NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 19 settembre 2023

VITTORIO EMANUELE III E LA GUERRA DI LIBERAZIONE


di Aldo A. Mola

Dalla resa senza condizioni (Cassibile, 3-8 settembre 1943) a quella dei tedeschi in Italia (Caserta, con effetto dal 2 maggio 1945) l'Italia si trovò nella tenaglia di diverse guerre: gli anglo-americani da una parte e i tedeschi dall'altra, le aspirazioni dei francesi a valicare le Alpi occidentali e possedere Valle d'Aosta e parte del Piemonte, le rivendicazioni e l'avanzata degli jugoslavi sul confine orientale e, infine, la contrapposizione tra il governo del Re, riconosciuto dalle Nazioni Unite, quello della Repubblica sociale e il movimento di liberazione, dalle molteplici componenti, talora subordinate a direttive di Stati in guerra contro l'Italia. Fu il caso del Partito comunista italiano.


La riorganizzazione del Regio Esercito

In quel groviglio il Re e il suo governo dettero impulso, direttamente e indirettamente, alla lotta di liberazione del territorio nazionale dagli occupanti germanici e dai loro alleati interni. Lo scontro armato tra reparti del regio esercito e tedeschi iniziò il 9 settembre a Roma, nelle Puglie e in molte città dell'Italia centro-settentrionale: un ventaglio di battaglie troppo a lungo dimenticate a vantaggio della narrazione secondo la quale i primi e gli unici a combattere contro i tedeschi e i fascisti repubblicani sarebbero stati i nuclei di partigiani. Ripercorrere i “fatti” non significa certo sminuire il valore morale e anche militare delle scelte compiute dall'antifascismo, dalle prime “bande”, dalla “resistenza” e dalla “guerra partigiana” prima e dopo il suo riconoscimento da parte del governo del re.

Il giorno stesso del trasferimento del sovrano, del principe ereditario, di Badoglio, del comandante supremo Vittorio Ambrosio e dei capi di stato maggiore delle tre armi la Capitale fu teatro di conflitto tra militari e tedeschi. Tra i più coraggiosi e determinati furono i Granatieri di Sardegna che, anche senza “ordini superiori”, si batterono per l'Italia.

Sempre il 9 settembre il generale Nicola Bellomo, da poco al comando della piazza di Bari, guidò di persona la lotta contro circa 300 guastatori germanici per il controllo del porto e prevalse con l'aiuto del LI battaglione Allievi ufficiali bersaglieri, imponendo al nemico la capitolazione e la ritirata. Lo stesso giorno iniziò a Taranto lo sbarco della I divisione inglese aerotrasportata. L'11 settembre 1943, a Barletta, il comandante della piazza Francesco Grasso affrontò i germanici, che prevalsero, lo costrinsero alla resa, trucidarono civili e ne rimasero padroni sino al 24. Nel frattempo il generale Antonio Basso, comandante delle forze italiane in Sardegna, impose ai tedeschi l'evacuazione dall'isola, con scontri e caduti da entrambe le parti, in specie nei pressi di Oristano e alla base navale della Maddalena. Di concerto con i partigiani della Corsica e poi con truppe di “Francia libera” sbarcate nell'isola il generale Giovanni Magli affrontò i tedeschi in aspri combattimenti (29 settembre-4 ottobre), costringendoli alla resa o all'imbarco verso il continente.

Pochi giorni dopo l'arrivo a Brindisi sia il Re sia il principe ereditario Umberto di Piemonte passarono in rassegna corpi dell'esercito. Il 18 settembre Badoglio chiese di affiancare reparti italiani contro i tedeschi, ma cozzò contro il rifiuto anglo-americano. Il 28 settembre, vigilia della notifica a Malta dell'“armistizio lungo” da parte del generale Eisenhower, fu costituito il I Raggruppamento motorizzato di 5.000 uomini agli ordini del generale Vincenzo Dapino, a fine gennaio 1944 sostituito dal generale Umberto Utili. La riorganizzazione dell'esercito fu accelerata con la dichiarazione di guerra alla Germania (13 ottobre) e il conseguente riconoscimento dell'Italia quale cobelligerante. Caduto prigioniero degli inglesi in Tunisia, su sollecitazione del Re (che lo aveva avuto aiutante di campo) e richiesta di Badoglio agli Alleati, il maresciallo Giovanni Messe ​venne rilasciato e guidò la riscossa in veste di capo di stato maggiore generale, affiancato dal generale Paolo Berardi quale capo di stato maggiore dell'esercito.

Guerra di liberazione

A lungo è stato affermato che il Re fu riluttante a dichiarare guerra contro la Germania. In una lettera “segreta” del 2 ottobre 1943 (classificata 1854/Op) fu invece il comandante supremo Ambrosio a esprimere pesanti riserve al ministro della Real Casa Pietro d'Acquarone. «I vantaggi degli Alleati per la nostra dichiarazione d'armistizio – egli scrisse – sono stati di per se stesso enormi. [...] Inoltre la nostra  collaborazione  in  questo  mese  è   stata  della  massima  intensità  [...]  senza   nessuna contropartita, salvo la promessa di attenuare le condizioni di pace. La rottura delle relazioni col Giappone è da escludere. Se a noi è permesso, al massimo, di essere cobelligeranti, vuol dire che possiamo collaborare per cacciare i tedeschi dal nostro suolo, ma non abbiamo nessuna ragione di combattere i giapponesi. Per questo occorrerebbe una vera alleanza politica, che non è concessa.»

Data   l'estrema   debolezza   delle   forze   disponibili, la   dichiarazione   di   guerra   sarebbe   stata «semplicemente   platonica».   Gli   anglo-americani   avevano   agito «senza   alcun   riguardo» e «genera[ndo] una crisi gravissima in Italia e nei Balcani. Dobbiamo evitare – annotò d’Acquarone – che si ripeta questo passivo senza contropartita».

Sin dall'incontro con Badoglio a Malta, il generale Eisenhower aveva sollecitato il governo italiano a dichiarare guerra alla Germania, sia per accattivarsi l'opinione pubblica nel campo alleato,  sia per tutelare i militari caduti prigionieri dei tedeschi, che, diversamente, li avrebbero trattati «da franchi tiratori e, come tali, sottoposti ad esecuzione sommaria». Con molto realismo il “capo missione” Noel Mason Mac Farlane osservò che sarebbe stato «necessario servirsi di alcuni uomini che erano stati in passato associati con il fascismo dato che esso era durato vent’anni». Chi non aveva avuto la tessera del PNF o non aveva tributato qualche omaggio al regime? La classe dirigente (non politica ma anche solo “ amministrativa”, di industrie, banche, aziende pubbliche e private) non si improvvisa dall'oggi al domani. Non si poteva fare nell'Italia i cui docenti universitari, tranne una dozzina, avevano giurato fedeltà al regime. Dal canto suo Badoglio dichiarò che il Re intendeva «invitare i capi dei diversi partiti – cioè i partiti politici – così come si sono ora costituiti in Italia, con speciale riferimento a quelli che hanno la maggiore influenza sul popolo» e avrebbe dato al governo «un carattere liberale». Come “militare” precisò che non si intendeva di partiti e di politici.

Dal settembre 1943 la ricostruzione del regio esercito fu la premessa per rinsaldare l'autorità del governo nelle province poste sotto il suo immediato controllo. Però il sovrano, il principe ereditario e le forze dell'ordine registravano quotidianamente la diffidenza e le soperchierie degli Alleati contro i militari italiani e la popolazione civile. Soldati inglesi, spesso “alquanto avvinazzati”, strappavano il tricolore da edifici pubblici, irrompevano in postriboli picchiando a sangue quanti vi si trovavano. Nel caffè “Roma” di Mola di Bari un inglese “alquanto brillo” sputò sul ritratto del Re. 

Un altro infranse quello di Badoglio. Per “contenere” gli inglesi, autori di rapine e violenze d'ogni genere, gli alpini usarono le mani e i carabinieri le armi. Ma la prevaricazione era pressoché quotidiana. Il Comando dell'esercito dispose pertanto che la sorveglianza sull'ordine pubblico fosse affidata a pattuglioni di otto uomini perché le pattuglie tradizionali venivano sopraffatte da militari “alleati”. 

Il 6 dicembre 1943 la Regina Elena vide di persona automezzi inglesi investire intenzionalmente civili e sollecitò indennizzi (Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Governo del Sud, 1943-1944, Casa Reale).

La lotta per la riaffermazione della sovranità nazionale era una schermaglia quotidiana. La riscossa passava anche attraverso gesti emblematici. L'11 novembre, per esempio, Badoglio ordinò ai prefetti di esporre il tricolore per festeggiare il genetliaco del Re. Risalire la china impegnava sul fronte delle armi come nella vita civile. Allo scopo tra Alleati e Comando dei carabinieri si convenne la necessità di distinguere tra chi era stato fascista “per costrizione” (la tessera del partito era stata tutt'uno con quella “del pane”) e i fanatici del regime. Venne deliberata la formazione di “comitati” civici composti da un ufficiale dei carabinieri, un podestà, un magistrato, un sacerdote (“se di sicuri sentimenti”) e da alcuni cittadini “equi ed imparziali”. Il colonnello dei carabinieri Romano dalla Chiesa ricordò in un rapporto del 4 novembre che la resistenza ai militi dell'arma era“delitto grave”; al tempo stesso vietò l'uso di bombe a mano contro i dimostranti. Gli alpini a loro volta svolsero importante ruolo di contenimento contro ogni forma di disordine.

Nel luglio 1944, dopo la liberazione di Roma e la nomina di Umberto di Savoia a Luogotenente del Re, dal Corpo Italiano di Liberazione nacquero 6 Gruppi di Combattimento (Friuli, Cremona, Legnano, Folgore, Mantova e Piceno) per un insieme di circa 60.000 uomini. Però gli Alleati non consentirono che avessero nome di divisioni e costituissero un'Armata. Il 27 dicembre 1943 il governo dichiarò l'adesione alla Carta Atlantica del 14 agosto 1941 ma sull'Italia, malgrado la cobelligeranza, la resistenza anti-nazifascista e la guerra partigiana, continuavano a incombere le clausole della resa e le crescenti rivendicazioni di molti Stati, a cominciare da Francia, Jugoslavia e Grecia. Nel dicembre 1944, dopo lunga trattativa tra il governo e la delegazione del CLN Alta Italia, le formazioni partigiane furono riconosciute come Corpo Volontari della Libertà agli ordini del generale Raffaele Cadorna.

Il crepuscolo di Vittorio Emanuele III

Nel frattempo gli anglo-americani decisero la sorte di Vittorio Emanuele III, con il plauso dei partiti riconosciuti dalla Commissione alleata di controllo: democratico liberale, socialista, comunista, d'azione, democrazia cristiana, democrazia del lavoro, democratici dei lavoratori italiani, partito liberale. Il peggioramento del clima antimonarchico venne segnalato dal ministro dell'aeronautica generale Renato Sandalli il 15 marzo 1944. Il PWB (Psychological Warfare Branch) aveva fatto cassare l'articolo “Agli ordini del loro Re” dal “Giornale dell'Aeronautica”. Il ministro avvertì che il sovrano, la Monarchia in genere e il governo stesso non dovevano più essere menzionati pena la soppressione del periodico. La proibizione era motivata con la giustificazione che le “Autorità Alleate” non   volevano   influire   sulla   situazione   interna   italiana.   Sandalli, però, aggiunse lapidariamente: «fatti del genere danneggiano la coesione morale delle FF.AA.» Quegli stessi Alleati non arginarono mai le rabbiose polemiche quotidiane contro il sovrano, la Casa di Savoia e l'idea di Monarchia da parte dei fautori della repubblica, nei giornali e nei “comizi”. Erano tempi nei quali ai militari, ai dirigenti, funzionari e pubblici impiegati veniva impartita l'amara direttiva: nei contrasti con gli Alleati gli italiani avevano torto anche quando avevano ragione.

Pochi giorni prima del convegno ciellenistico di Bari (26-28 gennaio 1944), che sotto il profilo istituzionale era un sodalizio privato, Vittorio Emanuele III consegnò il suo programma al capo della Missione alleata Noel Mason-Mac Farlane. Vi riprese molti spunti del verbale della conferenza di Malta tra Eisenhower e Badoglio. Il governo in carica sarebbe rimasto in esercizio sino alla liberazione di Roma; a quel punto sarebbe stato formato un ministero con rappresentanti di partiti ed entro quattro mesi sarebbe stata eletta la Camera dei deputati. Il Parlamento avrebbe discusso ed eventualmente riformato le istituzioni «anche totalmente». Non escludeva, quindi, il cambio istituzionale. Il paese sarebbe stato consultato (referendum confermativo, dunque) e la Corona avrebbe seguito la volontà della nazione. Era l’unica via compatibile con lo Statuto. Il re, però, non fece i conti col fatto che gli anglo-americani non avevano alcuna fretta di arrivare a Roma. A Ravello, per esempio, i loro ufficiali gozzovigliavano giorno e notte, come annotava scandalizzato il generale Puntoni. Non solo. Militari inglesi a Caserta «demolivano nicchie cadaveri et asportavano teschi poggiandoli banchi scuola et collocandone uno sulla testa statua» (Rapporto del comandante dei carabinieri Giuseppe Pièche, 28 maggio 1944, in ACS).

La Luogotenenza del Regno

All’inizio dell’aprile 1944 De Nicola escogitò la proposta atta a mettere d’accordo CLN, governo e Alleati: il passaggio dei poteri da Vittorio Emanuele III al principe di Piemonte quale luogotenente.

Essa fu diramata ai giornali prima che il re ne fosse informato. Fu messo dinnanzi ai “fatti compiuti”. Dopo travagli vari il sovrano accettò di trasmettere le prerogative della Corona, ma in Roma, quando fosse stata liberata. A Puntoni Re Vittorio tracciò un bilancio di quanto fosse «difficile e pesante il mestiere del re»: il “brut fardèl” consegnato da Vittorio Emanuele II a Umberto I. «Solo mio nonno ne è uscito bene» egli confidò. «Carlo Alberto dovette abdicare, mio padre fu assassinato. Non avevo nessuna intenzione di succedere a mio padre e l’avevo quasi convinto ad accogliere il mio progetto di rinunciare alla Corona. Ma fu ucciso e io, in quell’ora tragica, non potei rifiutarmi di salire sul trono. Se l’avessi fatto avrebbero detto che ero un vile.»

Pochi giorni dopo Badoglio varò il nuovo governo, con la partecipazione dei partiti del CLN (22 aprile - 18 giugno 1944). A cospetto di Vittorio Emanuele III i ministri giurarono “sul proprio onore”. Poteva il Re imporre loro di usare la formula statutaria? Fra di essi vi erano Togliatti, Sforza, Giulio Rodinò di Miglione, Adolfo Omodeo (che da ministro della Pubblica istruzione epurò una quantità di galantuomini), Alberto Tarchiani, Fausto Gullo...: tutti repubblicani accesi e talvolta chiassosi. Il 5 giugno si consumò l’ennesimo sgarbo nei confronti di Vittorio Emanuele III da parte del “suo” governo. Con pretesti risibili (compresa la transitabilità delle strade), gli venne negato di raggiungere   Roma   per   celebrarvi   il   trasferimento   di «tutte   le   prerogative   Regie, nessuna eccettuata» al principe ereditario in veste di suo Luogotenente. Che era quindi “del re”, non “del Regno”. I primi a non rispettare la promessa “tregua istituzionale” furono anzitutto i ministri, che, a differenza del sovrano e del luogotenente, avevano il sostegno degli Alleati.

Il linciaggio di Donato Carretta: una pagina orrenda dell'Italia liberata Quale fosse il clima dominante nell'Italia liberata fu chiaro il 18 settembre 1944 nell'aula della Corte di Assise di Roma. Riunito in alta corte di giustizia il tribunale doveva giudicare l'ex questore Pietro Caruso e il suo segretario Roberto Occhetto, accusati di aver consegnato ottanta prigionieri politici ai nazisti per la rappresaglia in risposta all'attentato di via Rasella. Il processo richiamò l'attenzione internazionale. Il colonnello Pollock e il tenente Atkinson capitanavano la polizia militare, presente in aula anche a tutela di quanti filmavano l'evento, destinato all'opinione pubblica internazionale a prova del cammino democratico dell'Italia liberata. La folla irruppe nell'aula chiedendo di avere in pasto i due imputati “per farli a pezzi”. Per sua sventura, spinto dalla canea, vi finì   anche   Donato   Carretta,   vicedirettore   del   carcere   di   Regina   Coeli,   noto   per   mitezza, comprensione e speciale attenzione proprio nei riguardi dei politici detenuti. Individuato, fu percosso. Fatto uscire dall'aula, venne picchiato. Rifugiato in un'automobile grazie a carabinieri e a vigili urbani, ne venne estratto. Fu gettato sui binari del tram in attesa che la prima vettura in arrivo lo schiacciasse. Il conducente arrestò il mezzo. Rischiò di essere aggredito. La scampò esibendo la tessera del partito comunista. La folla riprese il corpo sanguinante di Carretta, lo martoriò e lo gettò a Tevere dalla spalletta di Ponte Umberto. Riavutosi, lo sventurato tentò di nuotare verso l'altra riva ma fu raggiunto e finito a colpi di remo da tre energumeni. Riportato in strada, il cadavere venne trascinato dal Lungotevere Sant'Angelo a Regina Coeli, contro il cui portone fu scaraventato e poi appeso a testa in giù all'inferriata di destra, sotto gli occhi dei suoi familiari.

Carlo Sforza, sedicente conte, dichiarò di capire perfettamente che «scene di quel genere» potessero aver luogo. Però il linciaggio di Donato Carretta non fu una “scena” ma un crimine.

Nessuno si premurò di identificarne e perseguire i colpevoli. Era una “prova generale” della “giustizia plebea” poi evocata e minacciata da Togliatti in consiglio dei ministri all'indomani del referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946 se quella dei codici non avesse risposto alle attese delle “masse”, cioè dei partiti rivoluzionari. Con abile spregiudicatezza Togliatti ventilò la minaccia​ di aprire i conti della storia a carico di quanti avevano a suo tempo favorito l'avvento del governo Mussolini e concorso all’avvento del regime. Che cosa dire degli eredi del partito popolare italiano che ne aveva fatto parte con ministri e sottosegretari, incluso Giovanni Gronchi. E dei “liberali”? De Gasperi capì...

L'unica via per scansare la gogna era associarsi alla lotta senza quartiere contro la Monarchia e i suoi sostenitori, oscurando la verità, come fece Luigi Salvatorelli nel libello “Casa Savoia nella storia   d’Italia”,   in   cui   affermò   che   Vittorio   Emanuele   III   era   «responsabile   moralmente, politicamente e legalmente di tutti i misfatti del fascismo», in contrapposizione al “popolo”, innocente e operoso. Di lì la damnatio    memoriae   perpetua del sovrano.

Un panorama dei combattimenti degli italiani contro i tedeschi dal 9 settembre, in coerenza con la direttiva del governo Badoglio, è in Pier Carlo Sommo-Alberto Turinetti di Priero (a cura di), “1943-1945. Dai Gruppi di Combattimento al nuovo Esercito Italiano”, “quaderno” dell’omonima Mostra, Torino, Anarti, 2022. Lo stato d'animo di un ufficiale della Divisione Granatieri di Sardegna che combatté 40 ore consecutive per “obbedire alle sacre leggi della Patria” e impedire l'irruzione dei germanici nel cuore della Capitale (dall'estrema periferia a Porta San Paolo e al Colosseo) è riflesso   nell'esemplare “memoria”   di   Luigi   Franceschini,   “Cinquanta   anni   dopo”, www.granatierdisardegna.it  


lunedì 11 settembre 2023

VITTORIO EMANUELE III: DA PROTAGONISTA A RE ISOLATO


di Aldo A. Mola

9 settembre 1943: quando Vittorio Emanuele III salvò lo Stato

Il trasferimento del governo e dei Reali da Roma a Brindisi via Pescara il 9 settembre 1943 fu e rimane oggetto di valutazioni contrastanti, spesso condizionate da fattori ideologici e dall'inclinazione ad addebitare alla Corona, anziché al governo, il collasso delle forze armate. Pesò la disputa, anche giudiziaria, sulla cosiddetta “mancata difesa di Roma” e l'insinuazione di quanti, come il giornalista Ruggero Zangrandi, asserirono che tra Badoglio e i tedeschi sarebbe corsa un baratto segreto per permettere il deflusso della colonna di autovetture da Roma verso la costa adriatica. In realtà il 9 settembre il maresciallo Albert Kesselring non aveva deciso se ordinare o meno la ritirata delle divisioni germaniche dalle regioni meridionali. Dopo il 10 settembre puntò a riorganizzare a proprio vantaggio i militari italiani premendo sul maresciallo Ugo Cavallero, “suicidato” presso il comando tedesco a Frascati proprio perché rifiutò di assumere la guida di un esercito anti-monarchico. Come lui, anche Kesserling sapeva che la Corona costituiva il punto di riferimento dei militari che avevano giuramento fedeltà al re. La nascente Repubblica sociale italiana, tenuta a balia dai germanici, a sua volta puntò sulle categorie dell'onore e della fedeltà. Contro le sue attese esse rimasero cardini di tanti soldati, anche “sbandati”, come poi degli Internati Militari Italiani in Germania, che infatti aderirono alla RSI in misura modesta e più per rientrare comunque in Italia che per fiducia nel nuovo regime mussoliniano, come documenta il volume di Avagliano e Palmieri (il Mulino, 2020). Con il passaggio da Roma a Brindisi il re non salvò la “sua” Corona ma lo Stato: unico interlocutore delle Nazioni Unite. Col realismo di chi conosceva novecentocinquant’anni di storia della Casa, costellata di glorie e di tracolli, Vittorio Emanuele III prese atto che la guerra era perduta, accettò l'armistizio e fece in modo che la sconfitta divenisse premessa per la riscossa. L’Italia era caduta. Però grazie alla sua iniziativa cadde sul fianco meno doloroso: a Occidente. Nei “quarantacinque giorni” tra il 25 luglio e l'8 settembre, che poi furono meno di trenta se si contano dalla decisione di chiedere la “concessione” della resa, ancora una volta il re fu lasciato solo dai “politici”. Era già era accaduto nel 1922 e dal 1924. Dopo il 25 luglio 1943, come vantò Ivanoe Bonomi in Diario di un anno, i rappresentanti dei partiti antifascisti moderati in via di riorganizzazione (i democristiani De Gasperi, Spataro, Gronchi; i liberali Casati e Bergamini; Ruini, Della Torretta e Bonomi stesso per la Democrazia del lavoro) decisero di astenersi da ogni collaborazione con il governo Badoglio. Proprio De Gasperi spiegò che sarebbe stato un errore compartecipare alla “partita passiva”, cioè alla conclusione dell’armistizio. Poiché la resa avrebbe creato “responsabilità penose per i suoi negoziatori” era meglio farla cadere interamente ed esclusivamente sulle spalle di Vittorio Emanuele III. Comunisti, socialisti e partito d’azione, fondato nell’estate 1942, erano sic et simpliciter per l’abolizione della monarchia. Che cosa avrebbe dunque potuto fare il re di diverso rispetto a ciò che fece? Attendere a Roma l’avanzata degli anglo-americani? Nello sbarco a Salerno, questi vennero inchiodati dalla ferma reazione germanica. Subirono perdite elevatissime e capirono che i tedeschi non erano affatto rassegnati a ritirarsi se non combattendo. Gli alleati risalirono la penisola lento pede, cozzando contro tutte le “difese inerti” (catene montuose, fiumi, carenza di rotabili e di ferrovie...) e rimasero bloccati per mesi dinnanzi a Montecassino, la cui Abbazia fu completamente distrutta da bombardamenti inglesi con inflisse un duro colpo all’immagine dei “liberatori”, già fortemente vulnerata dalla loro condotta dei militari a Napoli e poi dei marocchini francs-tireurs “francesi”. Era dai tempi del bizantino Belisario che nessuno si era proposto di conquistare l’Italia via terra anziché “per manovra”, come ormai si poteva fare con sbarchi sulle coste e supporto aereo.

 Il Principe ereditario doveva rimanere a Roma?

Che cosa avrebbe dovuto fare il principe Umberto di Piemonte? Come militare doveva ubbidire agli ordini del capo del governo. Quale erede della Corona doveva attenersi a quelli non meno perentori del padre. Anziché seguire Badoglio e il sovrano, avrebbe dovuto/potuto rimanere a Roma o in clandestinità nei suoi pressi per guidarvi la resistenza. Dove e come avrebbe posto base? Avrebbe dovuto fare quotidianamente conto con l'ostilità della maggior parte degli antifascisti antimonarchici nei confronti dei quali i moderati, militari a parte, furono sempre succubi. Proprio la sorte dei militari risulta emblematica. Fu il caso del colonnello Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo (Roma, 1901-1944) e delle decine di collaboratori del Fronte militare clandestino, talora catturati su delazione, ferocemente seviziati, rinchiusi nel carcere di Regina Coeli e poi assassinati alle Fosse Ardeatine nella rappresaglia eseguita da Kappler su ordine perentorio di Hitler in risposta all’attentato di via Rasella (23 marzo). Vi vennero sterminati quasi al completo i dirigenti monarchici e dell’estrema non comunista (“Bandiera Rossa”), oltre a ebrei, una ventina di massoni (tra i quali Placido Martini, gran maestro designato) e a detenuti del tutto apolitici. In alternativa, rimanendo a Roma e sempre che fosse riuscito a sfuggire alla prigionia a differenza di quanto accadde alla sorella, Mafalda (catturata dai tedeschi con un inganno e deportata in Germania, ove morì in campo di concentramento), e a Francesca Maria, (a sua volta “internata”), il principe ereditario avrebbe potuto/dovuto rifugiarsi nei Sacri Palazzi, come il generale Bencivenga (massone), Soleri (temporaneamente) e altri molti? Per farci che cosa? La storia della “Resistenza Monarchica”, alla quale hanno dedicato pagine documentate Domenico De Napoli, Francesco Garzilli, Marco Grandi e per il cui studio rimangono fondamentali le memorie di Edgardo Sogno, fondatore della organizzazione partigiana “Franchi”, e quelle di Alfredo Pizzoni, presidente del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, insegna ad abundantiam che per i militari rimasti in armi contro i tedeschi non esistevano “santuari”. Fu la sorte del generale Giuseppe Perotti, capo del comando militare del CLN Piemonte, arrestato, torturato, condannato a morte (alla lettura della sentenza ordinò ai coimputati: “Signori ufficiali, in piedi. Viva l'Italia!”), e di tante “missioni” paracadutate nelle zone prevalentemente controllate da formazioni comuniste. Risultano generose fantasie le pretese di quanti ritengono che il principe avrebbe dovuto farsi paracadutare al Nord per prendere la guida di formazioni partigiane.

 

La sicurezza delle residenze sabaude prima e dopo il 25 luglio

Nell'Italia centro-settentrionale persino le residenze sabaude non erano mai state del tutto inviolabili. La loro sicurezza aveva costituito motivo di preoccupazione per il primo aiutante di campo del re da molto prima della guerra, per il ripetersi di minacce e di tentativi d’attentato di cui i giornali ovviamente non parlarono, ma sono copiosamente documentati nelle carte dell'Archivio Centrale dello Stato. Non era sicuro neppure il Palazzo Reale di Torino. Per esempio, il primo aiutante di campo del principe di Piemonte, generale Clerici, il 29 marzo 1931 informò il pari grado del re che il servizio di guardia aveva rinvenuto sotto il portico della piazzetta reale antistante piazza San Giovanni “un pacco avvolto in un giornale” alla base di una colonna. Due agenti di pubblica sicurezza lo svolsero e non tardarono a scoprire che si trattava di ordigno esplosivo a orologeria, rapidamente portato lontano da persone e fabbricati ed esploso alle 6 e 18 mattutine. Era un “tentativo terroristico, anziché un vero e proprio attentato” conclusero gli inquirenti. Il colonnello comandante la divisione di Torino dei Reali Carabinieri dispose pertanto misure di sorveglianza: pattuglie fisse e campanelli elettrici nelle garitte del giardino reale per consentire ai carabinieri in servizio l’immediata richiesta di soccorsi. Due anni dopo, un furto di galline nel giardino fece constatare quanto fosse agevole introdursi nella residenza reale. “Poiché le condizioni del bilancio non consentono assolutamente di affrontare la spesa di lire Diecimila (...) per collocare lungo il muro un dispositivo di allarme”, si propose una “semplice intensificazione del servizio di vigilanza”, ma, in carenza di uomini, si optò per la riduzione dell’abbondante vegetazione contro muro, al fine di scoraggiarne lo scavalcamento abusivo. Per garantire la sicurezza del sovrano bastava potare le siepi? Se tali “incidenti” si ripetevano in tempi “normali”, molto più allarmante fu l’irruzione di militari tedeschi nella tenuta di San Rossore (Pisa), verificatasi il 29 luglio 1943, quattro giorni dopo il fermo di Mussolini e mentre l'Italia “continuava la guerra” a fianco della Germania. Dapprima venne sospettato l’approdo di mezzi anfibi, poi vi planarono due aerei “di nazionalità tedesca tipo S. S. L. U. (Cicogna)”, atterrati e ripartiti prima che sopraggiungessero le guardie di vigilanza. Alle 20 e 30 dello stesso giorno un altro aereo tedesco atterrò e decollò in pochi minuti. Identificato, l’equipaggio accampò avarie. Ma il 12 settembre le SS di Otto Skorzeny mostrarono che cosa si potesse fare con un aereo di quel genere, prelevando Mussolini da Campo Imperatore sul Gran Sasso. Infine quattro ufficiali a bordo di auto dalla targa debitamente annotata forzarono agevolmente il blocco dell'unico carabiniere di guardia a uno degl’ingressi di San Rossore e perlustrarono la tenuta. E si era solo a fine luglio, non dopo l’8 settembre. Sin dal 15 giugno, del resto, il comandante della direzione generale trasporti dello stato maggiore dell’esercito informò l'aiutante di campo del Re, Paolo Puntoni, che era stato interdetto il transito e lo scarico di convogli germanici negli scali di Pisa e di San Rossore, nonché la “sosta” di treni e carri contenenti carburanti ed esplosivi. Ormai ci si preparava alla resa dei conti con l'ex alleato. Molto di più si potrebbe sapere se parte del carteggio riservatissimo del primo aiutante non fosse stato “ritirato” per ignota destinazione dal Servizio Informazioni Militari (SIM) il 25 luglio 1946, dopo la partenza di Umberto II dall'Italia.

 

La Corona sotto assedio

Il 29 settembre Badoglio sottoscrisse a Malta il cosiddetto “armistizio lungo” (44 punti contro i 12 di Cassibile), duramente peggiorativo delle già pesanti condizioni imposte il 3 settembre. Secondo H. Hardy Butcher, Eisenhower “non volle firmare l’atto conclusivo di quello che aveva definito un crooked deal, uno sporco affare”. Tale “strumento di resa” risultò talmente lesivo per l'Italia che, subentrato a Badoglio a capo del governo, Bonomi chiese rimanesse segreto. La sua propalazione avrebbe avvilito i militari del regio esercito, sconcertato i partigiani nelle regioni del centro-nord e fornito argomenti alla Repubblica sociale italiana. Dal 12 settembre 1943 la monarchia dovette fare i conti con tre insidie concatenate. Prelevato da Campo Imperatore sul Gran Sasso d’Italia ove era sotto labile sorveglianza e trasferito in Germania, Mussolini accettò di assumere la guida dello “Stato repubblicano d'Italia”, poi Repubblica sociale italiana: ove l'Italia da sostantivo retrocesse ad aggettivo (e tale rimane). Accettò, anche per attutire la rappresaglia germanica e propiziare la continuità amministrativa delle regioni comunque occupate dai tedeschi. Il 18 il duce tenne alla radio un discorso “di eccezionale violenza contro il re e Badoglio”. Giorno dopo giorno rovesciò valanghe di recriminazioni contro la monarchia, accusata di aver profittato degli unici veri protagonisti del Risorgimento: Mazzini, Pisacane, la Sinistra storica...: argomenti usati anche dagli antifascisti antimonarchici. Il secondo avversario della Corona, come accennato, fu il Comitato centrale di liberazione nazionale che, riunito in clandestinità, disconobbe il governo Badoglio, non rappresentativo dei partiti antifascisti, lo accusò di aver abbandonato Roma nelle mani dei tedeschi e deliberò unilateralmente di “deferire al libero voto del popolo (quindi a plebiscito, o come poi si disse a referendum, NdA), convocato al cessare delle ostilità, la decisione sul problema istituzionale” (5 ottobre 1943). In terzo luogo dovette fare i conti con gli americani, che premevano per l’abdicazione del sovrano senza valutarne le ripercussioni sia nell'Italia centro-settentrionale, sia nelle regioni già libere da occupazione germanica e sul corso di una guerra dalla durata imprevedibile, nel cui corso avevano bisogno della collaborazione dell'unico Stato dItalia esistente: il regno. Il disorientamento dilagava anche in ambienti moderati. Sotto la data 17-22 dicembre Bonomi annotò nel Diario l' “atteggiamento dei liberali”, comunicatogli da Nicolò Carandini. Se il re si fosse ostinato “a restare” avrebbero accettato “anche la situazione rivoluzionaria”. Per “lasciare aperta la possibilità di difendere eventualmente il principio monarchico nella futura costituente” i liberali volevano “una monarchia pulita e non un cencio sporco come l'attuale sovrano”. Il re prevedeva tali insidie. Dovette però fare i conti con una quarta minaccia, più grave e pericolosa perché arrivava dall’interno del mondo sul quale aveva ritenuto di far leva, non nell’interesse personale ma dello Stato. Il 24 ottobre Badoglio si fece tramite dei “precisi intendimenti” dei partiti antifascisti animati, tra altri, da Carlo Sforza (senatore e Collare della SS. Annunziata). Rientrato dagli Stati Uniti “pieno di rancore e di ambizione”, questi agiva di concerto con democristiani napoletani (Giulio di Rodinò e Angelo Raffaele Jervolino) e persino con liberali. A loro inderogabile avviso il re doveva abdicare subito; il principe ereditario doveva rinunciare alla successione e passare la corona al nipote, Vittorio Emanuele principe di Napoli, di soli sette anni e quindi vegliato da un reggente, nella persona di Badoglio stesso. Il rifiuto, aggiunse il maresciallo, avrebbe portato alla caduta della monarchia. La proposta era statutariamente irricevibile. Il re la respinse, sdegnato. Il reggente era previsto dallo Statuto solo “durante la minore età del Re”. In caso di passaggio della corona a Vittorio Emanuele, principe di Napoli, nato nel 1937, la reggenza andava conferita al prossimo parente maschio (il duca Aimone d’Aosta, il conte di Torino o un altro principe sabaudo) oppure alla regina madre, Maria José, che però era in Svizzera con i figli, sempre a rischio di colpi di mano da parte dei nazisti. Solo in mancanza di qualunque erede dinastico le Camere, “convocate entro dieci giorni dai ministri” avrebbero nominato il reggente. Sennonché lo scioglimento della Camera voluta da Badoglio e l'impossibilità di convocare il Senato per cause di forza maggiore avevano paralizzato il Parlamento. Secondo l'articolo 16 dello Statuto le disposizioni relative alla reggenza erano “applicabili al caso in cui il re maggiore si trovi nella fisica impossibilità di regnare”. In un paese allo sbando Vittorio Emanuele III tutto era tranne che “fisicamente impedito”. Infine, quando pure avesse deciso di abdicare, avrebbe potuto farlo per sé, non per il figlio. Badoglio fece persino approntare una curiosa serie di francobolli del valore di 50 centesimi. La sua firma vi sovrastava dal basso in alto la Lupa di Roma. Stampati dalla tipografia Richter di Napoli sulla fine del 1943, non vennero mai “emessi”. Già una volta il maresciallo ci aveva provato: nel 1929, quando “firmò” un francobollo da 50 centesimi con effigie di Vittorio Emanuele III. La sovrastampa fu eseguita dallo stabilimento Raimondi di Napoli sotto sorveglianza della direzione delle Poste e telegrafi di Napoli. Già allora ne fu vietata l’emissione. D’altronde il maresciallo non era il solo a cercar di mettere la “firma” sull’Italia. Anche Benedetto Croce fece la sua parte. Per i giorni 27 e 28 gennaio 1944 venne indetto a Bari un convegno dei Comitati di liberazione nazionale. Il 7 gennaio Sforza dichiarò a De Nicola, senatore exurgens e flammis del lungo sonno attraverso il regime, di essere disposto a trangugiare una luogotenenza del “sovrano fellone”, ma non a favore di Umberto. “Escluso naturalmente anche l’ex re nazifascista di Croazia”, cioè Aimone duca d'Aosta, aggiunse Sforza, “ogni altro principe p(oteva) essere accettato sia come reggente, sia come luogotenente”. Al congresso di Bari Croce sferrò un durissimo attacco alla persona di Vittorio Emanuele III, intimandone l’abdicazione immediata. L’8 maggio, quando ormai tutto era consumato, in una postilla a futura memoria, il filosofo rivendicò direttamente e primariamente a se stesso 1’“eliminazione del re” di cui Sforza menava vanto: operazione alla quale egli lavorò “in segreto, e diplomaticamente, con De Nicola”. Scrivendo di sé in terza persona aggiunse: “Croce confessa e conferma di non essere dal suo passato preparato a governare il suo paese, ma non si sente privo di buon senso pratico...”. In quegli stessi giorni, però, rientrato da Mosca via Algeri, Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano, preparò l'offensiva politico-culturale contro di lui, tanto da metterlo nella mortificante condizione di non ripresentarsi in consiglio dei ministri, adducendo la fatica del viaggio. Malgrado tutte le difficoltà e ostilità da Brindisi temporaneamente “capitale del regno”, Vittorio Emanuele III dette impulso alla lotta di liberazione, in atto, come si dirà, sin dallo stesso 9 settembre 1943.

 



venerdì 8 settembre 2023

Un Convegno Nazionale di Studi dedicato alla monumentale opera numismatica di Re Vittorio Emanuele III nel 75° anniversario della sua scomparsa



L’Istituto Nazionale per la Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon il prossimo 12 novembre celebrerà il 75° anniversario della morte di Re Vittorio Emanuele III dedicando un Convegno di Studi alla sua straordinaria opera numismatica. Eminenti studiosi, accademici, autorità e i vertici dell’Istituto si sono dati appuntamento per l'importante simposio scientifico in un suggestivo complesso monastico del XV secolo a Conversano in provincia di Bari.

La Delegazione Provinciale di Bari in collaborazione con l’Ispettorato per la Puglia dell’Istituto Nazionale per la Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon prosegue la sua attività di promozione culturale con l’organizzazione di Convegni Nazionali di Studi volti all’indagine scientifica e alla presentazione di ricerche originali, ai quali prendono parte i più autorevoli studiosi italiani e stranieri relativi alle materie trattate.

Il 2° Convegno Nazionale di Studi – organizzato nel 75° anniversario della scomparsa di Re Vittorio Emanuele III – avrà per titolo Il “Corpus Nummorum Italicorum”: genesi ed eredità scientifica e si terrà il 12 novembre 2022, dalle ore 15:00, a Conversano presso l’Oasi Sacro Cuore di Gesù in Santa Maria dell’Isola, sontuosa ex Abbazia del XV secolo (Contrada Bari 24) di straordinario interesse storico-artistico. 

L’evento ha ottenuto il patrocinio dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, della Regione Puglia, di Assoarma Bari e della Società Mediterranea di Metrologia Numismatica.

Il simposio scientifico sarà dedicato alla monumentale opera del Re numismatico, alle complesse vicende legate alla sua realizzazione e all’analisi della sua attuale valenza scientifica. La pubblicazione del Corpus Nummorum Italicorum – rappresentata da venti grandi volumi che con regolarità furono proposti agli studiosi dal 1910 sino al 1943 – ha segnato un periodo decisivo per il progresso in Italia degli studi numismatici. Tutt’ora l’opera non ha uguali in altri paesi dove si conoscono approfonditi corpus nummorum che tuttavia sono relativi a un solo popolo (si pensi ai Visigoti per la Spagna o ai Vichinghi per la Norvegia), a una sola zecca (si vedano le zecche merovinge per la Francia), a un solo periodo storico (si pensi alle Taifas nella penisola Iberica), a una sola dinastia o addirittura a un solo regnante come per la Germania o per l’Inghilterra. 

Nessuna nazione possiede come l’Italia un corpus nummorum che abbracci un periodo storico tanto ampio come quello che va dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.) alla prima metà del XX secolo, prendendo in esame tutte le zecche d’Italia conosciute all’epoca della pubblicazione: da quelle che avevano coniato ininterrottamente per secoli a quelle così dette “minori”, che avevano battuto monete per brevi periodi. Nel Convegno di Studi, con il supporto di documentazione inedita, si approfondiranno questioni relative alla storia della collezione numismatica di Vittorio Emanuele III, in particolare saranno considerate le sue vicissitudini nel periodo della Seconda guerra mondiale e dopo la donazione che il Re fece al Popolo Italiano. Si considereranno anche le precedenti vicende numismatiche di Casa Savoia.

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VITTORIO EMANUELE III E L'“ARMISTIZIO”

 




di Aldo A. Mola


Il Re fuggiasco?

Il Quaderno n. 4157 di “La Civiltà Cattolica” invita all'ascolto di un podcast sull'8 settembre 1943 e le sue conseguenze. “Dopo aver proclamato l'armistizio – scrive il quindicinale della Compagnia di Gesù – il generale Pietro Badoglio fuggì da Roma insieme a Vittorio Emanuele III alla volta di Brindisi, in Puglia”. All'opposto, aggiunge, benché consapevole di essere bersaglio di Adolf Hitler, Pio XII non si mosse e si prodigò a favore della popolazione. Con tutta la deferenza che si deve alla “più antica rivista in lingua italiana”, l'affermazione è errata e la comparazione tra la condotta del re e quella del papa è improponibile. Sovrano della Città del Vaticano, il Vicario era sommo pontefice della Chiesa cattolica: inviolabile. Vittorio Emanuele III era re di uno Stato in guerra coi tedeschi, ormai nemici, in casa e senza sostegno militare da parte dei vincitori decisi a cancellare l'Italia dal novero delle potenze. Non fuggì affatto. Si trasferì all'interno del territorio nazionale per esercitare i poteri della Corona e salvare la continuità dello Stato.

Per comprenderlo occorre ricordare in quali circostanze e con quali ripercussioni si arrivò alla “resa incondizionata”, altra e peggiore cosa rispetto a un “armistizio”, che è frutto di trattativa. Come noto, di propria iniziativa e con la collaborazione efficace di una ristretta cerchia di militari, alle 17 del 25 luglio 1943 il re revocò Benito Mussolini e lo sostituì con il maresciallo Pietro Badoglio. “Fermato” (non “arrestato”) dai carabinieri, il duce scrisse a Badoglio di essere pronto a collaborare.

Nel volgere di pochi giorni il nuovo governo smantellò il regime. Sciolse il Partito nazionale fascista e il Gran consiglio del fascismo e impose alla Milizia volontaria di sicurezza nazionale di sostituire i fasci con le stellette. A quel modo evidenziò di non dovere nulla ai gerarchi che avevano approvato l'ordine del giorno approntato da Dino Grandi, Giuseppe Bottai, Luigi Federzoni, convinti di ridimensionare Mussolini senza rinunciare al proprio ruolo.

La svolta del 25 luglio fu la premessa di tre obiettivi concatenati: mostrare che l'Italia si liberava dal fascismo, uscire dalla guerra, manifestamente perduta, e arginare la prevista “vendetta” della Germania. Con i suoi mezzi il governo poteva attuare solo il primo dei tre obiettivi. Gli altri due erano nelle mani degli anglo-americani e di Hitler. La defascistizzazione venne facilitata vietando ogni manifestazione di partito. In un paese in guerra occorreva scongiurare insorgenze di fascisti e di avversari della monarchia.


Resa: un ultimatum

Salvaguardato l'ordine interno, Vittorio Emanuele III autorizzò la ricerca del contatto con il Comando alleato per stipulare la fine delle ostilità. Tra le molte “testimonianze” spicca il “Diario” del generale Giuseppe Castellano, militare di piena fiducia del re. Dopo complessi preparativi e scartate altre opzioni, il 12 agosto Castellano partì in treno per Lisbona sotto il falso nome di “Raimondi”. Poiché non conosceva l'inglese fu accompagnato dal console Franco Montanari. Il 15 agosto fece tappa a Madrid ove si fece ricevere dall'ambasciatore inglese Samuel Hoare, che dal 1917 era stato nel servizio segreto militare britannico a Roma, aveva simpatia per l'Italia e propiziò la sua missione. Giunto a Lisbona la sera del 16, Castellano prese contatto con il Comando anglo-americano. La mattina del 19 agosto l'ambasciatore inglese Campbell lo invitò a colloquio per le 22:30. Castellano si trovò dinnanzi l'incaricato d'affari George Kennan e il generale Smith, rappresentanti di Eisenhower, comandante alleato nel Mediterraneo, e il brigadiere britannico Strong. Nessuno gli tese la mano. Smith gli lesse i termini della resa imposta dagli Alleati all'Italia e una pagina con le decisioni del presidente degli Stati Uniti, Franklin D. Roosevelt, e del premier britannico, Winston Churchill. L'Italia doveva rispondere a Londra e ad Algeri, sede del Quartier generale alleato, entro e non oltre il 30 agosto.

Nella lunga conferenza di Quebec il 18 agosto gli anglo-americani stilarono la Dichiarazione sulle condizioni della “cessazione delle ostilità” da parte dell'Italia. Essa prospettò una modifica migliorativa delle condizioni della resa in misura “dell'apporto dato dal governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra”. Con la Dichiarazione gli anglo-americani introdussero un soggetto nuovo accanto (ma non alternativo o antagonista) rispetto al regio governo: il popolo italiano.

Castellano tornò a Roma con il testo della “resa”: dodici “condizioni” su vari aspetti collaterali alla “cessazione immediata di ogni attività ostile da parte delle Forze Armate italiane”. Quelle fondamentali erano le ultime tre. “In cauda venenum...”.Vanno rilette: “Il Comandante in capo delle Forze alleate si riserva il diritto di prendere qualsiasi misura che egli ritenga necessaria per la protezione delle Forze Alleate per la prosecuzione della guerra, e il governo italiano si impegna a prendere quelle misure amministrative o di altro carattere che potranno essere richieste dal Comandante in capo, e in particolare il Comandante in capo stabilirà un governo militare alleato in quelle parti del territorio italiano ove egli lo riterrà necessario nell'interesse militare delle Nazioni alleate”. Era riconosciuta la sovranità del re e del suo governo. Al di là dell'undicesima condizione (“Il Comandante in capo delle Forze alleate avrà pieno diritto di imporre misure di disarmo, di smobilitazione e di smilitarizzazione”) la dodicesima lasciava però intravvedere il baratro:“Altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario che l'Italia dovrà impegnarsi ad eseguire saranno trasmesse in seguito”.


Le “altre condizioni” non furono comunicate a Castellano ma al generale Giacomo Zanussi, inviato a Lisbona da Roma in carenza di notizie da e su “Raimondi”. Sotto la data del 29 agosto Castellano annotò che “su suggerimento di Acquarone il re sembra pronto ad accettare i termini dell'armistizio”. Dopo giorni convulsi e ripetuti contatti e viaggi da Roma alla Sicilia e ritorno, il 3 settembre il generale di brigata Castellano sottoscrisse a Cassibile “per il Maresciallo Pietro Badoglio, capo del governo italiano” le condizioni presentate dal maggior generale Walter B. Smith per il Comandante in capo delle Forze alleate Dwight D. Eisenhower e illustrate dal generale Harold Alexander, come recita il processo verbale. Alla firma, suggellata dalla cordiale stretta di mano tra il Comandante e Castellano, presenziarono Harold McMillan, ministro residente britannico presso il Quartier generale alleato ad Algeri; Robert Murphy, rappresentante personale del presidente degli USA; Royer Dick, commodoro della Reale marina britannica, capo di stato maggiore del Comandante in capo del Mediterraneo; Lowell W. Rooks, maggior generale dell'esercito USA, sottocapo di stato maggior presso il Quartier generale delle Forze alleate; il brigdiere Kenneth Strong, sottocapo di stato maggiore generale presso il Quartier generale delle Forze alleate e Franco Montanari, interprete ufficiale italiano.

Nel corso della riunione furono a lungo discusse l'azione degli italiani contro i tedeschi all'annuncio della resa e le numerose richieste navali anglo-americane. I presenti misero nel conto che Vittorio Emanuele III e Badoglio potessero cadere prigionieri dei tedeschi. Pertanto Alexander chiese che il Re e Badoglio registrassero su disco la proclamazione dell'“armistizio” e che copia della registrazione fosse consegnata agli Alleati, “sicché in caso di emergenza si potrebbe fare l'annuncio”. Proprio per fronteggiare quella emergenza, precisò Castellano, il generale Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore generale, progettava di lasciare Roma, per tenersi pronto annunciare la resa anche da una emittente fuori Roma. Il “disco” con la registrazione sarebbe stata recata personalmente alla sede Eiar di Torino dal generale Ambrosio nel suo altrimenti inspiegabile viaggio proprio nell'imminenza dell’annuncio stesso.


Il verbale della riunione di Cassibile mette a nudo la curiosa “visione” di quanti intendevano impartire lezioni di incivilimento agli italiani. Alexander si dichiarò convinto che “gli italiani dovevano combattere per il loro paese. I contadini italiani armati (da chi? NdA) combatterebbero bravamente con la guerriglia organizzata” e che “non si doveva rimandare nessuna opportunità di uccidere i tedeschi”. Pensava inoltre che i “sindacati operai” avrebbero potuto bloccare o facilitare il transito ferroviario, secondo necessità. Probabilmente vedeva l'Italia come una delle “colonie” di cui aveva cognizione. Castellano non lo assecondò.

Tra le questioni non secondarie affrontate a Cassibile vi furono il giorno e l'ora dell'annuncio della “cessazione delle ostilità”. Al riguardo gli interlocutori di Castellano furono evasivi. Dissero che l’annuncio sarebbe stato dato da Eisenhower alle 18:15 e da Roma alle 18:30, senza però precisare la data. Castellano replicò quanto aveva già chiarito a Lisbona. “Un preavviso di poche ore del giorno D era insufficiente. Gli occorreva un preavviso di parecchi giorni”. Non parlava inglese ma aveva idee molto chiare. Alexander replicò che “non poteva rischiare perdita di sicurezza” e non rivelò dove e quando sarebbe avvenuto lo sbarco anglo-americano sulla costa tirrenica dell'Italia.

A conclusione dell'incontro Castellano fu trattenuto a Cassibile con la promessa di “una sede quanto possibile confortevole”. Eisenhower non presenziò e non firmò. Preferì tenersi al di fuori dallo “sporco affare” o dall’“inganno reciproco”: eloquente titolo, quest’ultimo, di un’opera ricca di documenti e di fondamentale importanza sull'Otto settembre scritta dalla storica Elena Aga Rossi. In mancanza di indicazioni precise, a Roma prevalse la certezza che la fine delle ostilità sarebbe stata annunciata il 12 settembre o addirittura il 16, come Badoglio scrisse in una lettera ricordata da Angelo Squarti Perla nel suo recente e documentatissimo saggio “Le menzogne di chi scrive la storia” (ed. Gambini).

A ingannare furono soprattutto gli anglo-americani, che parlavano a nome delle Nazioni Unite senza però che il loro alleato principale, l'URSS di Stalin, fosse informato. Avevano le loro buone ragioni, perché guardavano al di là del conflitto nel Mediterraneo. In gioco vi era la guerra degli USA contro il Giappone e per la difesa dell'impero coloniale da parte di Londra. I termini della resa, dunque, non dipesero dalla volontà di Vittorio Emanuele III ma dalla Conferenza di Casablanca che, su richiesta di Stalin, aveva deciso l'imposizione della resa senza condizioni.

Lontano da Roma, non dagli italiani

I giorni tra la firma della resa e il suo annuncio furono pochi e convulsi: dal 3 all'8 settembre. Senza bisogno di conoscerne nei dettagli i piani, il re e il governo sapevano bene che i tedeschi non avrebbero avuto alcun riguardo nei loro confronti. Se se ne fossero impadroniti li avrebbero eliminati o quanto meno deportati e sottoposti a umiliazioni. Sarebbe stata una “lezione” per i capi di Stato e di governo tentennanti. Al rientro da Berlino Boris III, zar dei Bulgari e genero di Vittorio Emanuele III (ne aveva sposato la figlia Giovanna), morì di morbo mai spiegato. Avvelenamento?

I tempi e gli spazi per salvare lo Stato erano sempre più stretti. In vista dell'ora e del giorno dell'annuncio, venne deciso l'allontanamento da Roma. Scartato l'aereo, il mezzo di trasporto all'epoca più insicuro e dalle conseguenze irreversibili in caso di “incidente”, fu previsto il trasferimento dei Reali e del governo da Civitavecchia alla Sardegna, saldamente presidiata da forze italiane. Sennonché quel porto divenne insicuro come tante altre piazze ormai sotto controllo o minacciate da vicino dai tedeschi, che dal 26 luglio avevano fatto irruzione in Italia con il pretesto di aiutarla nella lotta contro gli allora comuni nemici.

A ridosso dell'annuncio della resa giunsero a Roma due alti ufficiali per verificare con il Maresciallo Badoglio la fattibilità del lancio di una divisione paracadutata a sostegno di quelle italiane per contrastare i tedeschi che ormai la premevano. Come più volte narrato, Badoglio li ricevette in vestaglia e chiarì che i campi di aviazione vicini alla Capitale non erano in grado di propiziare il progetto. In realtà aveva chiaro che gli anglo-americani non avevano alcuna possibilità di attestarsi nei dintorni di Roma e che tutto si doveva fare tranne che trasformare la Città Eterna in campo di battaglia, senza probabilità di rinforzi di lungo periodo. Come noto, gli americani sbarcarono nella piana di Salerno e incapparono nella tenace risposta dei germanici. A Roma giunsero solo il 5 giugno 1944.

Fecero la guerra che conveniva loro. Essi consideravano l'Italia un teatro secondario del conflitto in corso. Più tedeschi erano trattenuti nel Paese dei Limoni meno essi ne avrebbero dovuti fronteggiare allo sbarco in Normandia, progettato prima ancora di dare l'assalto alla Sicilia e alla Calabria.

La resa fu infine comunicata alle 19 dell'8 settembre. L'annuncio fu preceduto alle 17 da una convulsa riunione (“una specie di consiglio della Corona” annotò Puntoni) nel corso della quale qualcuno prospettò addirittura di sconfessare la firma di Cassibile e sostituire Badoglio. Per intervento del maggiore Luigi Marchesi, che ne ha scritto ripetutamente, “il buon senso finisce per prevalere, si arriva però a una conclusione davvero deludente: l'armistizio è accettato ma Badoglio che rappresenta il governo non impartisce alcuna disposizione per fronteggiare gli avvenimenti che incalzano” (Puntoni). Nel volgere di poche ore il Re e Badoglio misero a punto l'unico piano possibile: lasciare Roma per un lembo d'Italia libero da tedeschi (che vi vennero anzi cacciati con le armi: come avvenne a Bari e in altre città) e non ancora raggiunto dagli anglo-americani, e quindi libero dalla loro diretta ingerenza. Ci volle il comprovato sangue freddo del Re Soldato per affrontare la prova.

Come annotò Paolo Puntoni, ritenuta impossibile la difesa della Capitale fu decisa la partenza. “Il Re scrive Puntoni – convinto ormai che tutto sia stato predisposto per la partenza del governo al completo, aderisce a malincuore a lasciare Roma. Il suo intento è di garantire la continuità dell'azione del governo in collegamento con gli alleati e di impedire che la Città Eterna subisca gli orrori della guerra”. Alle 5:10 del 9 settembre la berlina guidata dall'autista Giovanni Baraldi lasciò il ministero della Guerra. Recava il Re, la Regina, il tenente colonnello De Buzzaccarini e Puntoni, che sbrigativamente raccomandò al colonnello Mario Stampacchia di distruggere, all'occorrenza, il carteggio riservato e quello segreto. Di seguito mossero la vettura della regina, con a bordo Badoglio, Mario Valenzano, suo nipote e segretario particolare, e il duca d'Acquarone. In una terza presero posto il principe ereditario con il generale Emilio Gamerra e due ufficiali d'ordinanza. Altre automobili seguirono alla spicciolata. La “piccola colonna” (Puntoni) si mosse senza scorta perché il plotone di autoblindo inviato dal Ministero della Guerra al Quirinale era rimasto nella Reggia.

La berlina del Re innalzava lo stendardo del Capo dello Stato. Come è stato ripetutamente osservato, chi fugge non alza le insegne. Il viaggio del re alla volta di Pescara via Avezzano e Popoli non fu una fuga ma il trasferimento dalla capitale per evitare la cattura e assicurare quanto era necessario: la persona e la funzione del re e del “suo” governo, garante dell'esecuzione della resa. Gli Alleati erano implicitamente tenuti a concorrere alla loro sicurezza, ma non consta che se ne siano curati. Nei limiti e nei modi documentati, Vittorio Emanuele III mostrò che la Corona operava in autonomia. Non per caso era stata respinta la proposta che si rifugiasse su una nave dei vincitori, cioè in territorio nemico. Un passo di quel genere avrebbe comportato l'abdicazione dalla libertà di capo dello Stato d'Italia.

È stato osservato che il trasferimento avvenne con gravi omissioni da parte del capo del governo e dei capi di Stato maggiore delle tre Armi. Lo hanno ribadito Filippo Stefani in “8 settembre 1943: Gli armistizi dell'Italia” (Marzorati) e gli autori delle relazioni svolte in numerosi convegni di studio promossi dal Ministero della Difesa e da altre Istituzioni. L'Archivio Centrale dello Stato conserva copiosissima documentazione sulle minute misure via via assunte dagli Uffici competenti per prevenire e scongiurare le conseguenze più gravi. Valgono d'esempio le “istruzioni” impartite per il trasferimento della principessa Maria José, delle tre figlie e del principe di Napoli, Vittorio Emanuele, all'epoca di 7 anni, dal Cuneese al Castello di Sarre e da lì in Svizzera.

In sintesi il Re lasciò Roma ma non l'Italia né gli italiani. Imbarcato a Pescara sulla corvetta “Baionetta” la sera del 9 settembre egli giunse a Brindisi alle 14:30 del 10 mentre già era in corso la lotta armata di liberazione contro gli occupanti germanici. Alle 9 mattutine dell'11 il sovrano presiedette un “consiglio” e dette lettura del messaggio di Eisenhower a Badoglio volto a stabilire subito la collaborazione tra truppe anglo-americane e governo italiano. Il Re rivolse un proclama agli italiani. Non dipendeva da lui arginare la reazione germanica. Si attendeva che il Paese seguisse ma, come vedremo, tra lui e gli italiani si interpose il Comitato di liberazione nazionale, ancora informale, ma decisivo per il futuro della monarchia in Italia. (*)

Aldo A. Mola


(*) Su regìa dello storico Marco Patricelli, il 9 settembre, nella Sala “Gabriele d'Annunzio” del Centro “Aurum” di Pescara, si svolge il convegno “La resa, la fuga, la patria”, con interventi di Roberto Olla, Ernesto Galli della Loggia, Lutz Klinkhammer, Francesco Perfetti, Luciano Zani, Mimmo Franzinelli e dei capi degli Uffici storici delle quattro Armi: gen. Antonino Neosi (Carabinieri), amm. Gianluca de Meis (Marina), ten. col. Edoardo Grassia (Aeronautica), ten. col. Emilio Tirone (Esercito), presente il ministro per la Cultura, Gennaro Sangiuliano.