccola ma potente ed efficiente, temuta e rispettata dalle altre potenze marinare.

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domenica 21 agosto 2022

Capitolo XVII: La notte di Natale

  di Emilio Del Bel Belluz


Era giunta  la notte di Natale e con mia moglie e i tre figlioletti  ci avviammo verso la chiesa per ascoltare la Santa messa.  Trovammo posto a fatica, perché molti banchi erano già occupati. Il freddo era intenso ma sopportabile, l’unica paura era  per il piccolo, ma era avvolto dalle braccia di Elena e di sicuro stava bene. I due bambini più grandi ben infagottati cercavano di ammirare il presepe che era stato allestito nella chiesa. Si trovava all’inizio della navata laterale destra, vicino alla statua della Madonna. Aveva delle statue molto grandi, statue antiche in terracotta; il sacrestano le aveva rimesse a nuovo facendo della riparazioni che non si vedevano, un lavoro ben fatto. Il sacrestano sapeva restaurare molto bene quello che il tempo aveva danneggiato. Lo stesso dicasi per qualsiasi altro lavoro manuale. I nostri bambini chiesero il permesso di andare a vedere subito il presepe, ma non diedi loro il permesso. La gente era molta e temevo che si perdessero. Li dissi che il presepe si poteva ammirare dopo che il parroco avesse benedetto la statua del Bambinello. Non molto convinti accettarono di aspettare, anche nella nostra casa avevamo preparato il presepe e non ci avevamo messo il Bambinello. Alla fine della messa il sacerdote avrebbe benedetto le statuine, e  dopo questo rito, finalmente, il presepe sarebbe stato completo. Elena era felice, sentiva che il Natale come per ogni cristiano era una festa importante perché era nato il Salvatore dell’umanità. Il sacerdote fece una predica di quelle che si sarebbero ricordate per sempre. I cuori di tutti erano aperti al racconto della nascita del buon Gesù. Durante la benedizione delle statuine i nostri figli si sentivano felici e uno di loro mi raccontò che non vedeva l’ora di tornare a casa e mettere nella paglia il Bambino di legno che era stato costruito da quel frate. La messa ebbe termine e fu davvero una festa. I bambini si misero vicini al presepe, ammirando le tante statue presenti. Uno ad uno le persone sfilavano davanti al presepe, con i volti felici, ed il suono delle campane  non  smetteva di suonare. Era proprio toccante la vigilia di Natale,  la gente sorrideva e pensava a quello che sarebbe successo una volta arrivati a casa. Alla Santa Messa avevano partecipato anche Geonoveffa e la maestra che durante la cerimonia non eravamo riusciti a vedere. I bambini erano davvero felici e quasi non si volevano allontanare dal presepe. In quel momento arrivò il parroco che volle fare una carezza ai bambini e  dalla tasca della tonaca tirò fuori delle caramelle che donò a tutti i piccoli presenti.  Il parroco s’avvicinò per dirmi che aveva bisogno d’aiuto per eseguire alcuni lavoretti nella canonica. Sapeva che non avrei in nessun modo rifiutato. La gente non accennava a lasciare la chiesa, perché fuori aveva cominciato a nevicare. I bambini durante la strada avevano iniziato a correre, noncuranti di scivolare, felici del bianco manto che copriva ogni cosa: uno spettacolo della natura che vedevano per la prima volta. Non si stancavano mai di alzare il viso al cielo, per farsi coprire dai bianchi fiocchi. Quando  giungemmo alla nostra  casa lungo il fiume, Elena e Genoveffa, assieme alla maestra si fermarono a osservare la neve che cadeva sull’acqua, illuminata dalla luna. Quella sera la festa si protrasse a lungo. I bambini adagiarono il Bambinello sulla culla, uno di loro lo coprì con della paglia perché Gesù non avesse freddo, e questo gesto così spontaneo commosse tutti. I bambini attendevano con impazienza di mangiare la torta che Genoveffa aveva preparato.  Elena disse che in quella famiglia, oltre al Bambinello in legno, c’era anche Umberto, l’ultimo nato, a ricordare la grande festa della Natività. La maestra raccontò che anche al suo paese la gente festeggiava il Natale ed anche le persone più povere lo ricordavano come un grande regalo donato da Dio. Il parroco a Natale offriva a quelli che erano più sfortunati, un dono che li facesse dimenticare per un attimo della triste condizione in cui si trovavano. Il parroco sentiva una grande felicità nello stare vicino ai bisognosi. Per lui il Natale era ogni giorno dell’anno. La maestra sprigionava tanta felicità perché si trovava a condividerla con le persone che l’avevano accolta in famiglia, che amava e che stimava. Quella sera nessuno voleva andare a letto. I bambini avevano ricevuto in dono qualche libro che proprio la maestra aveva acquistato per loro. Il suo pensiero era sempre rivolto a migliorare la loro conoscenza sui vari temi della vita.  I bambini assonati guadagnarono il loro letto, non prima di averci ringraziato e recitato una poesia natalizia. Quando tutti se ne erano andati a letto, uscii a osservare il fiume, e gli alberi che lo costeggiavano erano tutti imbiancati. La barca era legata al suo posto e veniva lambita dalle acque che scorrevano placide.  Avevo calato le reti, decidendo di lasciarle per qualche giorno senza andare a controllare se avevo catturato del pesce. Volevo godermi qualche giorno in santa pace. Pensai ai miei genitori che riposavano al camposanto, la loro tombe erano una accanto all’altra, non volevo che la morte li separasse. Li avevo perduti quando ero ancora molto giovane e per questo mi capitava di pensare spesso a loro. Ricordavo  tutte le attenzioni che mi prestavano quando ero bambino e, soprattutto, rammentavo la dolce ninna nanna che mi canticchiava mia madre, nonostante fosse molto stanca dalle fatiche della giornata.  Quel mondo era scomparso per sempre e come ogni persona, che soffre per il proprio passato, venni avvolto dalla malinconia. Nel frattempo aveva smesso di nevicare e sulla volta del cielo vidi brillare due stelle più delle altre e pensai che fossero i miei genitori che mi proteggevano da lassù. Mi ritornò, improvvisamente, in mente un racconto in cui un soldato italiano della Grande Guerra, nella notte di Natale, aveva scambiato un dono con un soldato nemico che si trovava nella trincea opposta. Il milite italiano donò una boraccia di grappa a quello tedesco e quest’ultimo gli offrì del tabacco da pipa. Il soldato italiano aveva intonato prima un canto di Natale a cui era seguito il canto del soldato tedesco. Sembrava che quella notte magica avesse fatto cessare la guerra, cancellato l’odio,  per farli ricordare che il Salvatore era venuto al mondo per portare la pace. Rientrato a casa mi sentivo in armonia con me stesso e con il mondo intero. Osservai per l’ultima volta il presepe e quella statua che raffigurava un pescatore nella sua barca, la accarezzai e per un momento mi sentii anch’io un protagonista di quel mondo che non sarebbe scomparso mai.

lunedì 15 agosto 2022

Le vite dei Re d’Italia al castello di Racconigi



L'esposizione artistica "Vita privata di un Re" sarà aperta anche a Ferragosto. L'approfondimento dedicato a Vittorio Emanuele III e alla Regina Elena sarà visitabile dal 19 al 21 agosto


Racconigi – Il percorso artistico “Vita Privata di un Re” sarà aperto al pubblico dal venerdì alla domenica e a Ferragosto. Per celebrare l’anniversario, l’esposizione del castello di Racconigi che racconta aspetti curiosi della vita di Re Carlo Alberto di Savoia, sarà arricchita da video parlanti e visori 3D.

Nella settimana dal 19-21 agosto, in occasione della giornata mondiale della fotografia (19 agosto), sarà inaugurata una sezione specifica intitolata “Fotografie e cartoline reali”, che esporrà scatti inediti realizzati nella camera oscura personale della regina Elena del Montenegro e di suo marito, re Vittorio Emanuele III di Savoia. Per prenotare la visita: 0171 696206 o info@cuneoalps.it (attivo dal lunedì al sabato dalle 10 alle 16).


https://laguida.it/2022/08/14/le-vite-dei-re-ditalia-al-castello-di-racconigi/

Elezioni 2022, Alessandro Sacchi (Umi): “Non rimarremo fuori dal dibattito politico, la nostra è un’associazione apartitica ma politica”


Il Giornale d’Italia ha incontrato il Presidente dell’Unione Monarchica Italiana, per un’intervista a tutto tondo tra attualità e politica

Di Aldo Snello

13 Agosto 2022

Elezioni 2022, Alessandro Sacchi (Umi): “Non rimarremo fuori dal dibattito politico, la nostra è un’associazione apartitica ma politica”

In una Repubblica che da vent’anni vive di scossoni, di elezioni richieste a gran voce ma che non hanno luogo, di una classe politica delegittimata e soppiantata dai tecnici, c’è chi si batte per un’alternativa: la Monarchia. Non in modalità nostalgia, ma come proposta istituzionale per il futuro, soprattutto in vista delle elezioni del 25 settembre.

Da presidente dell’Unione Monarchica Italiana, come si approccerà alle prossime elezioni del 25 settembre?

«Le prossime elezioni sono state fissate, non credo per caso, in un periodo complicato per andare a votare. Settembre è un mese “cerniera” tra le ferie estive e la ripresa delle attività, quindi queste elezioni si preannunciano con le oggettive difficoltà riscontrabili in una campagna elettorale sotto gli ombrelloni. Io, da presidente dell’Unione Monarchica italiana e da cittadino italiano, guardo alle prossime elezioni con attenzione ai programmi, consapevolezza e serietà, e coerenza, dove riscontrabile.»

 

L’UMI starà nel centrodestra o nel centrosinistra?

«L’Unione Monarchica Italiana sin dalla fondazione nel 1944, ha tenuto una posizione equidistante dai partiti e dagli schieramenti. Certo, sosterremo candidati, in tutte le liste, vicini alle nostre istanze, o dichiaratamente monarchici, come è sempre avvenuto.»


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https://www.ilgiornaleditalia.it/news/politica/395966/elezioni-2022-alessandro-sacchi-umi-non-rimarremo-fuori-dal-dibattito-politico-la-nostra-e-unassociazione-apartitica-ma-politica.html

Amedeo di Savoia-Aosta, un nome e un eroe da non dimenticare



Di Francesco Di Bartolomei e Gabriele Gigliotti


 Con un po' di sollievo culturale chi scrive ha appreso che il Liceo Duca d'Aosta di Pistoia non cambierà nome. L'operazione  di "cancel culture"(o che almeno così traspariva a tutti gli effetti),pare non sia passata, generando sdegno in alcuni e plauso in altri. Questo scritto desidera solo porre una riflessione sulla figura "dell'eventuale" rimosso e sui motivi che ne nobilitano il nome aldilà della ragion di nascita. Naturalmente inquadrando il personaggio nel suo preciso contesto storico di cui fu un protagonista capace di coscienza critica. Amedeo di Savoia nacque nel 1898.Allievo del Collegio Militare della Nunziatella di Napoli, fin da subito espresse una caratteristica che lo distinse per tutta la vita, quella di non farsi chiamare con il titolo di "Altezza Reale" ma semplicemente "Amedeo" da parte dei propri compagni e collaboratori.

Alla soglia dei 19 anni partì volontario per il  fronte durante la Grande Guerra, arruolandosi come soldato semplice d'artiglieria. Prima linea del Carso. Il padre, Comandante della Terza Armata detta "Invicta", disse al generale che lo aveva come sottoposto solo una frase: "Questo è mio figlio nessun privilegio!". Durante le ostilità guadagnò una decorazione al valore e la promozione al grado di Capitano. 

Alla fine del conflitto seguì lo zio Luigi Amedeo(Ammiraglio e celebre esploratore apprezzato in tutto il mondo scientifico)nel momento in cui stava creando in Somalia il Villaggio Duca degli Abruzzi che fu per molti decenni una delle più grandi aziende agricole dell'Africa, dove centinaia di somali trovarono lavoro mentre ai loro figli veniva garantita un istruzione che comprendeva anche l'insegnamento della religione islamica, giacchè era il credo dei loro padri.

Successivamente Amedeo lavorò in Congo come operaio e manovale in un saponificio sotto falso nome.Rientrato in Italia riprese la vita militare e si laureò a Palermo nel 1924 in giurisprudenza con una tesi in diritto coloniale, in cui esprimeva alcuni suoi pensieri sostenendo apertamente che l'unica giustificazione al colonialismo in epoca moderna era l'effettivo miglioramento della qualità di vita degli indigeni e altresì dibatteva sulla necessità di estendere il diritto di cittadinanza italiana alle poplazioni locali. Sembra oggi ma il Duca si poneva questi problemi cento anni fa. Durante il suo servizio nella Regia Aeronautica(arma in cui era transitato) si segnalò per aver salvato il pilota di un velivolo incidentato in fiamme causandosi ustioni e per  uno stile di vita sobrio e moderno, caratterizzato da una profonda condivisione della quotidianità col personale, sia civile che militare, aldilà di grado e ruolo.

Fu anche presidente onorario della Triestina Calcio. Mantenne un'amicizia con l'anticonformista poeta romano Trilussa noto anche per posizioni non sempre favorevoli al fascismo. Arrivato al grado di Generale di Divisione Aerea venne nominato Vicerè d'Etiopia.Diverse furono le proposte che prima di allora gli vennero offerte per ruoli apicali durante il regime ma lui rimase sempre e solo un soldato al servizio dello stato non bramando cariche e potere.

Arrivato ad  Addis Abeba nel 1937  mitigò l'atteggiamento ostile dei locali, causato anche dalle repressioni del suo predecessore Il Maresciallo Graziani da cui prese le distanze in modo netto, promuovendo fra le altre cose la realizzazione in Africa Orientale di numerose opere pubbliche e sociali. Preoccupato per l'avvicinamento dell'Italia alla Germania nazista, dopo l'approvazione delle leggi razziali in Patria, sposò in colonia una linea diversa da quella governativa come era d'uso nelle terre d'oltremare.

Poco prima dell'infausta legislazione cercò infatti su antecedente richiesta dello stesso Mussolini di promuovere la creazione di un insediamento/stato ebraico in Etiopia e portò avanti tale progetto sino a quando Roma non fece decadere l'interesse.Attuò inoltre una capillare azione di contrasto della corruzione.

Ben lontano da alcuni pregiudizi europei circa la storia africana promosse studi sull'antica civiltà axumita, proteggendone le restanze archeologiche. Dopo l'ingresso dell'Italia in guerra le antichissime tribù degli ebrei etiopi, i Falascià, in virtù del trattamento umano che sempre avevano ricevuto dal principe sabaudo, decisero di combattere con lui, questo fu l'unico caso in tutta la seconda guerra mondiale di ebrei che si schierarono con l'asse.

Precedentemente allo scoppio del conflitto si recò a Roma da Mussolini per opporsi fermamente e senza mezzi termini all'ingresso dell'Italia in guerra. Nonostante ciò fece il suo dovere fino in fondo. Guidò per quasi un anno le truppe al suo comando, prima di arrendersi sull'Amba Alagi, contro un nemico nettamente superiore per uomini e mezzi che gli concesse l'onore delle armi, mentre in Patria gli veniva conferita la Medaglia d'Oro al Valor Militare.

All'atto della resa, scendendo dall'Amba Alagi, lo salutarono per un'ultima volta tutti i suoi soldati, italiani ed indigeni, battendogli le mani e chiamandolo per nome tra la meraviglia degli alti ufficiali britannici a cui se pur vincitori forse mai era stato tributato un onore del genere che nasceva dal cuore di chi era stato ai suoi comandi e che lo aveva visto condividere con loro stenti e privazioni.

Durante i mesi di prigionia si aggravarono progressivamente le sue condizioni di salute(malaria e tisi)a quel punto gli inglesi gli offrirono la possibilità di avere moglie e figlie accanto, ma lui rifiutò asserendo che non aveva mai voluto privilegi rispetto ai suoi uomini.

Si spense nel 1942,sorretto solo dalla sua fede religiosa e in quella nell'Italia. Fu sepolto nel cimitero dei prigionieri italiani a Nyeri in Kenya sotto una semplice croce di legno tra i suoi soldati. Fu uno dei due caduti di Casa Savoia nella seconda guerra mondiale, assieme alla Principessa Mafalda morta nel lager nazista di Buchenwald, a cui si aggiunsero sette deportati tra cui il nipote Amedeo, appena nato a quel tempo e scomparso di recente. Il figlio di quest'ultimo, il Principe Aimone di Savoia-Aosta pronipote dell'eroe,ha scritto di recente all'istituto in questione ed al sindaco un pacato ma fermo messaggio; prendendo spunto da quell'appello si è voluto condividere codesta riflessione.

Nei commenti di alcuni promotori dell'iniziativa di rimozione si è asserito che della personalità del Duca d'Aosta c'era solo un vago ricordo; orbene fin quando fu viva la generazione di coloro che lo avevano conosciuto questo ricordo non fu così nebuloso. Il Negus Hailè Selassiè, nemico dell'Italia fascista, volle ringraziare personalmente la vedova del Duca per come il marito aveva trattato il popolo etiope.Nel 1953 ai reduci di quella pagina di storia venne dedicato un film "La Pattuglia dell'Amba Alagi",parte della pellicola analizzava documentaristicamente l'azione del Duca. A Gorizia nel 1962 venne inaugurato 
dall'allora Presidente della Repubblica Antonio Segni un monumento a lui dedicato e disegnato da un grande uomo di pace  come l'Ingegnere e scrittore Paolo Caccia Dominioni (già reduce di El Alamein e protagonista indiscusso della resistenza lombarda).

Se poi la memoria del suo sacrificio si è gradualmente affievolita lo si deve probabilmente anche al generale decadimento della nostra cultura e non solo. Chi scrive però è convinto che se ad una gioventù ormai eccessivamente digitalizzata fosse proposta l'immagine di quest'uomo, pur nella sua complessità e nelle contraddizioni che possono averlo caratterizzato, questi ragazzi sicuramente guadagnerebbero qualcosa in un fattore che ultimamente sembra un po' mancare: quello umano.

Quanto infine alla questione, che si volesse cambiare il nome dell'istituto per intitolarlo ad una delle due grandi scienziate Rita Levi Montalcini o Margherita Hack, che tanto lustro portarono al nostro paese, rimanendo nel sovrano rispetto di chi dovrà decidere tali eventualità, con molta umiltà si fa serenamente presente che una città come Pistoia potrebbe tranquillamente trovare-o almeno si presume-spazi consoni da dedicare a queste esimie personalità in dei luoghi dove per adempiere ciò non si debba necessariamente cancellare la storia.

https://www.ilgiornaleditalia.it/news/cultura/394381/amedeo-di-savoia-aosta-un-nome-e-un-eroe-da-non-dimenticare.html


Capitolo XVI :La maestra Silvana.

 


Di Emilio Del Bel Belluz 

Da quando la maestra era arrivata in famiglia tutto era cambiato. I bambini erano sempre attenti alle sue lezioni  e la casa sembrava trasformata in una classe. L’ultimo nato di sicuro sarebbe stato agevolato nell’apprendimento, sentendo fin da piccolo i suoi fratelli leggere e ripetere a voce alta le favole ascoltate. La maestra aveva abbracciato con molta felicità questa nuova sistemazione. Appena arrivata in paese sentiva la nostalgia della sua famiglia e non era stato facile per lei trovare delle amicizie, ma fortunatamente aveva conosciuto , dapprima, Genoveffa che l’aveva ospitata nella sua casa ed ora era con noi. La sua passione erano i libri, e nella mia casa ne aveva portati alcuni che spesso leggevo, magari con stanchezza, ma mi rendevo conto di quanta serenità potevano darmi. La maestra Silvana riceveva, inoltre,  dei libri che le venivano inviati dalla sua vecchia insegnante delle elementari che non l’aveva mai scordata. La vecchia maestra voleva che fosse lei ad occuparsi del suo ultimo periodo esistenziale, ma questo non era possibile, a causa della distanza che le separavano. Silvana amava  starsene seduta fuori all’ombra di una vecchia quercia  a leggere un libro, ogni tanto lo sguardo si indirizzava verso il fiume per osservare dei barconi riempiti di merci  che solcavano il fiume ed erano trainati da dei cavalli. Interrompeva la sua lettura per salutare le persone che erano a bordo. La quiete di quel posto era davvero contagiosa, infatti, Silvana emanava una grande serenità a coloro che la attorniavano. La maestra spesso sostava lungo la sponda del fiume, in attesa del mio arrivo dalla pesca. Aveva la curiosità tipica dei bambini per quello che era contenuto nella rete e che mi apprestavo a vendere ai miei clienti abituali. Il mondo della pesca non l’aveva mai vissuto prima d’adesso.  Lo aveva conosciuto in parte attraverso i libri del Verga, dove si narrava le storie dei pescatori, di questa umile gente che non si arrendeva al destino avverso. Nella chiacchierate davanti al caminetto ci aveva  raccontato che da bambina suo padre ogni tanto la portava a vedere il fiume, di cui ricordava ancora il suo profumo. Ci parlava anche  degli indiani che vivevano lungo i piccoli corsi d’acqua e  che pescavano per sfamarsi. Aveva sempre amato gli indiani che vivevano pacificamente e che rispettavano la natura; raccoglievano da essa solo lo stretto necessario per vivere senza turbare il suo equilibrio che durava da secoli. Poi dovettero abbandonare le loro capanne, perché l’invasore uomo bianco aveva deciso di farli  spostare e rinchiuderli nelle riserve, dove morivano di stenti e di malinconia Un popolo che aveva una sua storia, e delle sue tradizioni. La loro vita era scandita dall’avvicendarsi delle stagioni. Le loro donne  facevano i lavori più umili, ed erano felici di portare il loro contributo nell’ approvvigionamento del cibo e del vestiario. Le ragazze indiane avevano una bellezza particolare ed i loro capelli erano raccolti in lunghe trecce. Anche loro partecipavano alla pesca, l’abbondanza di pesce era tale che lo si poteva catturare anche con le mani.  Le donne indiane pulivano il pesce nel ruscello e in questo modo nulla andava perduto. I bambini imparavano a cacciare e a pescare. Gli uomini insegnavano loro a diventare dei guerrieri. Quel mondo non esisteva più, era passato  l’uomo bianco che si era impossessato di ogni cosa. Le foreste erano state abbattute per lasciare il posto alla ferrovia, i nuovi coloni avevano tolto loro le terre su cui cacciavano i bisonti: importante forma di sostentamento. La maestra aveva mostrato una sera un libro colorato, che conteneva dei disegni sugli  indiani, le loro belle facce dipinte e le donne con i bambini. Nel libro si raccontava di quanti indiani erano stati  uccisi dall’avanzare spietato dell’ uomo bianco.  Vi era stato uno scrittore naturalista che aveva vissuto per anni cercando gli ultimi indiani rimasti. Aveva saputo di una piccola tribù che si era spostata a vivere nella foresta. Una trentina di indiani che aveva deciso di vivere in modo libero e questo scrittore riuscì a farsi raccontare la loro storia. Questa gente voleva morire in modo libero, e per questo aveva cercato la fuga nei luoghi più solitari. Dovevano spostarsi frequentemente alla ricerca di posti dove potessero cacciare, pescare e nascondersi dall’uomo bianco per non finire nelle sue mani. Lo scrittore che li aveva trovati annotava su dei foglietti di un quaderno tutto quello che apprendeva, ivi,  li ritraeva a matita mentre svolgevano le loro attività per riuscire a mantenersi. Con il passare dei giorni si era affezionato a loro fino a decidere di viverci assieme. Un donna indiana, che era stata la moglie di un guerriero ucciso dai bianchi, divenne sua moglie. L’uomo con gli indiani rimase per anni, non gli mancava proprio nulla, non temeva nulla e si era legato a tal punto che vestiva i loro abiti. La donna che era diventata sua, lo amava tanto. L’uomo andava a caccia e spesso veniva deriso perché non era abile e doveva ancora imparare i trucchi usati da quel popolo. Quella zona era particolarmente selvaggia che sembrava che nessuno l’avesse mai scoperta prima. Gli anni passarono e la sua felicità aumentava, non aveva nessuna nostalgia per il suo passato, le vita di un tempo era solo un ricordo assai lontano. Nel suo taccuino continuava a scrivere la vita di questo popolo, non mancando di fare dei disegni. Lo scrivere era quotidiano, annotava quello che accadeva con scrupolo. L’unica cosa di cui non si era dimenticato era l’amore per Dio. Alla sera pregava e cercava di convincere gli altri alla fede cattolica, parlava loro di Gesù, specialmente  ai bambini che lo seguivano ovunque.  Alla sera davanti al fuoco stava sempre vicino alla sua donna, che essendo più giovane di lui era ancora più bella.  La fiamma che proveniva dal fuoco ne illuminava il volto,  e una mattina venne a sapere che attendeva un figlio. Quella notizia accrebbe ancora di più la sua voglia di vivere  e di resistere alle difficoltà che incontrava, anche se il vivere era molto appagante. L’idea di diventare padre lo rendeva molto felice, e sognava il momento in cui tutto questo si sarebbe realizzato.  Finalmente venne alla luce un bel maschietto che fece udire la sua voce al fiume che scorreva vicino. I suoi amici indiani  lo festeggiarono. Sentiva crescere sempre più dentro di sé l’amore per la sua donna e per quel bambino che entrambi avrebbero cambiato il suo futuro. Infatti, alla mattina si alzava sempre felice e anche se non osava svegliare la sua donna, si soffermava ad osservarla mentre riposava accanto al piccolo.   La sua vita passata non esisteva più, ora si sentiva davvero un indiano, uno che sapeva cosa fosse quello spirito che li univa. Venero degli inverni molto rigidi, non era facile sopravvivere al freddo e alla fame, perché la cacciagione scarseggiava, ma seppe andare avanti. Intanto il bambino cresceva.  Alla sera nel suo quaderno annotava quanto accadeva durante il giorno e vi univa una infinità di disegni. Gli uomini della tribù se li facevano mostrare e sorridevano. Ormai lo rispettavano come se fosse sempre stato uno di loro. Il destino di quella piccola tribù di indiani fu minata dalle malattie e dall’impossibilità di curarsi. Alla fine uno ad uno si ammalarono e morirono: l’unico che si salvò fu lui che li seppellì. Quando gli morì la donna che amava gli sembrava di impazzire, poi venne la volta del figlioletto che depose accanto a lei. Alla fine rimase solo lui,  passò ancora qualche anno, vivendo di stenti e del poco cibo che si procurava. La morte, alla fine, lo raggiunse, e  volle morire proprio sulla tomba della moglie e del figlioletto. Aveva costruito una croce su cui aveva inciso i loro nomi. Fino all’ultimo giorno aveva continuato a scrivere in quel quaderno che contava centinaia di pagine, scritto in modo fitto per risparmiare la carta. Passarono anni e un giorno arrivò in quel posto un cacciatore di pellicce che vide i poveri resti di quell’ uomo e trovò quel quaderno che portò ad un giornale che provvide a pubblicarlo a puntate, mentre i disegni furono raccolti in un libro. Fu così che molti vennero a conoscenza della sua vicenda umana condivisa con quel popolo da lui tanto amato .

domenica 7 agosto 2022

Capitolo XV: Il fiume e la nascita di Umberto


  di Emilio Del  Bel Belluz


Passavano i mesi, la situazione economica stava migliorando e la gravidanza di Elena stava continuando nel migliore dei modi. Tutti i componenti della famiglia cercavano quotidianamente di trovare degli obiettivi nuovi e Genoveffa era una persona veramente tenace e piena di speranza che contagiava tutti noi.  Era sempre allegra ed accudiva i nostri bambini con molto affetto. Elena a causa della gravidanza avanzata era subito colta dalla stanchezza e non aveva le forze necessarie per pensare alla casa e ai figli. Genoveffa, invece, era instancabile, e si faceva in mille. Alla mattina mentre mi accingevo a preparare le reti, Genoveffa era intenta ad accendere il fuoco, così   l’odore della legna si mescolava al profumo del caffè. A colazione trovavo sempre una fetta di torta che gustavo da solo, era un momento di tranquillità tutto mio, prima di uscire a pesca. Poi, mentre salivo nella mia barca, avevo l’abitudine di farmi il segno della  croce e di soffermarmi per recitare delle preghiere. Quanta felicità provavo nel sentire il suono delle campane del mio paese, che mi augurava una buona giornata.  Il pensiero era rivolto poi alla cara  Elena che godeva ancora del tepore delle coperte assieme ai due figli. Quel mese di dicembre era molto freddo, la neve non era scesa ma tutto lasciva presagire che sarebbe accaduto di sicuro. Spesso vedevo  dei tronchi che spiaggiavano sulle sponde del fiume.  Quando non era possibile trascinarli a casa da solo, dovevo ricorrere all’aiuto dell’asino. Quei tronchi venivano dal fiume come se avessi chiesto a Dio della legna per riscaldare la mia casa. Quando mi trovavo con la barca vicino a qualche ramo pesante lo trascinavo a riva. Quel legno ci avrebbe fatto compagnia nelle notti d’inverno. Amavo particolarmente il legno d’acacia che era piuttosto robusto,    nasceva spontaneo lungo le rive del fiume e   lo paragonavo alla forza del destino. Era un  legno che gettavo  nel fuoco come ultimo pezzo della giornata, perché l’indomani trovavo ancora le sue braci che mi permettevano di accendere il fuoco facilmente. L’acacia per diventare così rigida aveva dovuto lottare. Come gli alberi, ogni giorno, dovevano difendersi dagli agenti atmosferici, così anche l’uomo doveva combattere contro le difficoltà della vita e  ciò li rendeva ancora più forti. Ai miei figli avevo sempre spiegato che ogni cosa del creato andava rispettata e amata. Il buon Dio alla fine avrebbe provveduto a tutto, nel bene e nel male. La sua forza era la nostra, e per questo non bisognava dimenticarsi di Lui. Ai bambini avevo insegnato che il Buon Dio non abbandona mai i propri figli, come l’amore dei genitori è eterno. Nei giorni che seguirono, fece ancora più freddo. Mancava una settimana al Santo Natale, e anche se il ricavato della pesca era stato piuttosto scarso, non volevo che alla mia famiglia mancasse il presepe. Acquistai dal bottegaio del paese delle statuine che aveva    procurato con qualche difficoltà. A costruire i presepi era un frate del convento di Motta. Costui aveva delle mani d’oro e scolpiva il legno in modo davvero sublime, e non riusciva ad accontentare tutte le richieste che gli venivano fatte. Questo frate lo avevo visto una volta nel suo laboratorio nel santuari dove momentaneamente viveva. Era un uomo basso di statura, magro, dalla barba molto folta, e dalle mani piccole e possenti.  Questo frate che si chiamava   Domenico, passava dei mesi nella solitudine più assoluta, in un borgo abbandonato. Quando i suoi fratelli cappuccini lo raggiungevano per portargli qualcosa dal convento, aveva sempre parole gentili, e diceva  che a  lui non serviva proprio nulla e aveva tutto il necessario per vivere. In quel borgo ogni mattina celebrava la messa.  Era raro che qualcuno si trovasse in quel luogo. Una volta all’anno due pastori si fermavano con le loro greggi, e lo andavano a trovare. Questo frate li amava molto perché si sentiva come loro,  uno che doveva andare avanti nella notte senza stelle. Era molto ospitale. Accendeva il grande caminetto della canonica, li faceva accomodare, e cucinava le sue prelibate zuppe. I pastori gli portavano della farina e dei formaggi che preparavano loro e così veniva imbastito un pasto soddisfacente. Nella grande sala della canonica davanti al fuoco scoppiettante, questi pastori discorrevano con lui. Lo consideravano una cara persona di cui avevano fiducia. Gli raccontavano delle loro famiglie che stavano lontano e della nostalgia che assaliva i loro cuori. Erano uomini che dimostravano il doppio dei loro anni, la vita faticosa che conducevamo aveva invecchiato i loro corpi. Il vecchio frate parlava della vita di Gesù e raccontava loro di come non si era mai stancato di perdonare l’uomo che aveva sbagliato. Una volta si presentò un pastore che aveva chiesto di passare la notte in canonica. Costui aveva il volto disperato perché aveva commesso da qualche mese un omicidio:  una notte si era azzuffato con un uomo e lo aveva ucciso a coltellate.  Da quel momento non era più stato lui, da allora andava di paese in paese con le sue pecore; nessuno aveva sospettato che era colpevole di quell’omicidio.  Alla sera, anche se stanco, non riusciva più a dormire, non era mai tranquillo, il rimorso gli rodeva dentro. In famiglia preferiva non rimanere perché non si sentiva a suo agio. La donna che aveva sposato, la madre dei suoi figli, aveva tentato in tutti i modi di farsi dire quello che in effetti era accaduto, ma l’uomo aveva preferito tacere.  La moglie, su consiglio di un pastore, s’incamminò per raggiungere il borgo dove viveva Fra Domenico perché era da tutti considerato una persona saggia e santa. Il frate le consigliò di convincere il marito a recarsi da lui. Dopo varie discussioni, il pastore raggiunse Fra Domenico che conosceva molto bene la fragilità dell’uomo e i lati più oscuri della sua esistenza. Davanti al fuoco, nel silenzio di quel piccolo borgo, rotto solo dalle campane che segnavano l’ora, raccontò la sua storia. Durante la confessione il frate gli parlò della misericordia di Dio che perdonava tutti dopo un vero pentimento. La sua vita non era finita, si sarebbe potuto riscattare, facendo d’ora in avanti solo del bene.  Il pastore aveva le lacrime che gli solcavano il volto, ma si sentiva sollevato, il grosso peso che lo attanagliava era scomparso. Il cammino che gli si prospettava era lungo e faticoso. Il vecchio frate gli ordinò di costituirsi alla polizia, perché doveva pagare il suo debito con la giustizia. Ma il pastore non voleva saperne di costituirsi perché avrebbe abbandonato la sua famiglia nella miseria più nera. Fra Domenico andò nella sua piccola biblioteca e prese una bibbia rilegata in pelle nera. Dopo averla baciata e avvicinata al crocefisso, gli disse che ora gli avrebbe dato la penitenza. Il pastore, che nel frattempo aveva smesso il pianto liberatorio, lo ascoltò con molta attenzione. Da ora in avanti avrebbe dovuto leggere  ogni giorno dieci pagine della Bibbia, in questo modo avrebbe potuto riflettere sul suo passato e conoscere la strada da percorrere secondo gli insegnamenti di Cristo. Doveva pregare e prodigarsi a fare del bene al prossimo.  Il frate, d’altro canto, disse che si sarebbe occupato della famiglia che aveva subito il grande lutto ed era rimasta priva dell’unica forza di sostentamento. L’uomo che aveva ucciso tornò nella sua casa, si mise a lavorare  con impegno la terra, e condusse una vita retta. Tutte le sere con la moglie leggeva la Bibbia che gli arrecava un grande sollievo. Ogni anno con sua moglie si recava a trovare il frate fino a quando non fu trasferito al convento di Motta di Livenza. Fra Domenico, dopo tanta solitudine, passava le sue giornate a scolpire le statuine del presepe nel convento di motta. Quando tutti dormivano con l’aiuto di Genoveffa, addobbai l’albero e feci il presepe, le statuine odoravano ancora di legno. Costruì la capanna con del legno che avevo in casa. Nella notte di Natale, mentre le campane suonavano a festa, nella mia casa nasceva il Bambino Gesù, ma allo stesso tempo nasceva il nostro terzo figlio a cui venne dato il nome di Umberto, ricordando il figlio della Regina Elena del Montenegro, per i quali nutrivamo un grande affetto. Quando nacque Umberto il parroco del paese la informò con una lettera che non rimase inascoltata e  la famiglia Savoia fece pervenire un pacco con dei vestitini ed altri doni.  Nella lettera la sovrana scrisse delle parole molto commoventi, ringraziando poi per aver scelto il nome di suo figlio, che tra l’altro era nato nello stesso mio anno. La nascita di Umberto scrisse una nuova pagina nel libro della nostra famiglia e su cui riponemmo ogni speranza. Genoveffa  era stata assieme a noi in ogni fase della gravidanza e ora aveva deciso di lasciare la sua casa per stabilirsi per sempre con noi. Quegli avvenimenti non mi avevano fatto dimenticare il lavoro della pesca, anche se a dicembre il pescato era scarso.  L’anno si concluse  e ringraziammo Iddio per tutto ciò che avemmo ricevuto. Qualcuno scrisse che seguendo la retta via non si dovrebbe mai temere il male e, se qualora si presentasse, il buon cristiano troverebbe la via d’uscita. Quando si ha fede in Dio, nulla ci spaventa. Spesso il parroco veniva a farci visita, e la benedizione che ci veniva impartita ci dava la forza per affrontare le traversie della vita. Venimmo a conoscenza che la maestra del paese si era ammalata e aveva bisogno di assistenza. Elena e Genoveffa decisero che si sarebbero occupate di lei. Per maggiore praticità venne a vivere nella nostra casa, aggiungendo un posto a tavola per lei e Genoveffa condivise la ospitò nella  sua camera.  La maestra divenne la nostra “malatina”, come confidenzialmente la chiamavamo. Quando si sentì un po’ meglio, le piaceva insegnare ai bambini a leggere, e passava molto tempo con il piccolo appena nato. Volle rimanere con noi anche dopo che aveva ripreso ad insegnare. L’allegria della casa le era entrata nel cuore ed, al momento, non intendeva rinunciarvi.

giovedì 4 agosto 2022

Un anno senza il Presidente Giglio


Un anno fa ci ha lasciato Zio Domenico.

Ne abbiamo sentito la sua mancanza ogni giorno, inutile dirlo.

Segnaliamo il bell'articolo del professor Sfrecola comparso sul sito "Un sogno Italiano.

Riportiamo inoltre l'elenco completo di tutti gli articoli di cui il Presidente Giglio è stato autore o nei quali è stato taggato.

Nella sua memoria continuiamo la nostra battaglia per la diffusione degli ideali comuni.

http://monarchicinrete.blogspot.com/search/label/Domenico%20Giglio

Lo staff



mercoledì 3 agosto 2022

Le ragioni della Monarchia X


ATTUALITA' DELLA MONARCHIA TRADIZIONALE.


Giunti al termine dell'esposizione delle ragioni della Monarchia tradizionale, resta da rispondere alla obiezione, tanto più insidiosa quando essa viene dai conservatori ipocriti e privi di ideali superiori, sulla attualità di quanto descritto e quindi sul senso di una battaglia che, richiamandosi alla Tradizione, ne voglia restaurare valori ed isti tuti. È I' obiezione di chi fa notare, magari fingendo di rammaricar­sene, che "i tempi sono mutati". A costoro potremmo accontentarci di rispondere orgogliosamente con i versi di L. Thornas:"Le temps sera pour vous / l'éternité pour moi".

Per noi rispondono anche Donoso Cortés, il Principe di Canosa, Giambattista Vico, insegnandoci che senza divino soccorso, senza re­ligione, non può esservi civiltà. Vico, soprattutto, ci mostra che l'ade­sione anche totalitaria all'errore non lo rende legittimo; la storia è tracciata dall'intelletto divino, che ci lascia però il libero arbitrio, dalla negazione della Provvidenza e della libertà umana conseguono i di­sordini politici e civili, che sono la pena del disordine spirituale. "Da due o tre secoli a questa parte la città politica ha assunto nuovamente le caratteristiche della Bestia rifiutandosi di riconoscere Cristo e la sua Chiesa, è nuovamente persecutrice, sia apertamente che con siste­mi camuffati.". Era prevista nelle Scritture una "anti civiltà inimmaginabile perversa e apostata", ma è anche previsto che "portae inferi non praevalebunt" e "l'avvento di Gesù Cristo nella sua gloria verrà a coronare le lotte supreme e le supreme fedeltà della sua Chiesa militante" (41 ).

Che i tempi siano cosí oscuri ed il trionfo della Rivoluzione pressoché completo, quindi non ci sgomenta affatto, ma è anzi un ul-teiore segno della bontà della nostra battaglia, oltre che una fonte di merito ancor piú grande per noi che la combattiamo. Noi, che abbia­mo vegliato durante la lunga notte con la speranza di poterci incon­trare con quelli che verranno nel nuovo mattino (42).

La Rivoluzione avanza, ma, come Lucifero, il primo rivoluzionario (43), può solo distruggere, non costruire. Così con un processo inesorabile, come i Girondini furono distrutti dai Giacobini, Kerensky fu spazzato via da Lenin, il mondo moderno crolla autodistruggendosi. Nel campo del pensiero, ove la filosofia, ripudiata la meta­fisica, è ridotta a penoso balbettio sulla possibilità della sua stessa esi­stenza; mendicando un ruolo di coordinatrice dei risultati scientifici, gli stessi figli della Rivoluzione ne mettono in crisi i presupposti, così i "nuovi filosofi" denunciano il potere rivoluzionario e riscoprono confusamente la sacralità tradizionale, così i neo-pagani di "Nouvelle Ecole" in se stessi svelano fino in fondo le aberrazioni di chi vuole s' rifiutare i miti egualitari ma, prigioniero del suo rifiuto di Dio, ad essi sostituisce la manomissione della persona umana attraverso la biopolitica. Nel campo scientifico, ove la "civiltà" tecnologica è in crisi e sempre più è insistente la domanda se essa abbia portato più male che bene e se non stia avvicinandoci alla catastrofe definitiva. Tutta la Rivoluzione congiura a distruggere l'uomo fingendo di servirlo.

 

L'aborto, la droga, le perversioni di ogni genere sono i frutti di morte e di desolazione di questa falsa libertà. Distruggere o trasfor­mare radicalmente la natura umana in odio al Creatore, ecco il fine ultimo della Rivoluzione. Se avremo chiaro questo, avremo chiaro il senso della storia degli ultimi secoli. Il mondo attuale, nella sua globalità, è molto più comprensibile a chi lo legga attraverso una visione tradizionalista che ad uno abbagliato dagli ideali rivoluzionari.

Oggi la Rivoluzione si crede invincibile, ma i suoi figli ebbri di potere, che si sentono nati solo per la felicità, sono richiamati alla lo­ro condizione di creature dall'esistenza della morte, come ha scritto Alexander Solzenicyn: "Se l'uomo, come dichiara l'umanesimo, non fosse nato che per la felicità, non sarebbe neppure nato per la morte. Ma corporalmente votato alla morte, il suo compito su questa terra non ne diventa che più spirituale: non un rimpinzarsi di quotidianità, non la ricerca dei migliori mezzi di acquisto, poi di gioiosa spesa dei beni materiali, ma il compimento di un duro e permanente dovere, in modo che tutto il cammino della nostra vita diventi l'esperienza di una elevazione soprattutto spirituale. lasciare questa vita come crea­ture più elevate di quanto non vi siamo entrati. Ineluttabilmente, siamo indotti a rivedere la scala dei valori che sono diffusi tra gli uomini e a stupirci di tutto ciò che questa comporta oggi di erroneo...re (44).


"Siamo al punto di rottura, - dice ancora Solzenicyn, - ad una svolta paragonabile a quella tra Medioevo e Rinascimento, la libertà di fare il male ha ormai di troppo superato la libertà di fare il bene."

Affrettare, favorire, guidare questa svolta, ecco il compito dei contro-rivoluzionari monarchici, consapevoli che il ritorno dell'uni­verso della Tradizione è anche il ritorno delle monarchie.

Resta da sciogliere un falso dilemma di natura strategica: lavora­re in tempi lunghi o sperare nel "colpo" risolutore? Diceva don Sacchetti: "Cattolici, preghiamo Iddio che la rivoluzione muoia domani, ma poi lavoriamo com'essa dovesse vivere per sempre". La storia inse­gna che i "colpi" risolutori, se non hanno alle spalle una classe diri­gente contro-rivoluzionaria di ricambio, consentono prima o dopo la ripresa del processo rivoluzionario, o addirittura la facilitano. D'altra parte il crollo della Rivoluzione difficilmente sarà incruento e sarà certo necessario un periodo di "imbalsamazione" del corpo sociale per operare su di esso a fini restauratori. Questo è l'insegnamento dei pensatori contro-rivoluzionari. Ramiro de Maetzu scriveva: "Sotto la protezione del fascio, del Somatén, della dittatura o del servizio so­ciale volontario, deve prepararsi l'opera spirituale, attraverso la quale i popoli della terra ritroveranno nella religione, nella famiglia, nello Stato e nella proprietà i fondamenti stessi della civiltà" (46 ).


Charles Maurras afferma che occorre "costituire uno stato d'animo monarchico. E quando questo stato d'animo pubblico sarà forma­to, si scatenerà un colpo di forza per stabilire la monarchia" (46).

Ma ricordiamo sempre queste nobili parole di Francisco Elias de Tejada. "Le imprese non si misurano col successo. Dio non abbando­nerà i suoi. E nel peggiore dei casi, se ci nega di vedere il trionfo col metro del successo, pur sempre ci dona quella pace della coscienza del dovere compiuto, che si sintetizza nel motto per cui caddero i nostri predecessori. 'Senza cedere' ".

La mia speranza è solo che chi legge queste pagine ne tragga nuovo impulso a combattere per Dio, la Patria, il Re, nel nome e nel ricordo di chi lottò e mori sotto i simboli della Tradizione, dalle cro­ci sugli scudi dei guerrieri in Terrasanta, al Sacro Cuore dei nobili e dei contadini vandeani, nell'esempio di chi si batté per la controrivoluzione, dai requetes carlisti ai camelots du Roi.