di Emilio Del Bel Belluz
Nelle settimane che seguirono, la pesca si era resa sempre più difficile a causa del gelo.
Allora decisi con Elena che mi sarei messo a cercare un lavoro per un certo periodo. Un mio amico mi aveva detto che erano alla ricerca di un uomo con esperienza per lavorare in un barcone che percorreva il fiume scaricando e caricando della merce. Il lavoro sarebbe stato piuttosto duro, ma remunerativo e pertanto non volli perdere questa opportunità. Anche se dovevo assentarmi per un po’ di tempo, mi sentivo tranquillo perché in casa, a fare compagnia ad Elena e ai bimbi, sarebbero rimaste Genoveffa e Silvana. La mattina dell’imbarco non c’era molta visibilità, una nebbiolina, alla quale ero abituato, mi faceva compagnia. Il capitano mi venne incontro e mi fece salire. Era un uomo molto robusto dai capelli brizzolati, aveva un cappello militare da capitano.
Subito volle presentarmi gli altri uomini dell’equipaggio. Era d’abitudine per quelli che salivano a bordo per la prima volta che gli fosse offerto un caffè corretto con dell’ottima grappa che il capitano riservava per le grandi occasioni. Il barcone non era ancora partito e dentro di me sentivo una certa ebbrezza; non ero abituato a bere a digiuno. Il capitano aveva un accento francese perché, si diceva, che si fosse arruolato nella Legione Straniera. Quello che si aspettava da me era un impegno costante in cui si doveva dare il massimo; il compenso che mi spettava era particolarmente alto. Il capitano ci mostrò le merci che dovevamo scaricare, e poi al ritorno avremmo dovuto imbarcare delle derrate alimentari destinate al mercato generale.
Il padrone mi diede una pacca sulla spalla e mi volle rassicurare che ci saremmo trovati bene in quei giorni. Faceva questo lavoro da molti anni e non si lamentava della sua vita. Poi mi chiese se fossi stato in grado di navigare con un grande barcone come il suo, soprattutto in quei tragitti dove l’alveo del fiume diventava stretto e tortuoso. Gli risposi che il fiume lo conoscevo molto bene, perché vi ero nato e avevo sempre fatto il pescatore, anche se con alterna fortuna e lo rassicurai dicendogli che avevo ancora navigato con delle chiatte e avevo accumulato una discreta esperienza.
Il mio primo giorno lavorativo fu duro, ma il notare sul volto del capitano l’approvazione per quello che avevo svolto, mi ripagò di ogni fatica. Verso sera, dopo aver fatto l’ultimo carico, ci fermammo in una piccola darsena, dove poco distante c’era un’osteria. Non conoscevo quel posto. Si trattava di una vecchia casa, abitata un tempo da pescatori, e adattata per diventare un luogo in cui rifocillarsi e ripristinare le proprie energie. Era abbastanza grande ed era gestita da una coppia avanti con gli anni, aiutati, pertanto, da una giovane ragazza. Quando fummo seduti tutti a tavola, l’anziana donna venne al tavolo per prendere le ordinazioni. Ci consigliò lo spezzatino con patate e fagioli che aveva cucinato la mattina, oltre al vino che proveniva dalle loro vigne.
Quel piatto ci poteva essere servito con molta abbondanza, essendo noi gli ultimi avventori che il fiume aveva portato. In una saletta accanto alla nostra scorgemmo un vecchio che sorseggiava del vino in solitudine: la bottiglia era già mezza vuota. Si seppe che era giunto in quel posto con un piccolo asino che era stato legato fuori vicino alla stalla e che era un vagabondo che si spostava di paese in paese per fare dei lavori, guadagnandosi il suo pane quotidiano. Gli facemmo cenno di unirsi a noi, ci aveva intristito il cuore vederlo da solo e forse a pancia vuota. L’uomo accettò e felicemente ci sorrise. Il cibo venne portato in tavola e anche l’ospite incominciò a mangiare e a raccontarci che parte della sua vita l’aveva vissuta in montagna. Alla morte dei genitori aveva deciso di lasciare i monti, perché era molto malinconico vivere da solo e nei luoghi che gli ricordavano ogni giorno l’assenza dei suoi cari.
Con la sua nuova occupazione, invece, aveva la possibilità d’incontrare tante persone e di allacciare anche delle vere amicizie. L’uomo dopo aver mangiato si accese la pipa, avvolgendo la stanza in una nuvola di fumo che pareva una nebbia. Aveva ottenuto dai padroni dell’osteria di fermassi per la notte nella stalla; l’indomani sperava di trovare qualche lavoretto adatto alle sue capacità. Si era abituato a vivere con poco. Prima che se ne andasse gli domandai se mai una donna avesse fatto parte della sua vita e, sorridendo, disse che in gioventù aveva conosciuto una ragazza che stava per sposare, ma poi le cose andarono in maniera diversa. Gli dissi che se passava per il mio paese, Villanova, l’avrei ospitato molto volentieri, assieme al suo fedele asino. Quando se ne andò, il capitano chiamò la padrona, per pagare il conto, e chiederle se potevamo rimanere durante la notte dove era stato attraccato il barcone.
L’indomani mattina presto saremmo ripartiti. La donna si offrì di preparare la colazione, l’osteria apriva alle cinque e non sarebbe stato un disturbo. Una volta saliti sul barcone ebbi dal capitano la mia coperta. Prima di addormentarmi pensai a Elena e ai miei figli e nel mio cuore speravo che sentissero la mia mancanza. Poi mi addormentati improvvisamente, come uno che era stremato dal duro lavoro della giornata. L’indomani mattina, lavandomi nell’acqua del fiume, vidi alcuni pesci che guizzavano: il posto doveva essere davvero ottimo per la pesca. Ricordavo che, nella sala dove avevamo mangiato, c’erano alle pareti appese delle foto di alcuni esemplari di storione, verosimilmente, pescati in quel luogo. Oltre alla verdeggiante vegetazione che costeggiava il fiume, notai anche molti alberi da frutto che forse erano nati grazie agli uccellini che avevano trasportato qualche seme.
Ciò mi faceva pensare alla forza, alla grandezza e alla perfezione della natura, quando non viene brutalmente intaccata dall’opera dell’uomo. Sulla sponda destra del fiume scorsi una casa diroccata, forse qualcuno un tempo vi era stato felice. Dal camino non usciva più il fumo. Quello che era rimasto era un grande mucchio di mattoni. Pensavo di conoscere il fiume come le mie tasche, invece, avevo trovato degli scorci che mi erano sfuggiti; forse perché la mia attenzione nel passato era tutta rivolta alla barca che non incontrasse degli ostacoli. Era molto facile trovarsi davanti a dei tronchi che il fiume silenzioso si portava con sé come se fossero dei giganti morti. La paura di distruggere la barca era sempre presente in me, perché avevo dei gradi responsabilità da rispettare, come il sostentamento della mia famiglia. Sentivo il fiume come se fosse una persona che conoscevo da sempre. Durante la navigazione il capitano mi raccontò delle storie che aveva sentito, talora vissuto, che avevano come protagonista il fiume. Sulla sponda di un’ansa incontrai i ruderi di un antico castello.
Agli inizi dell’ottocento vi viveva una famiglia nobile, i cui antenati avevano partecipato alle guerre per l’Unità d’Italia. Il vecchio conte era morto da anni, lasciando la moglie e due figli. L’ultimo erede di quel casato morì combattendo nella Grande Guerra. Era un giovane aviatore che si era distinto abbattendo molti aerei. Questo prode eroe era sepolto in un piccolo cimitero lungo il fiume. Dopo la sua morte eroica, il suo corpo martoriato era stato recuperato dal nemico che gli aveva dapprima reso onore dall’alto, e poi lo aveva sepolto con tutti gli onori militari che i tedeschi riservavano ad un soldato valoroso. Al funerale militare era presente anche l’aviatore che lo aveva colpito. Dopo la fine della guerra, Vittorio Emanuele III lo volle insignire di una medaglia al valore che fu consegnato ad una vecchia parente. Il capitano parlandomi di questo eroe del cielo si era commosso perché lo considerava degno di non essere mai dimenticato.
Il capitano vista la mia attenzione per quello che stava raccontando volle che ci accostassimo alla riva, a poca distanza, dai resti del vecchio castello. Una volta sbarcati mi mostrò la lapide posta sulla sua tomba su cui c’era un bassorilievo raffigurante l’immagine della Madonna. Il vecchio lupo di mare davanti alla tomba si tolse il cappello, delle lacrime solcavano il suo volto ed iniziò a recitare delle preghiere sottovoce. Aveva raccolto degli articoli che parlavano di questo eroe, tra cui una poesia scritta da una studentessa per onorare la sua figura. Possedeva anche delle foto inerenti alle azioni di guerra più importanti di questo asso dell’aviazione del Regio Esercito Italiano. In un’altra più sbiadita si vedeva il pilota nella sua immacolata uniforme vicino al Re Vittorio Emanuele III, che si era recato a visitare gli uomini che combattevano in cielo. Il Re aveva espresso in quell’occasione delle parole di gratitudine per la loro fedeltà dimostrata alla patria. Il capitano sapeva che, in quel luogo dopo la morte del pilota, si recava spesso una donna che lo aveva amato e che non lo aveva mai dimenticato. Riprendemmo la navigazione, quel giorno fu particolarmente gravoso, infatti, le derrate alimentari che caricammo erano aumentate rispetto al solito. La sera stessa attraccammo nella città di Motta di Livenza e ci fermammo a mangiare in una vecchia osteria.
Lì vicino c’era una chiesetta dedicata a S. Rocco, che stranamente era ancora aperta data l’ora tarda, per cui decidemmo di entrarvi. In quel momento il parroco stava recitando il Santo Rosario, alla presenza di alcune donne. La statua di San Rocco era posta sul lato destro dell’altare maggiore. Quando finì la funzione, una donna ci spiegò che la devozione al Santo era molto sentita perché era il protettore dei viandanti, e dei pellegrini. La donna, che non era molto giovane, disse che la chiesetta veniva spesso visitata dai pescatori che giungevano da Caorle con il pescato da vendere.
Costei volle sapere da dove arrivassimo. Il capitano le disse che
avevano la barca attraccata vicino al ponte e domani mattina saremmo ripartiti.
La strada che ci riportò alla barca sembrava più lunga, data la stanchezza che
ci impadroniva.
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