NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 31 luglio 2022

Capitolo XIV : VITTORIO DIVENTA ANCORA PADRE.

di Emilio Del Bel Belluz



La pesca mi impegnava ogni giorno sempre di più, e diventava un lavoro sempre più gravoso, anche se mi entusiasmava come il primo giorno. Ma Elena temeva che potessi incorrere in qualche pericolo, tale da perdere la mia vita, lasciandoli soli. Pertanto ogni giorno mi prospettava i pericoli più svariati, che la rendevano triste. Una sera davanti al caminetto le raccontai degli insegnamenti che mi erano stati tramandati da mio nonno. La vita deve essere  affrontata con coraggio e determinazione, anche quando s’incontrano dei sentieri impervi. 
Bisogna mettere il massimo impegno in quello che si sta facendo, senza lasciarsi travolgere dalle difficoltà. Da ragazzo avevo visto il fiume come il mio miglior alleato e per questo lo sentivo dentro come un caro amico. Elena da qualche tempo era diversa, sorrideva un po’ meno, non parlava come un tempo di cose belle ma si trincerava in un silenzio che non capivo, e non mi dava della spiegazioni come avrei voluto. Notavo che era distaccata dai figli, sbrigava le faccende con maggior fatica.  Una sera, mentre guardavamo le stelle, mi disse che era in  dolce attesa e che aveva paura di non riuscire a badare da sola anche al nuovo arrivato, dato che non poteva contare molto sul mio aiuto. Alla notizia che sarei diventato padre per la terza volta, una nuova felicità si era impossessata di me. Nel frattempo cercavo di rasserenare Elena, assicurandole che le sarei stata vicino, anche se avessi dovuto trascurare il mio lavoro.  
La domenica successiva venne a trovarci Genoveffa, alla quale potemmo dare la bella notizia che tanto attendavamo, almeno da parte mia. Quello che accadde poi, aveva qualcosa di miracoloso.  Genoveffa decise che sarebbe ritornata a vivere con noi, per sostenere  Elena e per aiutarla con i bambini. Questa sua disponibilità arrivò come un regalo di natale inaspettato e bello. La vita riprese, e mentre mi trovavo con la mia barca mi sentivo più sereno, perché sapevo che Genoveffa avrebbe badato ad Elena e ai miei figli. Nell’ultimo mese non fui molto fortunato con la pesca, il fiume s’era gonfiato a dismisura per delle piogge molto abbondanti, da far paura. Alla sera mentre andavo a controllare il fiume, avevo l’impressione che la sua voce non fosse più la stessa. Le acque continuavano ad alzarsi, e per questo andai dal parroco e chiesi che venisse a benedire il fiume come tante volte aveva fatto. Il vecchio curato, accompagnato dal sacrestano, venne sull’argine e mentre benediceva, pregai con lui in ginocchio. 
La fede nel buon Dio non mi era mai mancata e sapevo che  non avrebbe abbandonato i suoi figli. Le campane della chiesa suonarono a distesa e i rintocchi raggiungevano anche i paesi più lontani. Dopo la benedizione lo invitai nella mia casa, e lo trattenni anche per la cena: avevo catturato alcuni pesci la mattina, era come un miracolo del fiume. Quando l’acqua è torbida e la corrente è più forte, diventa veramente difficile pescare. Il sacerdote e il vecchio sacrestano erano piuttosto felici dell’invito, non era facile trovare una famiglia con cui condividere un boccone in un clima tranquillo. La stessa sera lo portammo a conoscenza che mia moglie attendeva un terzo figlio, e la bella notizia fu coronata da un brindisi con dell’ottimo vino. Il sacerdote, osservando la foto dei miei genitori che avevo in cucina, disse che anche loro sarebbero stati felici  e che dal cielo ci avrebbero protetti. La vita non finisce con la morte, anzi, c’é un nuovo inizio migliore, per l’uomo di fede.  
Il sacrestano non nascondeva di avere un grande appetito e, pertanto, non rifiutava nessuna portata. Genoveffa aveva preparato una pentola con del cibo da dare al sacrestano, perché sapeva che oltre ad essere una buona forchetta non era un abile cuoco.  Genoveffa  quella sera non aveva parlato molto, la sua attenzione era sempre stata rivolta ad aiutare Elena che considerava una persona molto fragile, ma che col suo aiuto le sue preoccupazioni  si sarebbero appianate.  Quando il parroco e il sacrestano lasciarono la casa, fuori aveva smesso di piovere. L’odore del fiume era molto intenso, la luna si poteva scorgere in tutta la sua bellezza, e forse il tempo delle piogge era finito. Il prete tornò a dire che il buon Dio non abbandona quelli che ama e che bisognava avere fiducia. Mi raccomandò di essere più presente alla messa  domenicale, perché aveva osservato da qualche settimana la mia assenza. Allora mi scusai con lui, e lo rassicurai che non sarei mancato nelle prossime domeniche. Quando arrivai a casa, Genoveffa stava sparecchiando, e mi disse che era felice d’essere tornata a far parte della mia vita. La donna proseguì dicendo che ad una certa età ci si sente soli e frequentare le persone che si amano è l’unica medicina contro la vecchiaia. 
Prima di andare a letto abbracciai Genoveffa e la ringraziai per la sua  completa disponibilità. Entrato nella camera dei bambini osservai che dormivano saporitamente. Faticai a prendere sonno, perché ero rimasto alquanto entusiasta della serata trascorsa. Quando arrivò l’ alba corsi a vedere il fiume, l’acqua miracolosamente stava calando, e notai sulla sponda una barca danneggiata che si era arenata.  Doveva essersi staccata da un albero a cui era stata legata, e di sicuro il proprietario si sarebbe messo a cercarla. La tirai verso la terraferma, così il fiume  non l’avrebbe trascinata nel suo letto. Raggiunsi il posto dove avevo calato le reti, ma l’acqua era ancora troppo torbida ed alta per recuperarle. Passeggiando lungo la riva, vidi  in un punto del fiume una grande pozza dove  qualcosa si muoveva. Allora mi avvicinai, e con un bastone cercai nell’acqua e  notai subito che si trattava di un pesce piuttosto grande, forse una carpa, ma non mi era possibile stabilirlo con precisione. 
Fu così che corsi a casa, dove trovai Genoveffa e i bambini seduti a tavola che facevano colazione. Le raccontai che ero rincasato per  prendere la fiocina perché avevo individuato un grosso pesce in una pozza d’acqua che si era formata dove il fiume si era ritirato. Non era la prima volta che recuperavo del pesce in questo modo, ma questa volta si trattava del più grosso esemplare che avessi mai visto. Genoveffa mi sorrise e mi invitò a non perdere tempo, la fortuna non passava due volte nello stesso momento e ci poteva essere qualcun altro che poteva approfittarne. Con la fiocina e un sacco mi recai sul posto, il pesce sembrava svanito, mossi l’acqua torbida e finalmente lo individuai. Non si trattava di una tinca o di una carpa, ma di uno storione che non avevo mai catturato di così grandi dimensioni. Aspettai il momento opportuno e  con molta fortuna lo portai a riva. Il pesce doveva essere almeno  un metro di lunghezza, e dal peso di una sessantina di chili. Un esemplare davvero magnifico, mentre  cercavo di metterlo nel sacco si dimenava, ma la lotta con il fiume lo aveva stancato. Non aspettai un momento e corsi subito all’osteria per poterlo vendere. L’oste che mi conosceva bene, disse che non avevo giudizio perché era pericoloso andare a pescare con il fiume ancora in piena. 
Con un sorriso gli dissi che stamattina avevo ricevuto un miracolo, il buon Dio aveva capito che mi servivano dei soldi per pagare i conti della  bottega e mi aveva aiutato. L’oste fu ben lieto di comprare lo storione, ne avrebbe ricavato un buon guadagno, pure lui. L’oste si sedette  con me e mi offrì un caffè con della grappa di casa, quella che avrebbe fatto resuscitare un morto e che mi diede subito alla testa. Non capivo nulla ma mi sentivo in pace, avevo guadagnato del denaro, pagato i debiti e mi rimaneva ancora qualcosa per i prossimi giorni. Mi avviai verso casa, non incontrai anima viva, rividi il fiume le cui acque limacciose stavano defluendo verso il mare. Anche stavolta i problemi si erano risolti, era bastato avere fiducia in Dio e nella Provvidenza, come predicava il parroco del paese.  Anche mio padre, che non si era mai disperato nella vita,  diceva:” Dio vede e Dio provvede”.  

sabato 30 luglio 2022

E a noi Calenda sta antipatico

Tajani a Calenda: “Blateri da un divano”. 


La replica ironica: “Avanti Savoia…”



E perché ci sta antipatico? 
Perché ha la spocchia dei saccentoni che guardano dall'alto in basso quelli che non la pensano come loro. Perché pensano di sapere già tutto.
Perché pensano di liquidare 86 anni di storia d'Italia monarchica e anche una quarantina d'anni di storia repubblicana con una battuta.

Noi stiamo ovviamente dalla parte di Tajani e a questo novello salvatore della Patria al 3% ricordiamo che mentre Tajani è stato un apprezzato Presidente del Parlamento Europeo lui è stato un ministro di transizione in un governo Gentiloni, l'ennesimo deciso nelle stanze dei palazzi e non dal popolo che la costituzione repubblicana vorrebbe sovrano.

Caro Calenda, non sei nessuno. E ci auguriamo che presto le urne ne diano conferma. 
Così forse fai lo spiritoso con i nostalgici di Mao e di Stalin.


San Leopoldo Mandic


di Emilio del Bel Belluz
Il 30 luglio saranno trascorsi ottanta anni dalla morte di un grande testimone della fede cristiana, San Leopoldo Mandic’.  Una delle figure più nobili della Chiesa dei poveri. Nacque il 12 maggio del 1866 a Castelnuovo del Cattaro in Montenegro. Ancora bambino dimostrò la sua volontà di farsi frate, e di abbracciare la fede che porta a Dio. Venne per questo in Italia e precisamente a Udine, dove i frati avevano da poco aperto un seminario. Nel 1885 a Bassano del Grappa prenderà i voti e diventerà Fra Leopoldo. Si trasferì poi a Padova dove vi rimase per decenni. La sua vita veniva vissuta in una celletta di pochi metri quadrati, dove vi stavano a malapena una sedia, un inginocchiatoio per i penitenti, un crocefisso, e  un quadro della Madonna. Nella stanza fredda d’inverno e troppo calda d’estate, passava tutti i giorni almeno  dodici ore per confessare la gente che si rivolgeva a lui, sapendo che la sua parola era  guidata dalla misericordia del buon Dio. Il frate era alto  135 centimetri, aveva un fisico minuto, una barba bianca come si evidenzia dalle sue  foto, una salute malferma e difficoltà di parola, ma possedeva la grazia e la forza di un gigante. La sua vita, alla fine, era tra quelle quattro mura, dove non si muoveva mai neppure per bere un caffè. Quando il medico gli consigliò di prendersi un caffè verso le dieci, dovette lottare con il cuoco che lo rimproverava ogni giorno per il disturbo che arrecava al suo lavoro. Il buon frate si era abituato ad essere rimproverato. Una cosa era certa:  mangiava  come un uccellino, specialmente alla sera che si accontentava di  un pezzetto di pane raffermo che inzuppava nella scodella di latte. Aveva  cura di dare le briciole rimaste agli uccellini, affinché non si buttasse nulla, perché ogni cosa proveniva dalla bontà del Signore. Era anche molto devoto alla Madonna che confidenzialmente chiamava: La Parona.  Durante la guerra ci furono molti soldati che prima di partire per il fronte chiedevano al frate se sarebbero tornati a casa dai loro cari. San Leopoldo per ognuno di loro diceva una parola di coraggio e di fede. Ad ogni soldato donava una medaglietta della Madonna con l’invito di invocarla e di pregarla. Quei soldati se ne andavano da quel convento rincuorati e fiduciosi. Molti di essi non tornarono dalla Russia, e gli altri non poterono  ringraziare personalmente il frate, perché nel frattempo era morto. San Leopoldo disse che dopo la sua morte il convento dei frati sarebbe stato bombardato dagli americani, ma la sua celletta dove confessava sarebbe rimasta in piedi, come la Madonna che vi era posta vicino. Quello che aveva previsto si avverò, la guerra infuriava e il convento fu colpito, ma la sua stanzetta della confessioni rimase intatta, come pure, si salvò la Madonna dallo sguardo triste alla quale era particolarmente legato.  La guerra poi ebbe termine e il convento fu restaurato, ma la celletta e quella Madonna rimasero uguali a prima. Una volta andai a visitare il convento dove il cappuccino aveva vissuto. In quel periodo non ero felice, una serie di circostanze mi aveva reso la vita piuttosto amara. Un mio zio paterno, che era monsignore in un paese montano, mi regalò un libro sulla biografia del Santo che lessi tutto d’un fiato una notte d’inverno. Alla fine mi sentii rincuorato, e con la forza necessaria per dare una svolta alla mia vita.  Allora decisi di commissionare un affresco raffigurante il santo sulla facciata della mia casa ad un grande artista di  Motta di Livenza. Quel dipinto divenne per me come figura vivente e  ogni sera prima di andare a letto mi mettevo a osservarla. Non mancavano le mie suppliche  al frate cappuccino e  mi sembrava che la vita andasse meglio. Allora volli fare sempre dallo stesso artista un altro affresco del Santo, sulla proprietà di un commerciante di Motta, in una piccola nicchia, ove le persone si soffermano ad invocarlo. La bellezza dell’affresco mi ha subito affascinato, a tal punto che ogni giorno, vado a vederlo e a recitare una preghiera. Porgo, inoltre, anche un saluto ai proprietari.  Un giorno a Motta conobbi un signore piuttosto anziano che mi aveva sempre dato l’impressione che fosse un nobile: il signor Guglielmi. Dopo aver fatto amicizia con lui, questi mi raccontò che per ben due volte aveva visto il Santo, prima con il padre e poi con la nonna. Il padre si era affidato alle  sue  preghiere dovendo partire per la guerra. Il signor Guglielmi, accompagnato dalla nonna, si recò al convento di Padova per ricevere una benedizione dal frate  perché  non aveva voglia di studiare. San Leopoldo allargando le piccole braccia in senso d’impotenza, disse che lui non poteva fare nulla per questo, ma poi gli sorrise con affetto.  Il signor Guglielmi partecipò  anche all’inaugurazione di una statua della Madonna in onore di San Leopoldo  da me donata e collocata davanti alla chiesa di Brische di Meduna di Livenza. Fu una di quelle giornate che non si potranno mai dimenticare. La devozione a S. Leopoldo è così sentita a Motta di Livenza che un suo concittadino, Ermanno Sgorlon  volle donare un ritratto del frate  da esporre nella chiesetta dello ospedale di Motta di Livenza.  I degenti, i loro familiari e tutti i mottensi, ora che la chiesa verrà riaperta, potranno pregarlo davanti alla sua immagine, ancor più ora che è stato proclamato  protettore dei malati oncologici.  Anche in questi momenti difficili è un Santo che si presta ad essere invocato e supplicato per ottenere protezione e grazie. Anni fa  venne restituita una chiesa in Crimea ai cinquecento superstiti italiani dalle deportazioni di Stalin in Siberia. Questa comunità, che non aveva molti contatti con l’Italia, chiese l’ invio di una statua della Madonna che essi desideravano molto. Fu così che decisi di donargliela. Venne dipinta dall’artista Lippi che su mia richiesta, raffigurò la stessa immagine, con il volto triste, della Madonna tanto cara al frate cappuccino. Quando il progetto fu realizzato, la Madonna venne fatta benedire dall’allora parroco Monsignor Bruseghin, durante una bella cerimonia. La statua venne spedita  in una cassa di legno, che aveva come coperchio un dipinto dello stesso artista, raffigurante la Madonna dei Miracoli di Motta. Quella cassa arrivò a destinazione dopo parecchi giorni,  venne collocata nella chiesa di Kerc’ e le immagini sacre vennero benedette dal parroco polacco del luogo.  Questa Madonna che era partita da Motta di Livenza è onorata con molta fede. Queste storie  meritano d’essere ricordate, perché esprimono la condivisione della stessa devozione per il santo con comunità di diversi Paesi.  Una volta parlai con un signore, il cui padre era molto devoto a San Leopoldo, e prima di partire per il fronte russo durante la seconda guerra mondiale, volle andare a salutarlo. Il santo lo accolse come faceva con tutti, con il suo amabile sorriso. Il soldato gli disse che doveva lasciare il paese e partire per la guerra, forse temeva di non tornare a casa a riabbracciare i suoi cari.  Frate Leopoldo lo confessò e lo rasserenò, gli diede una medaglietta della Madonna raccomandandosi di pregarla e di  avere fede. Il militare partì per la guerra con quella medaglietta che si era messa al collo e benedetta dal piccolo frate. Nel 1942 iniziò la ritirata russa nella morsa del freddo e del fuoco nemico che continuava ad ostacolare il cammino dei nostri soldati. L’uomo nei momenti di disperazione più assoluta pensava a Fra Leopoldo, e questo gli dava la forza di avanzare. Molti dei suoi commilitoni erano morti assiderati. Anche lui era giunto allo stremo delle forze, quando scorse la carcassa di un animale appena morto ed ancora caldo.  Sventrò l’animale con un pugnale e vi porse dentro parte del suo corpo, evitando così il congelamento. Quella notte aveva pregato con tutto il cuore il frate e aveva stretto tra le mani la medaglietta benedetta, invocando anche l’aiuto della Vergine. Il giorno  dopo scrisse su una roccia, dove aveva appoggiato lo zaino, il suo nome e cognome e la data. Quando tornò in patria seppe che  il suo amico frate era morto, e credo che lo abbia onorato con una visita in cimitero. Questa è una della tante storie che ho sentito sulla vita del Santo dei poveri. La regina Elena, originaria pure lei  del Montenegro, non so se lo abbia conosciuto, ma di sicuro ne avrà sentito parlare, erano due persone che avevano sempre lottato per i poveri e gli ultimi. Nel mio cuore c’è la speranza che la sovrana possa essere proclamata  Beata da papa Francesco.  Un caro amico militare in Grecia, in una visita alla chiesa di San Nicolò a Cefalonia, trovò la rivista Portavoce di San Leopoldo, a dimostrazione che la devozione popolare  al Santo non ha confini. San Leopoldo morì il 30 luglio 1942 nel convento di S.Croce ,a Padova. Il giorno prima aveva confessato fino a mezzanotte, una cinquantina di penitenti. Il mattino successivo aveva iniziato a celebrare la S. messa  che non portò a termine per il sopraggiungere di un malore. Venne riportato nella sua camera e invitò i confratelli a recitare la Salve Regina, le cui lacrime si unirono alle sue e spirò con un sorriso sul volto, raggiungendo finalmente coloro che chiamava il Paron e la Parona.

Io resto monarchico e me ne vanto

 di Emilio Del Bel Belluz 

Leggo che il politico Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia abbia ricordato all’onorevole Antonio Tajani la sua passata  simpatia e appartenenza ai monarchici, come se fosse qualcosa di negativo.  
Questo non mi pare essere una colpa, la simpatia per Casa Savoia accomuna milioni di italiani. Quando ci fu il referendum monarchia - repubblica, lo scarto era minimo. Ricordo una foto di Antonio Tajani nel giornale Monarchia oggi, diretto da quel galantuomo di Sergio Boschiero, che fu leale al Re Umberto II fino alla morte, e che meriterebbe di essere ricordato come si dovrebbe.  Il mondo italiano non ricorda la sua storia. 
Una volta  Puskin scrisse: “La civiltà si distingue dalla barbarie per il rispetto verso il passato”. Quello che avrebbe dovuto fare  Antonio Tajani era  di spendere qualche parola a favore della sepoltura dei Savoia al Pantheon, sono certo che sarebbe giovato all’Italia. Viviamo in un Paese che segue le direttive dell’Unione Europea che ci sta cancellando le nostre radici cristiane.

Quello che il mio Paese sta vivendo è una crisi di identità che lo porterà alla rovina. “In una stagione dove i cosiddetti valori della modernità stanno attraversando una loro spaventosa caduta, ritornare ai valori dell’identità è cosa che fa riflettere, ma è anche un dato che non solo ci fa capire l’importanza della tradizione e quindi  la necessità di colloquiare con il passato quanto dà senso alla sacralità della tradizione. 
Finora c’è stata la corsa alla desacralizzazione. Ci siamo immersi di vuoti, abbiamo navigato nel vuoto.  Ci siamo immersi nel nulla, abbiamo viaggiato nel nulla…” (Pierfranco Bruni). Sono monarchico da sempre e lo considero un grande onore perché hanno fatto l'Unità d'Italia, cosa non da poco...

120° Anniversario del Regicidio di Umberto I




Scritto da Massimo Fulvio Finucci e Clarissa Emilia Bafaro 

UN PASSAGGIO SECOLARE
NELLA STORIA DEL REGNO D’ITALIA

Il Novecento inizia con due eventi, solo apparentemente distanti, il Regicidio del Re d’Italia Umberto I e la creazione di un’opera d’arte, estremamente inquietante, il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Infatti, il 29 Luglio 1900,  fu proprio la mano di un operaio anarchico, che con tre colpi di pistola, in ultimo, pose fine alla vita del Sovrano. Quest’anno ricorre il 120° Anniversario dell’infausto evento.

Il Contesto Europeo
Il periodo che va dalla fine dell’Ottocento all’inizio del Novecento viene detto Belle EpoqueEpoca della Bellezza. Un progresso scientifico e industriale ormai imperante e irrefrenabile, come un fiume in piena travolse l’Europa. Il futuro si imponeva con tutta la sua forza. Tutto era scritto, tutto era già nelle cose. Nelle esposizioni universali delle maggiori città europee si mostrava il progresso della civiltà e le conquiste dell’umanità.
Confronto-scontro tra tradizione e modernità. Due sistemi di pensiero, due visioni del mondo. L’idea di leggi immutabili e inesorabili veniva sostituita dal richiamo continuo a punti di vista e a proiezioni intellettuali inusitate, cambiando così il modo di concepire l’oggetto fisico e le categorie di spazio-tempo.

Il tempo dell’orologio sostituiva il tempo della campana.
Cambiamento antropologico in atto. Le masse mutavano i loro desideri e le loro aspirazioni, i loro gesti e le loro abitudini; orientate non più dal suono della campana, ma dal rumore delle sirene.

Ai tempi lenti del pensiero e della riflessione si opponevano i tempi veloci della macchina. La velocità era la caratteristica dei Tempi Moderni, prendeva il sopravvento su tutto, sia nella vita civile e pacifica, che in quella che venne giudicata, da certi ambienti, come una nuova forma di guerra.

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https://www.consulpress.eu/120-anniversario-del-regicidio-di-umberto-i/

giovedì 28 luglio 2022

Forza Italia, la confessione di Tajani: “Io monarchico? Che male c’è?”




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Antonio Tajani conclude la sua intervista tornando su alcuni suoi aspetti personali. “Io monarchico? Che male c’è, non ho mai rinnegato la mia storia. – ammette serafico – Essere monarchico non significa nulla. C’è la monarchia in tanti paesi europei. È la verità e non rinnego il mio passato”, conclude.

Programmi per il voto. Fascismo e monarchia oltre le varie agende


di Fabio Torriero

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E che ha fatto Fabio Rampelli? Ha bocciato Tajani dicendo che da giovane era monarchico. Come se ciò fosse un marchio di infamia, pari al fatto di aver natali o provenienze neo-fasciste (il Msi), come molti parlamentari di Fdi.
Ha fatto bene il principe Emanuele Filiberto a ricordare a Rampelli, la genesi della Destra nazionale voluta da Almirante (con i monarchici del Pdium), e di Alleanza nazionale, con personaggi del calibro del professor Fisichella, monarchico doc e non solo. E a ricordare le 10 monarchie europee che presiedono i destini dei popoli e delle nazioni che hanno raggiunto i migliori risultati in ordine all’unità nazionale, al progresso e alla stabilità istituzionale. Mentre molte repubbliche degenerano nel caos o nelle dittature.

Ultima osservazione: quando Fdi parla di patria e patriottismo, dovrebbe ricordare che l’Italia è stata fatta da Casa Savoia e che l’identità nazionale è costituita dal periodo monarchico (85 anni), dal periodo repubblicano (76 anni). Anche sui numeri vince la monarchia. E la risposta di Rampelli al principe, è stata corretta, ma ancora, purtroppo, con un pizzico di pregiudizio da 25 luglio o da 8 settembre.

La vera storia dietro Re Tentenna. L’epopea di Carlo Alberto di Savoia- Carignano


Carlo Alberto Emanuele Vittorio Maria Clemente Saverio di Savoia-Carignano fu Re di Piemonte dal 1831 al 1849. Per noi è noto come il “Re tentenna”, il Re che cambiò più volte idea nella storia del Risorgimento italiano, ma fu veramente una figura così indecisa, o semplicemente una persona mossa dalle contraddizioni della sua epoca?

Visse la sua giovinezza nella Francia napoleonica, dove la sua famiglia si era trasferita per poter godere dei favori dell’Imperatore. Li respirò il liberalismo, ma poi, per tornare nei favori della casa Savoia, tornata a regnare a Torino, cambiò completamente il proprio ambiente, diventando cattolico, in questo aiutato dalla moglie molto religiosa.

Nel 1821 sembrò accettare i moti liberali accesi da ambienti a lui amici, ma, preso dalla paura, Carlo Alberto confessò tutto a Vittorio Emanuele I. I ribelli costituzionali occuparono la cittadella di Alessandria. ma Vittorio Emanuele I abdica a favore del fratello Carlo Felice, che schiaccia i liberali e lo esilia a Firenze per molti anni. Per tornare nei favori di Carlo Felice si arruola come ufficiale nell’esercito francese che schiacciò le rivolte costituzionali in Spagna, dove mostrò un certo coraggio personale.

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https://scenarieconomici.it/la-vera-storia-dietro-re-tentenna-lepopea-di-carlo-alberto-di-savoia-carignano/

mercoledì 27 luglio 2022

La storia dell’Arma dei Carabinieri al Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri, fino al 10 settembre



Al Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri è aperta al pubblico fino al 10 settembre, la mostra “Arte Sabauda e Carabinieri Reali”

La mostra racconta la storia dell’Arma dei Carabinieri dalla sua fondazione – segnata dalle Regie Patenti di Vittorio Emanuele I del 13 luglio 1814 – fino al 1946, anno del referendum che sancì il passaggio da Monarchia a Repubblica e di cui è in mostra un’urna elettorale accanto all’uniforme appartenuta all’ultimo Comandante dei Corazzieri Reali, Giovanni Riario Sforza, da cui Umberto II si congedò partendo per l’esilio.

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fonte: zipnews.it

Piccola rassegna stampa




E nostra piccola premessa. Il governo della repubblica, formatosi in parlamento, lontano da qualsiasi consultazione popolare, si è dimesso. E sono state indette nuove elezioni politiche per il 25 settembre.
Passo che andava fatto già da un bel pezzo secondo noi.

I sondaggi che vedono in testa il partito di Giorgia Meloni stanno facendo perdere la calma a molte persone, probabilmente complice il caldo estivo e lo spauracchio di vedere un partito dichiaratamente di Destra a Palazzo Chigi. Assistiamo ad un quotidiano fuoco di sbarramento contro Giorgia Meloni cui viene rimproverato perfino il suo cognome che incomincia per "M" come Mussolini. E ci sbellichiamo.

In questo si inserisce una considerazione dell'on. Fabio Rampelli che, come a dire che non solo in FDI ci sono uomini provenienti da aree politicamente scorrette, addita il passato monarchico dell'On Tajani, già vicesegretario Nazionale del Fronte Monarchico Giovanile. Passato di cui non c'è nulla da vergognarsi, ovviamente.

Noi non commentiamo mai (quasi) quanto fatto e detto da Casa Savoia 

Il Principe è forse andato al di là delle parole dette da Rampelli rispolverando parole scritte (e cancellate ) da Giorgia Meloni qualche anno fa circa l'arretratezza culturale della Monarchia che si rese subito conto di avere fatto uno scivolone. 

Resta il fatto che in un certo tipo di Destra la parola "monarchico" ha connotazioni negative, eredi dirette della propaganda della RSI e del referendum istituzionale nel quale la sinistra riprese a piene mani tutto il fango vomitato durante la guerra civile. 

E sarebbe il caso di finirla perché per un centrodestra in ascesa i voti dei monarchici non sono bazzecole e non sono scontati, perché al di là della scarsa organizzazione ci siamo e siamo arrabbiati.

Meglio non farci passare la voglia di votare.

Il botta e risposta sta negli articoli che seguono (e anche qualche pagina più vecchia).


Tajani, il monarchico scivolato su Mussolini



Giorgia Meloni candidata premier, Rampelli: "Ma il Ppe lo sa che Tajani era monarchico? FdI con il fascismo non c’entra"

 

Dichiarazione del Principe Emanuele Filiberto

 

Emanuele Filiberto si offende per la frase di Rampelli sui monarchici e controbatte: il duello corre su Fb


Rampelli (FdI): "Tajani premier? Strano era monarchico. Noi con il fascismo non abbiamo nulla a che fare"



Le ragioni della Monarchia VIII

 


MONARCHIA E DOTTRINA CATTOLICA CONTRO LA RIVOLUZIONE

Qualcuno potrebbe pensare che un Sovrano non sia indispensabile in una società tradizionale. Vi sono una serie di buone ragioni che dimostrano che un Monarca è il necessario coronamento del tipo di società descritto, che, senza di esso, perderebbe vertice e principio informatore.

In primo luogo la figura del Sovrano, con il suo potere sacrale e non legato ad interessi politici od economici simboleggia e riassume in sé i valori spirituali e morali, garantendone la preminenza su quelli economici.

In secondo luogo la Monarchia è l'istituzione che, con la figura del Re padre dei suoi sudditi, riflette l'immagine stessa di Dio Padre e Giudice delle sue creature:

"...Serva l'uomo il suo Re dopo il suo Dio,/ ché, se non fosse 'Re' cosa tant'alta,/ non l'avrebbe al suo nome aggiunto Iddio": cosi" ha scritto Lope de Vega. La Monarchia è simbolo di ciò che è natura­le (31), perché fondata sul più naturale dei rapporti, quello tra padre e figlio. I diritti naturali promossi dal Cattolicesimo trovano la loro migliore realizzazione attraverso I' "empirismo organizzatore" delle Monarchie.

In terzo luogo la Monarchia è evidentemente garanzia di stabili­tà e continuità, quindi di salvaguardia della Tradizione.

Infine la filosofia insegna qual'è l'importanza della forma, poi­ché "Forma est id quod dat esse rei, sicut anima dat esse corpori".

La Chiesa cattolica non ha mai teorizzato esplicitamente in for­ma dogmatica la superiorità della Monarchia sulle altre forme di go­verno. In epoca prerivoluzionaria i costanti riferimenti, nei docu­menti pontifici, alla Monarchia, devono farsi risalire al fatto che in tale epoca altre forme di governo erano largamente minoritarie. Durante la Rivoluzione francese il Papa Pio VI ebbe a definire la Monarchia "praestantioris regiminis forma" (32).

Ciò premesso, va detto però che i grandi filosofi cattolici hanno sempre indicato nella Monarchia il regime ideale. Basti ricordare S. Tommaso nel "De regimine principum" e il Vescovo Bossuet nella "Politique tirée des propres paroles de l'Ecriture sainte". Juan Donoso Cortés stabilisce addirittura una corrispondenza tra dottrine in campo religioso e forme di governo. Secondo tale classificazione, al Cattolicesimo, che insegna che Dio esiste, Dio regna, Dio governa le cose umane, è connaturale la Monarchia tradizionale. Il deismo, se­condo il quale Dio esiste, Dio regna, ma non governa le cose umane, (vi è la negazione della Provvidenza), ha il suo sistema ideale nella Monarchia costituzionale. Il panteismo, secondo il quale Dio esiste però non è una persona ma è l'umanità, porta a concludere che il po­tere è nel popolo, si esprime nel suffragio universale e comporta la forma repubblicana. Infine l'ateismo, la negazione dell'esistenza di Dio, porta all'anarchia (33).

Se il magistero della Chiesa non teorizza esplicitamente la superiorità della Monarchia, tuttavia la dottrina sociale della Chiesa fornisce implicitamente giustificazioni a favore della Monarchia tradizionale. La dottrina della Chiesa sull'autorità legittima, sul potere che deriva da Dio, sul retto esercizio dell'autorità, trova chiaramente la sua migliore configurazione storica nella Monarchia tradizionale, che a Dio fa risalire la sua fonte e alle leggi divine si sottomette nell'eser­cizio quotidiano della sovranità. La dottrina sociale della Chiesa ha sempre difeso, con continuità ammirevole di documenti del Magiste­ro pontificio, i principii ed i fondamenti della società tradizionale ed ha sempre condannato la Rivoluzione.

In questo quadro, ad esempio, Leone XIII condanna l'apriori­stico anti-monarchismo, S. Pio X condanna coloro che vogliono ve­dere nella democrazia la forma politica più rispondente agli ideali cristiani, Pio XII afferma che la democrazia deve essere sottomessa al la legge naturale ed alla legge divina (34).

 

 

Possiamo concludere che la Monarchia può essere considerata il coronamento della dottrina sociale della Chiesa.

Le tappe e le conseguenze della Rivoluzione sono descritte in volumi magistrali, per cui posso limitarmi ad alcuni cenni. Con l'U­manesimo e la Riforma protestante avviene una frattura nella filosofia e nel pensiero religioso. L'Umanesimo, ad un universo in cui misu­ra di tutte le cose era Dio che le aveva create, sostituisce un mondo in cui è solo l'uomo ad essere misura di tutte le cose il suo volere è potere. Il Protestantesimo respinge l'organizzazione gerarchica della Chiesa, rifiuta l'insegnamento del Magistero e della Tradizione, il li­bero esame delle Scritture è sufficiente ad istruire i fedeli, la fede, senza le opere, basta a salvare l'anima. Si spezza la mirabile sintesi tra fede e ragione operata dalla filosofia scolastica ed in particolare da S. Tommaso, viene a mancare, con la frattura tra soggetto e oggetto posta dal cogito cartesiano, la giusta soluzione del problema della verità e della conoscenza, fornita dal realismo critico, la nuova soluzione verrà fornita dall'idealismo che, basandosi sul rifiuto del reale, che vien fatto diventare un prodotto dell'io, aprirà le porte agli esiti rivoluzionari e devastatori della ragione impazzita.

Qui mi soffermerò solo su quella che è la tappa che apre le porte al processo rivoluzionario nel campo della politica, dopo che la Riforma le aveva aperte in campo religioso, il liberalismo.

Bisogna però premettere alcune considerazioni sulla Monarchia assoluta, che per certi versi spiana la strada al liberalismo. Già Tocqueville aveva osservato che la Rivoluzione francese e Napoleone I, dal punto di vista amministrativo, non avevano fatto altro che por­tare a termine l'opera di centralizzazione iniziata da Luigi XIV. L'assolutismo tende a distruggere la piramide dei corpi intermedi e le au­tonomie locali, che erano il sostegno della Monarchia tradizionale. Il volere del Re ha la pretesa di essere fonte della legge al di sopra della Tradizione, i Sovrani si alleano con la borghesia per diminuire í po­teri dell'aristocrazia. Quando la borghesia si sentirà abbastanza forte scatenerà la Rivoluzione (35). Nella Monarchia assoluta i principii che legittimano l'esercizio dell'autorità restano gli stessi della Monarchia tradizionale, in primo luogo il diritto divino, ma da un lato nei paesi protestanti viene a mancare la dottrina religiosa che ne assicu­ra la preminenza nella società (il protestantesimo, a seconda delle set­te e delle epoche, sarà veicolo dell'assolutismo e poi del liberalismo), dall'altro scompaiono o perdono di effettivo significato quelle istitu­zioni che caratterizzavano la società organica. La facciata è quasi la stessa, ma l'edificio è mutato all'interno. Con il dispotismo illumina­to, nel '700, saranno poi gli stessi sovrani ad aprire le porte alla filo­sofia dei "lumi". Tutto ciò non deve comunque far dimenticare che i fondamenti della Monarchia assoluta sono più conformi a verità e giustizia dei fondamenti delle repubbliche democratiche e che il pote­re del Monarca assoluto era molto più limitato di quanto si creda e comunque senz'altro più limitato di quello delle democrazie contem­poranee, giustamente definite totalitarie.

Vediamo qual è l'essenza del liberalismo. Esso mette sullo stesso piano la verità e l'errore, il bene e il male. A buon diritto de Maetzu afferma che la menzogna è figlia del liberalismo. Secondo Kant ed Hegel, per valutare una azione non dobbiamo vedere se essa sia buona o cattiva, ma se l'agente è libero o no. Ma la realtà è che dalla libertà dell'agente non consegue necessariamente che l'azione sia buona.

Il liberalismo sostiene che la verità non esiste, o non può essere né data a priori né conosciuta. Ognuno avrà la sua verità. Ma la socie­tà non potrebbe più funzionare se non vi fosse una qualche autorità, solo che non può più essere un'autorità depositaria del vero, ma solo un arbitro. Il padre Taparelli d'Azeglio mostra molto bene le conseguenze di ciò: "Ben inteso che quando si sceglie l'arbitro, se ne accet­ta la sentenza pratica per necessità, senza legare l'intelletto a credere vera la sentenza specolativa. Si accetta la prima, perché la necessità sociale l'impone, si ricusa la seconda perché nella ragione privata una necessità contraria si oppone... Così l'arbitrato regola l'opera esterna e, materiale, lasciando liberi gli intelletti al di dentro a condannare dottrinalmente ciò che praticamente si eseguisce" (36).

E ancora: "Ammessa l'indipendenza piena ed eguale per tutti nel pensiero, nella coscienza, nell'opera, più non è possibile la società, se non si trova un arbitro a cui soggettarli. Quest'arbitro non può essere la verità, perché l'indipendenza del pensiero concede a ciascuno il di­ritto di credere vera la propria opinione. Non essendo legati gli uomi­ni dal diritto della verità, ed essendo pur necessario un vincolo di unità sociale, altro non rimane che la forza della pluralità. Ora la forza imposta senza i diritti del vero e del giusto è forza dispotica. Dunque ammessa la libertà eterodossa, ossia l'uguale indipendenza di tutti gli intelletti, la società non esiste se non con l'aiuto del dispotismo..." (37)

Naturalmente oggi solo un ingenuo può credere che in democra­zia sia veramente la maggioranza del popolo a decidere. Già Rousseau aveva detto chiaramente che la volontà generale non coincide necessariamente con la volontà della maggioranza. La libertà per il popolo finisce nel momento in cui esso osa mettere in discussione la Rivolu­zione (38).

 

 

Dice Cochin: "I principii sono la volontà del popolo a priori, se il popolo reale decide conformemente, bene, altrimenti il popolo delle società lo corregge" (39).

Per capire quanto odio dobbiamo avere per il liberalismo, basti riflettere su chi è il prototipo del liberale nelle Sacre Scritture: Ponzio Pilato. Leggiamo il Vangelo di S. Giovanni (18, 37 40; 19, 16): "Gli disse allora Pilato. 'Dunque sei re, tu?!'. Rispose Gesú: 'Tu lo di ci: io sono re. lo per questo son nato e per questo sono venuto nel mondo. per dar testimonianza alla verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce'. Gli dice Pilato: 'Che cosa è la verità?' ". Ecco il dubbio liberale. "E detto questo usci di nuovo verso i Giudei e disse loro: 'lo non trovo in lui alcun motivo di condanna. Ma è per voi con­suetudine che io vi rilasci qualcuno in occasione della Pasqua. Volete che vi rilasci il re dei Giudei?' ". Il dubbio liberale risolto con la pras­si democratica. Ma c'è di peggio. Pilato sa che cos'è male, ma non vi si oppone. "Pilato dice loro: 'Prendetelo voi e crocifiggetelo! lo non trovo in lui alcun motivo di condanna' ". È il prototipo del conserva­tore benpensante, cosa ben diversa dal contro-rivoluzionario, che sa bene che cosa è male, lo disapprova, ma non fa nulla per reprimerlo, o per quieto vivere o perché, da buon liberale, lo mette sullo stesso piano del bene, riconoscendogli uguali diritti.

Farei torto all'intelligenza dei lettori se mi attardassi a dimostra­re che il liberalismo è solo una tappa sia verso il capitalismo totalita­rio sia verso il comunismo e le estreme conseguenze, nelle tendenze, nelle idee, nelle istituzioni, del processo rivoluzionario. Il totalitari­smo degli stati moderni è anche conseguenza del loro laicismo, defini­to da Pio X l "peste della età nostra", del loro rifiuto di sottomettersi ad una finalizzazione religiosa trascendente per erigersi essi stessi a re­ligione puramente umana. La laicità del cristiano in politica non ha senso, se si crede in valori superiori ed eterni, essi devono ispirare la nostra condotta in ogni momento.

32)     Allocuzione del 17-6-1793 al Concistoro sull'uccisione di Luigi XVI da parte dei rivoluzionari francesi.

33)     Discorso alle Cortes spegnole del 30-1-1850, cit. in P. Siena (a cura di), Do-noso Cortés, ed. Volpe, 1966, pp. 87-88.

34)     Leone XIII, enciclica Au milieu des sollicitudes, 16-2-1892; S. Pio X, lette­ra apostolica Notre Charge Apostolique, cit.; Pio XII, Radiomessaggio del S. Natale 1944.

35)     L'Inghilterra, dove aristocrazia e borghesia furono unite nel limitare i pote­ri del Sovrano, ha avuto una diversa evoluzione.

36)     Da Civiltà Cattolica, anno 1860, ora in La libertà tirannia, ed. di Restaura­zione Spirituale, 1960, p. 34.

37)     Ibidem, p. 38-39.

38)     Ad esempio in Italia le leggi Scelba e Reale puniscono il vilipendio della de­mocrazia!

39)     Op. cit., p. 146.

lunedì 18 luglio 2022

Capitolo XIII: Il fiume e la storia di Vittorio.


 di Emilio Del Bel Belluz


 Da qualche anno avevo sposato la donna della mia vita: Elena. Il tutto si era deciso in poche settimane, non potevo aspettare oltre, l’amavo e volevo passare ogni momento della mia vita con lei. Il mestiere che continuavo  a fare era quello del pescatore,  la mia passione che sebbene dura e difficile mi dava da mangiare. In quel tempo avevo trovato una barca un po’ più grande, una pilotina che un pescatore di Caorle mi aveva venduto. La piccola imbarcazione aveva sempre solcato il mare ed era stata  costruita dal venditore che sapeva fare tutto nella vita. Ricordo che mi narrò d’aver imparato a nuotare da bambino, perché suo padre pescatore viveva in una casa assai umile vicino al mare che amavano e che li aveva fatto comprendere che non vi era altra possibilità di sostentamento che non provenisse dal mare. Il pescatore che si chiamava Ernesto e che da un po’ aveva superato la soglia dei settanta anni, mentre mi parlava aveva la pipa in bocca dalla quale elevava al cielo delle  nuvolette di fumo, l’odore di quel tabacco era molto forte. Forse aveva mescolato del tabacco da pipa assieme a qualche vecchio sigaro. Ogni tanto mi guardava e continuava a raccontare che  non aveva mai lasciato il mare, neppure per un giorno. Anche nei momenti in cui era ammalato, dalla finestra della sua camera ne respirava il profumo. Da bambino aveva seguito il padre in ogni posto dove andava, e da lui aveva imparato a lavorare il legno per costruire delle barche. Dietro la piccola casa dove vivevano, c’era una baracca dove il padre teneva gli  attrezzi della pesca.  Vi era anche un banco da lavoro  molto vecchio,  dove il padre faceva dei lavori di riparazione sulla barca, e dove aveva costruito quella che avevo comperato. L’uomo  aveva una barba bianca e  continuava a fumare, con il cappello da marinaio calato sopra la fronte. Aveva tanta voglia di raccontarmi della barca che mi aveva venduto. Si capiva molto bene che era dispiaciuto nel cedermela e per questo continuava a parlarmene. Aveva appreso ogni segreto del mestiere del pescare e su come affrontare le difficoltà che presentava da suo padre, perché la scuola migliore è sempre quella che si impara dalle persone che si amano e lui suo padre lo aveva amato molto. Quando era piccolo gli dava quella  protezione che ogni bambino abbisogna. Con il tempo, carpendo ogni gesto del padre, imparò a fare il falegname e a rammendare le reti. La barca che mi aveva ceduto era quella a cui era molto affezionato. Non lo aveva mai tradito e nella quale più volte aveva dormito nei momenti in cui aveva dovuto stare del tempo in mare. In quegli anni difficili aveva lavorato con il padre fino alla sua morte. Costui, quando era diventato vecchio,  non poteva più salire in barca, ma osservava dalla finestra a forma di oblò della sua casa il figlio che partiva la mattina presto per andare a pesca.  L’uomo, comunque, non rimenava con le mani in mano, ma si metteva fuori dalla casa a rammendare le reti. Ogni tanto lo veniva a trovare qualche suo amico  e con lui se ne andava al vecchio ritrovo dei pescatori a bere del vino e a ricordare i vecchi tempi. Il vecchio mi descriveva la figura del padre come se lo avesse davanti.  Quel giorno che doveva consegnarmi la sua barca, lo aspettavo assieme a Elena che non vedeva l’ora di vedere la nuova imbarcazione. Ad un certo punto lo vidi sbucare dalla nebbia, mi sembrava che avesse spento il motore e non si volesse avvicinare alla riva dove lo attendevo. Anche Elena aveva avuto la mia stessa impressione, l’uomo si era fermato poco distante dalla riva e osservava il fiume come se osservasse il mare. Forse s’era pentito di vendere la barca, ed era stato preso dalla malinconia di cedermela; con essa aveva solcato il mare tutta la sua vita, guadagnandosi da vivere. Il pescatore che aveva il volto del lupo di mare rimase almeno una mezz’ora a osservare la nebbia. Si era acceso la pipa, e scrutava il fiume, pensai che avesse perduto la ragione e che volesse tornare a Caorle. Dopo mezz’ora  mise in moto il motore e si diresse alla casa dove lo attendevo. Lo aspettai con Elena proprio alla riva. Finalmente ero sicuro che avrei potuto disporre di quella barca. Mentre lo vidi pensai ad un proverbio che un vecchio mi aveva insegnato e che diceva: “ E’ dolce invecchiare con l’animo onesto, come in compagnia di un uomo dabbene”.   Mentre scendeva dalla barca compresi che anche lui era invecchiato con il cuore onesto. Da quel giorno, e per qualche settimana, il vecchio lupo di mare rimase ospite da noi. Aveva accettato di insegnarmi ad usare la barca e a spiegarmi come si riparava il motore. Il vecchio si sentiva felice nell’elargire i suoi insegnamenti, gli sembrava che il separasi dalla sua imbarcazione fosse meno doloroso. In quei giorni il suo volto era sereno come quello di chi vuole assaporare le novità che la vita propone. Andavamo a pesca insieme e mi insegnava come calare le reti con un barca più grande.  I risultati si fecero subito vedere: il pescato era più abbondante.  Alla sera venivano a trovarci  Genoveffa e la maestra che da tempo ormai si era abituata alla vita di paese. In quelle sere, dopo cena, si stava a parlare davanti al caminetto. Sorseggiando del buon vino, l’uomo raccontava le sue storie. Una sera, mentre mangiavamo un grosso pesce catturato con una fiocina lungo la riva, si trattava di una grossa trota, raccontai che un giorno di primavera mentre stavo andando a pesca, arrivò una macchina scura, di quelle molto lussuose, e vi scesero un uomo molto basso e una donna piuttosto alta e magra. Ad accompagnarli vi erano alcuni militari. Dalla barca supposi che stesse succedendo qualcosa di importante; non credei  ai miei occhi: si trattava della regina Elena e del re Vittorio Emanuele III. Si  avvicinarono alla mia barca e mi chiesero se potevo portarli a pescare. Il mio volto era pallido e  commosso e non riuscii a proferire nessuna parola, sembravo come impietrito. Avevo  sempre saputo che i sovrani amavano molto la pesca,  lo avevo appreso dai giornali. La persona a cui mi inchinai per primo fu la Regina Elena che salì sulla barca come se non avesse fatto altro nella sua vita. Rimasi colpito dalla sua semplicità e dalle parole che mi disse. Il sovrano prese subito posto nella barca e si sedette, aveva il viso stanco. Da tempo non salivano su una barca e per questo lo desideravano ardentemente. Allora mi avviai con l’imbarcazione nei punti dove avevo calato delle reti, la regina osservava tutto attentamente. Avevo l’impressione che avesse passato la vita lungo il fiume. La Sovrana  mi chiese se ero sposato, cosa facessero i miei figli e se avessi vissuto sempre vicino al fiume. La giornata di pesca con la coppia reale fu molto soddisfacente. Con molta fortuna riuscii a catturare alcuni pesci di grandi dimensioni. Quando tiravo su la rete la regina voleva a tutti i costi aiutarmi, e io mi sentivo a disagio; il Re invece se ne stava seduto a osservare il fiume, come se fosse un capitano di una barca. Le ore trascorse erano state così emozionanti, che mi sembravano irreali ed il volto dei sovrani mi rimase sempre scolpito nella memoria. Quando li riportai a riva, la sovrana mi chiese di poter tenere quello che avevamo pescato in cambio di una ricompensa in denaro, che cercai di rifiutare, ma inutilmente. Alla conclusione del nostro incontro ebbi solo la forza di dire che avrei dato il nome di Regina Elena alla mia barca.  La sovrana sorrise e mi ringraziò. Dopo che se n’erano andati, sopraggiunse un giornalista in bicicletta  che era molto interessato alla giornata trascorsa con i reali e il giorno dopo pubblicò un lungo articolo corredato dal disegno della barca con i sovrani che pescavano. Avevo acquistato più notorietà tra le gente del posto e molti mi cercavano per sapere cosa era veramente accaduto quel giorno.  Nella casa dove vivevo, su una parete avevo appeso l’articolo apparso nel giornale. La famiglia Savoia non abbandonò più la mia vita.

venerdì 15 luglio 2022

Giuseppe Prezzolini a quarant’anni dalla sua morte

di Emilio Del Bel Belluz 



Giuseppe Prezzolini era nato a Perugia il 27 gennaio 1882 ed è morto a Lugano il 14 luglio 1982. Quello che ho avuto di più bello nella vita sono i maestri che ho conosciuto attraverso i loro libri. Mi innamorai della storia della sua vita quando lessi per la prima volta il suo libro ​ L’Italiano inutile che mi entusiasmò fin dalla prime pagine. Aveva affrontato la sua esistenza con coraggio e​ determinazione. Lo scrittore, assieme al suo amico Giovanni Papini, fondò alcune riviste letterarie, quali Il Leonardo nel 1903 e​ La Voce nel 1908. In un tempo come il nostro dove non esistono che sfide pianificate dal pensiero unico, uomini come Papini e Prezzolini sarebbero fondamentali se si rileggessero i loro scritti. Un tempo Prezzolini per mantenere la sua autonomia di scrittore non cedette ​ alle lusinghe di Mussolini che gli era amico e allo stesso tempo riconoscente perché gli aveva dato spazio ai suoi scritti nella Voce. Mussolini aveva proposto allo scrittore di estendere la sua biografia, ma questi non accettò, quasi sfidando il Duce, e mostrandosi, altresì, disponibile a fare anche una biografia su Stalin. Prezzolini aveva intuito con grande anticipo ​ la fine del fascismo, perché conosceva molto bene la volubilità degli​ italiani. Dopo il rifiuto di scrivere la biografia del Duce, cosa che nessun intellettuale si sarebbe mai sognato di fare, volle partire per l’America. In questo stato gli fu assegnata una cattedra ​ alla Columbia University di New York dal 1927 al 1962, insegnando con grande successo. Gli americani non avevano tenuto conto che il Maestro non aveva neppure finito le scuole superiori, e che quindi non aveva una laurea da mostrare. La sua cultura acquisita da autodidatta, era talmente grande e profonda che aveva suscitato l’invidia negli accademici d’Italia che avrebbero gradito la sua espulsione dall’università americana. La figura di questo scrittore è tuttora poco conosciuta, perché confinata dall’odio degli intellettuali di sinistra che lo accusano di essere stato un fascista, in quanto amico di Mussolini ed uomo di idee conservatrici. Gli scrittori di destra, tra cui Prezzolini,​ non trovavano spazio nei giornali e nel mondo editoriale imperante, ma si dovevano accontentare di pubblicare i loro scritti nelle piccole case editrici, ​ tra cui​ quella legata al giornale Il Borghese . Un​ quindicinale fondato nel marzo del 1950 da quel galantuomo di Leo Longanesi e tra le prima penne che vi scrissero ​ fu proprio Giuseppe Prezzolini, assieme ad altri scrittori come Indro Montanelli. Giovanni Spadolini, Ernst Junger, Henry Frust, e Giovanni Ansaldo.​ Nomi molto importanti della nostra cultura che pochi anni dopo la seconda guerra mondiale, si ritrovarono. Si pensi che lo scrittore tedesco Ernst Junger dopo la fine del conflitto gli avevano vietato di pubblicare i suoi scritti, addirittura Indro Montanelli scrisse che il suo nome era stato fatto a Norimberga. La storia degli intellettuali di destra è scritta con una penna difficile, il cui graffio sulla carta era un inno di libertà.​ Prezzolini pur sapendo di pagare un duro tributo non abbandonò le proprie idee per mettersi al soldo della politica. Il fatto di essere uno scrittore libero era più grande di mille doni che la vita​ poteva dargli. Negli Stati Uniti d’America visse venticinque anni, alcuni intellettuali come Indro​ Montanelli gli chiesero di tornare in Italia, ma non lo fece. Quando la vecchiaia gli acconsentiva ancora uno spiraglio di vita autonoma decise di andare a vivere in Svizzera, dove abitò fino all’ultimo giorno della sua vita. Pur essendo ateo, si fece assistere da una suora, che scrisse molte testimonianze su di lui. Un forte legame ​ l’aveva con il papa Paolo VI, con il quale aveva intrecciato una fitta corrispondenza nella quale l’argomento principale era la fede. Prezzolini non credeva in Dio, e il papa lo esortava a riflettere che Dio l’aveva scelto lo stesso. Prezzolini invidiava quelli che avevano fede, che credevano in Dio, li reputava delle persone molto fortunate. Costoro avevano un qualcosa che lui non possedeva: la fede che garantisce a quelli che credono la salvezza eterna. Non so se davanti alla morte il buon Prezzolini abbia pensato a quello che il papa gli aveva detto, ma la sua conversione avrebbe potuto avvenire davanti al crocefisso. Giuseppe Prezzolini aveva previsto il futuro della nostra società occidentale, ancora cinquant’anni fa.​ Lo esprime in un suo scritto apparso nell’ultima parte del ​ libro Manifesto dei conservatori. ​ “ Qualcuno dirà: non è l’ora del conservatore, ma di andare avanti … proprio l’opposto. Oggi è l’ora della conservaz­ione … L’uomo sta co­nsumando le risorse della terra . L’uomo sta vivendo in mani­era malsana. L’uomo ha creato le grandi città per suo diletto e ci ha trovato il suo danno … si è da­ta troppa libertà al­la fabbrica, alla ma­cchina, al lusso… il mondo rischia di es­sere inabitabile … l’uomo ha avvelenato l’aria , l’acqua, la terra … ecco perché la parola conservaz­ione diventa di moda. Dai libri, dai gio­rnali, dalle cattedre ci dicono conservi­amo: … Ma non è lo stesso anche in polit­ica? In tutti i paesi le masse dimostrano di non saper scegl­iere e di non saper volere insieme. Come si è distrutto il bosco, come si è sper­perata​ l’acqua così si regale denaro pubblico a intere cat­egorie allo scopo di farle tacere per un momento… C’è chi di­ce che i conservatori non hanno un progr­amma corrispondente al bisogno di nuove situazioni. Mi pare che ci siano suffici­enti ragioni per giu­stificare un movimen­to conservatore . Do­vrebbero incoraggiar­lo anche i governanti per non essere alla mercé dei loro sos­tenitori…​ Un conse­rvatore che sostenes­se il ritorno ad ant­iche tradizioni pote­rebbe sembrare e sar­ebbe un innovatore”.

mercoledì 13 luglio 2022

Le tante vite di Maria José, “regina di maggio”

 


La “Regina di maggio” che emerge dalle pagine della biografia di Luciano Regolo, Maria José. Regina indomita (Ares, 2022) è una donna troppo, troppo  moderna, per i suoi tempi. L’ampio volume, corredato da un invito alla lettura di Maria Beatrice di Savoia, dalla prefazione di Francesco Perfetti e dalla postfazione di Donatella Bolech Cecchi, offre il ritratto di una donna che, nella sua lunga esistenza (nata nel 1906 a Ostenda, in Belgio, morì in Svizzera nel 2001), ha attraversato tante vite diverse.

 

E il volume queste età le rievoca tutte nel dettaglio, a partire dall’infanzia, definita Gli anni felici del “leoncino” di Laeken (leoncino per la criniera di capelli ricci), sino al tempo della formazione al collegio fiorentino di Poggio Imperiale, per arrivare al matrimonio con il futuro Umberto II – anche se Regolo analizza con molta acribia i retroscena di quell’unione (Capitolo IV. Maintenant, c’est fait. Un sogno d’amore e le sue verità nascoste) –, e poi agli anni della guerra e quelli dell’esilio, della vecchiaia in Messico e, infine, del ritorno in Svizzera, quando Maria José coltivò la passione per la storia e la scrittura.

 

Umberto parlò sempre con grande stima e affetto di Maria José, ma, dall’unione con quel compagno di vita che le era stato destinato fin da quando era undicenne, la “Regina di maggio” ricevette, se volessimo fare un bilancio, più amarezze che gioie, vuoi per il contesto politico dell’Italia fascista, vuoi per la natura introversa e tormentata del marito, vuoi per le consuetudini della famiglia Savoia, dove, si diceva, “si regna uno per volta”. Suo malgrado, il Principe non poté renderla felice, e, giorno dopo giorno, si infranse l’aspettativa di quell’attrazione, coltivata fin da quando la regina era bambina.

[...]

https://www.ilsussidiario.net/news/storia-le-tante-vite-di-maria-jose-regina-di-maggio/2372590/

domenica 10 luglio 2022

Capitolo XII: La vita cambia ancora una volta.


di Emilio Del Bel Belluz

 

   Erano giorni che non vedevo Genoveffa, e temevo che stesse male. Pertanto decisi di andare a trovarla, e con mia grande sorpresa incontrai Silvana, la maestra di cui avevo sentito parlare tante volte. Si presentò sorridendomi, era una bella giovane e provai subito simpatia per lei. In casa non c’era Genoveffa, era andata a Motta dal medico, nulla di grave disse subito Silvana. Le raccontai chi ero, ma sapeva già tutto di me. Genoveffa le aveva detto che si occupava di un giovane al quale erano mancati i genitori, e sottolineò che mi voleva molto bene, quasi come una mamma. La maestra volle subito annunciarmi che da qualche giorno aveva iniziato ad insegnare nella scuola del paese, e il primo impatto era stato positivo. Gli studenti erano tanti, ma la sua passione di insegnare era inesauribile. Raccontò che veniva da un paese che costeggiava il fiume più grande d’Italia: il Po ed era nata sentendo il suo profumo. 

La sua famiglia era piuttosto povera, i suoi genitori lavoravano dei campi che avevano avuto in affitto, e quel poco che guadagnavano le aveva permesso di studiare. Il loro sacrificio era stato incommensurabile, e non avrebbe mai potuto in nessun modo dimenticarlo. La maestra volle offrirmi una limonata, come era d’uso nelle giornate calde ed afose. La nostra conversazione continuò finché non giunse a casa Genoveffa.  La donna si stupì nel trovarmi e disse che il medico l’aveva in qualche modo rasserenata, non trattandosi nulla di grave. Le chiesi che ero preoccupato per non averla più sentita. Genoveffa fece una grande risata, dicendo che troppe cose erano successe e che aveva dovuto far conoscere la maestra ai genitori degli scolari. Genoveffa l’aveva pure aiutata a riordinare dei libri della piccola biblioteca della scuola che da troppo tempo non venivano utilizzati e si presentavano pieni di polvere. La vecchia maestra aveva trascurato i libri e molti erano stati rovinati.  Alcuni dovettero essere buttai via. Entrambe avevano cercato di sistemare la scuola, facendo delle pulizie a fondo, essendo assente in quei giorni la bidella.  

Qualcuno, mentre la scuola era stata chiusa, aveva rubato alcuni oggetti indispensabili per l’insegnamento e Genoveffa era dovuta andare in paese a comperarli a sue spese. Silvana non aveva perso tempo e le lezioni erano iniziate con regolarità. Poi il parroco le aveva parlato di alcuni bambini che appartenevano a delle famiglie molto povere e che avevano delle difficoltà d’apprendimento. Costoro necessitavano d’essere seguiti con maggior attenzione. Allora Genoveffa decise di ospitarli alcuni giorni alla settimana a casa sua, per delle ripetizioni che Silvana li avrebbe dato. I bambini non avevano un posto dove andare dopo la scuola e la buona Genoveffa li invitava a mangiare da lei. Tutti quegli impegni le avevano impedito di venire a trovarmi. Allora dissi che la mia casa lungo il fiume mancava del suo tocco femminile. Raccontai che ero uscito negli ultimi giorni con la barca senza aver conseguito nessun risultato, e questo mi aveva fatto riflettere se la pesca fosse la mia strada.  Dissi che mi ero incontrato con Elena che era sempre molto felice nel vedermi. Sua madre aveva trovato un lavoro come cuoca in una famiglia del paese, ed era contenta di poter guadagnare qualcosa. 

La madre di Elena si era affezionata a me, e me lo dimostrava spesso con degli atti di cortesia. Aveva, inoltre, deciso di ristrutturare una piccola stalla dove avrebbero trovato riparo degli animali da cortile. Prima di congedarmi da Genoveffa, Silvana mi regalò un libro di quelli che aveva scartato.  Si trattava di un testo che poteva essermi utile perché narrava la storia di una famiglia di pescatori che viveva lungo il Po. Nell’andarmene Genoveffa mi disse che sarebbe tornata nei prossimi giorni a casa mia per darmi una mano. Salutai con affetto le due donne e mi dispiaceva andarmene perché   in quelle ore mi ero dimenticato di tutte le mie preoccupazioni e promisi che ci saremmo rivisti presto. Mi avviai verso casa entusiasta del libro regalatomi, era come un piccolo tesoro.   Non avevo nessuna voglia di dormire, allora mi misi a riparare la copertina rovinata incollando dei ritagli di cartone con la colla di pesce.  Ottenni un buon risultato, e poi gli misi una copertina di carta nera come rivestimento. Con una penna scrissi il titolo del libro: Il pescatore e il suo cuore. Dalla finestra aperta entrava una lieve brezza, m’avvicinai e potei ammirare la luna che si specchiava sul fiume. 

Pensavo ad Elena, sicuramente stava leggendo o lavorando a maglia per prepararmi un maglione che mi avrebbe donato per il mio compleanno. La sua voglia di fare era davvero sbalorditiva, non perdeva mai un momento, e si metteva in testa una cosa la realizzava e questo maglione nero lo voleva ultimare affinché mi proteggesse dal freddo quando uscivo con la barca. Presi in mano il libro sulla cui copertina era disegnata una grande barca da pesca, con un vecchio ed un ragazzo seduti vicino. 

La lettura fu molto piacevole ed interessante. Narrava la storia di una famiglia che viveva con i proventi della pesca. Il padre che era invecchiato con la rete tra le mani, aveva deciso che suo figlio sarebbe diventato pure lui un pescatore, motivando che non aveva molta voglia di studiare. Il ragazzo apprendeva velocemente l’arte della pesca.  Il padre aveva in serbo anche un’altra idea. C’erano vari pescatori che lavoravano duramente tutta la giornata, ma la vendita del loro pescato non era sufficiente per arrivare a fine mese. Una sera il padre del ragazzo che si chiamava Franco volle proporre a questi pescatori di unire le loro forze e di comperare una barca più grande per lavorare tutti insieme. Lo scopo era quello di lavorare nel fiume con più sicurezza, ma di potersi spingere fino al mare, restandovi anche per dei giorni.  

Quella sera all’osteria il vecchio era riuscito a convincerli a fare questo passo, quello che lui proponeva era la fondazione di una cooperativa di pescatori. La proposta fu ben accolta da tutti. Quando raccolsero il denaro sufficiente per l’acquisto della barca mandarono il vecchio a Caorle per acquistarla.  I pescatori avevano una grande fiducia in lui, e lo lasciarono partire con la massima tranquillità. L’uomo arrivò a Caorle di buon’ ora per incontrare il venditore della barca. Ma essendo arrivato in anticipo, entrò in un’osteria dove si mise a giocare a carte, e bevendo qualche bicchiere di troppo, perse tutto il denaro che aveva ricevuto per l’acquisto della barca. Aveva compiuto qualcosa di grave e non poteva più tornare in paese. La moglie e il figlio lo aspettarono invano, assieme ai pescatori, che pochi giorni dopo, vennero a conoscenza dell’accaduto.  I suoi familiari non avevano più il coraggio di farsi vedere in giro; il figlio si nascose per delle settimane in una boscaglia. Poi ritornò in paese per porgere le scuse per quello che il padre aveva fatto e cedere la sua barca come primo risarcimento. Successivamente avrebbe lavorato sodo per restituire il denaro perduto al gioco dal padre. I pescatori, anche se uomini rudi, compresero che la moglie e il figlio non avevano colpa.  

La moglie di un pescatore si occupò della moglie del vecchio temendo che si annegasse dal dolore. Volle andare a vivere con lei, cercando di allontanarla da quei terribili pensieri. La donna non riusciva a capacitarsi e qualche mese dopo morì di crepacuore, questo fu la diagnosi del medico che l’aveva curata gratuitamente. A nulla erano valse anche le frasi del curato per non farla sentire in colpa. Al funerale della donna c’era l’intera comunità, e il parroco ripeté con enfasi più volte di non provare nessun rancore per il male fatto dal marito; le colpe le aveva pagate e saldate la donna e il figlio. Il ragazzo era dunque rimasto solo, non aveva più nessuno su cui poter contare, solo la Divina Provvidenza era ancora dalla sua parte.