di Aldo A. Mola
9 settembre 1943: quando
Vittorio Emanuele III salvò lo Stato
Il trasferimento del governo e
dei Reali da Roma a Brindisi via Pescara il 9 settembre 1943 fu e rimane
oggetto di valutazioni contrastanti, spesso condizionate da fattori ideologici
e dall'inclinazione ad addebitare alla Corona, anziché al governo, il collasso
delle forze armate. Pesò la disputa, anche giudiziaria, sulla cosiddetta
“mancata difesa di Roma” e l'insinuazione di quanti, come il giornalista
Ruggero Zangrandi, asserirono che tra Badoglio e i tedeschi sarebbe corsa un
baratto segreto per permettere il deflusso della colonna di autovetture da Roma
verso la costa adriatica. In realtà il 9 settembre il maresciallo Albert
Kesselring non aveva deciso se ordinare o meno la ritirata delle divisioni
germaniche dalle regioni meridionali. Dopo il 10 settembre puntò a
riorganizzare a proprio vantaggio i militari italiani premendo sul maresciallo
Ugo Cavallero, “suicidato” presso il comando tedesco a Frascati proprio perché
rifiutò di assumere la guida di un esercito anti-monarchico. Come lui, anche
Kesserling sapeva che la Corona costituiva il punto di riferimento dei militari
che avevano giuramento fedeltà al re. La nascente Repubblica sociale italiana,
tenuta a balia dai germanici, a sua volta puntò sulle categorie dell'onore e
della fedeltà. Contro le sue attese esse rimasero cardini di tanti soldati,
anche “sbandati”, come poi degli Internati Militari Italiani in Germania, che
infatti aderirono alla RSI in misura modesta e più per rientrare comunque in
Italia che per fiducia nel nuovo regime mussoliniano, come documenta il volume
di Avagliano e Palmieri (il Mulino, 2020). Con il passaggio da Roma a Brindisi
il re non salvò la “sua” Corona ma lo Stato: unico interlocutore delle Nazioni
Unite. Col realismo di chi conosceva novecentocinquant’anni di storia della
Casa, costellata di glorie e di tracolli, Vittorio Emanuele III prese atto che
la guerra era perduta, accettò l'armistizio e fece in modo che la sconfitta
divenisse premessa per la riscossa. L’Italia era caduta. Però grazie alla sua
iniziativa cadde sul fianco meno doloroso: a Occidente. Nei “quarantacinque
giorni” tra il 25 luglio e l'8 settembre, che poi furono meno di trenta se si
contano dalla decisione di chiedere la “concessione” della resa, ancora una
volta il re fu lasciato solo dai “politici”. Era già era accaduto nel 1922 e
dal 1924. Dopo il 25 luglio 1943, come vantò Ivanoe Bonomi in Diario di un
anno, i rappresentanti dei partiti antifascisti moderati in via di
riorganizzazione (i democristiani De Gasperi, Spataro, Gronchi; i liberali Casati
e Bergamini; Ruini, Della Torretta e Bonomi stesso per la Democrazia del
lavoro) decisero di astenersi da ogni collaborazione con il governo Badoglio.
Proprio De Gasperi spiegò che sarebbe stato un errore compartecipare alla
“partita passiva”, cioè alla conclusione dell’armistizio. Poiché la resa
avrebbe creato “responsabilità penose per i suoi negoziatori” era meglio farla
cadere interamente ed esclusivamente sulle spalle di Vittorio Emanuele III.
Comunisti, socialisti e partito d’azione, fondato nell’estate 1942, erano sic
et simpliciter per l’abolizione della monarchia. Che cosa avrebbe dunque potuto
fare il re di diverso rispetto a ciò che fece? Attendere a Roma l’avanzata
degli anglo-americani? Nello sbarco a Salerno, questi vennero inchiodati dalla
ferma reazione germanica. Subirono perdite elevatissime e capirono che i
tedeschi non erano affatto rassegnati a ritirarsi se non combattendo. Gli
alleati risalirono la penisola lento pede, cozzando contro tutte le “difese
inerti” (catene montuose, fiumi, carenza di rotabili e di ferrovie...) e
rimasero bloccati per mesi dinnanzi a Montecassino, la cui Abbazia fu
completamente distrutta da bombardamenti inglesi con inflisse un duro colpo
all’immagine dei “liberatori”, già fortemente vulnerata dalla loro condotta dei
militari a Napoli e poi dei marocchini francs-tireurs “francesi”. Era dai tempi
del bizantino Belisario che nessuno si era proposto di conquistare l’Italia via
terra anziché “per manovra”, come ormai si poteva fare con sbarchi sulle coste
e supporto aereo.
Il Principe ereditario doveva rimanere a Roma?
Che cosa avrebbe dovuto fare
il principe Umberto di Piemonte? Come militare doveva ubbidire agli ordini del
capo del governo. Quale erede della Corona doveva attenersi a quelli non meno
perentori del padre. Anziché seguire Badoglio e il sovrano, avrebbe dovuto/potuto
rimanere a Roma o in clandestinità nei suoi pressi per guidarvi la resistenza.
Dove e come avrebbe posto base? Avrebbe dovuto fare quotidianamente conto con
l'ostilità della maggior parte degli antifascisti antimonarchici nei confronti
dei quali i moderati, militari a parte, furono sempre succubi. Proprio la sorte
dei militari risulta emblematica. Fu il caso del colonnello Giuseppe Lanza
Cordero di Montezemolo (Roma, 1901-1944) e delle decine di collaboratori del
Fronte militare clandestino, talora catturati su delazione, ferocemente
seviziati, rinchiusi nel carcere di Regina Coeli e poi assassinati alle Fosse
Ardeatine nella rappresaglia eseguita da Kappler su ordine perentorio di Hitler
in risposta all’attentato di via Rasella (23 marzo). Vi vennero sterminati
quasi al completo i dirigenti monarchici e dell’estrema non comunista
(“Bandiera Rossa”), oltre a ebrei, una ventina di massoni (tra i quali Placido
Martini, gran maestro designato) e a detenuti del tutto apolitici. In
alternativa, rimanendo a Roma e sempre che fosse riuscito a sfuggire alla
prigionia a differenza di quanto accadde alla sorella, Mafalda (catturata dai
tedeschi con un inganno e deportata in Germania, ove morì in campo di
concentramento), e a Francesca Maria, (a sua volta “internata”), il principe
ereditario avrebbe potuto/dovuto rifugiarsi nei Sacri Palazzi, come il generale
Bencivenga (massone), Soleri (temporaneamente) e altri molti? Per farci che
cosa? La storia della “Resistenza Monarchica”, alla quale hanno dedicato pagine
documentate Domenico De Napoli, Francesco Garzilli, Marco Grandi e per il cui
studio rimangono fondamentali le memorie di Edgardo Sogno, fondatore della
organizzazione partigiana “Franchi”, e quelle di Alfredo Pizzoni, presidente
del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, insegna ad abundantiam che
per i militari rimasti in armi contro i tedeschi non esistevano “santuari”. Fu
la sorte del generale Giuseppe Perotti, capo del comando militare del CLN
Piemonte, arrestato, torturato, condannato a morte (alla lettura della sentenza
ordinò ai coimputati: “Signori ufficiali, in piedi. Viva l'Italia!”), e di
tante “missioni” paracadutate nelle zone prevalentemente controllate da
formazioni comuniste. Risultano generose fantasie le pretese di quanti ritengono
che il principe avrebbe dovuto farsi paracadutare al Nord per prendere la guida
di formazioni partigiane.
La sicurezza delle residenze
sabaude prima e dopo il 25 luglio
Nell'Italia
centro-settentrionale persino le residenze sabaude non erano mai state del
tutto inviolabili. La loro sicurezza aveva costituito motivo di preoccupazione
per il primo aiutante di campo del re da molto prima della guerra, per il
ripetersi di minacce e di tentativi d’attentato di cui i giornali ovviamente
non parlarono, ma sono copiosamente documentati nelle carte dell'Archivio
Centrale dello Stato. Non era sicuro neppure il Palazzo Reale di Torino. Per
esempio, il primo aiutante di campo del principe di Piemonte, generale Clerici,
il 29 marzo 1931 informò il pari grado del re che il servizio di guardia aveva
rinvenuto sotto il portico della piazzetta reale antistante piazza San Giovanni
“un pacco avvolto in un giornale” alla base di una colonna. Due agenti di
pubblica sicurezza lo svolsero e non tardarono a scoprire che si trattava di
ordigno esplosivo a orologeria, rapidamente portato lontano da persone e
fabbricati ed esploso alle 6 e 18 mattutine. Era un “tentativo terroristico,
anziché un vero e proprio attentato” conclusero gli inquirenti. Il colonnello
comandante la divisione di Torino dei Reali Carabinieri dispose pertanto misure
di sorveglianza: pattuglie fisse e campanelli elettrici nelle garitte del
giardino reale per consentire ai carabinieri in servizio l’immediata richiesta
di soccorsi. Due anni dopo, un furto di galline nel giardino fece constatare
quanto fosse agevole introdursi nella residenza reale. “Poiché le condizioni
del bilancio non consentono assolutamente di affrontare la spesa di lire
Diecimila (...) per collocare lungo il muro un dispositivo di allarme”, si
propose una “semplice intensificazione del servizio di vigilanza”, ma, in
carenza di uomini, si optò per la riduzione dell’abbondante vegetazione contro
muro, al fine di scoraggiarne lo scavalcamento abusivo. Per garantire la
sicurezza del sovrano bastava potare le siepi? Se tali “incidenti” si
ripetevano in tempi “normali”, molto più allarmante fu l’irruzione di militari
tedeschi nella tenuta di San Rossore (Pisa), verificatasi il 29 luglio 1943,
quattro giorni dopo il fermo di Mussolini e mentre l'Italia “continuava la
guerra” a fianco della Germania. Dapprima venne sospettato l’approdo di mezzi
anfibi, poi vi planarono due aerei “di nazionalità tedesca tipo S. S. L. U. (Cicogna)”,
atterrati e ripartiti prima che sopraggiungessero le guardie di vigilanza. Alle
20 e 30 dello stesso giorno un altro aereo tedesco atterrò e decollò in pochi
minuti. Identificato, l’equipaggio accampò avarie. Ma il 12 settembre le SS di
Otto Skorzeny mostrarono che cosa si potesse fare con un aereo di quel genere,
prelevando Mussolini da Campo Imperatore sul Gran Sasso. Infine quattro
ufficiali a bordo di auto dalla targa debitamente annotata forzarono
agevolmente il blocco dell'unico carabiniere di guardia a uno degl’ingressi di
San Rossore e perlustrarono la tenuta. E si era solo a fine luglio, non dopo
l’8 settembre. Sin dal 15 giugno, del resto, il comandante della direzione
generale trasporti dello stato maggiore dell’esercito informò l'aiutante di
campo del Re, Paolo Puntoni, che era stato interdetto il transito e lo scarico
di convogli germanici negli scali di Pisa e di San Rossore, nonché la “sosta”
di treni e carri contenenti carburanti ed esplosivi. Ormai ci si preparava alla
resa dei conti con l'ex alleato. Molto di più si potrebbe sapere se parte del
carteggio riservatissimo del primo aiutante non fosse stato “ritirato” per
ignota destinazione dal Servizio Informazioni Militari (SIM) il 25 luglio 1946,
dopo la partenza di Umberto II dall'Italia.
La Corona sotto assedio
Il 29 settembre Badoglio
sottoscrisse a Malta il cosiddetto “armistizio lungo” (44 punti contro i 12 di
Cassibile), duramente peggiorativo delle già pesanti condizioni imposte il 3
settembre. Secondo H. Hardy Butcher, Eisenhower “non volle firmare l’atto
conclusivo di quello che aveva definito un crooked deal, uno sporco affare”.
Tale “strumento di resa” risultò talmente lesivo per l'Italia che, subentrato a
Badoglio a capo del governo, Bonomi chiese rimanesse segreto. La sua
propalazione avrebbe avvilito i militari del regio esercito, sconcertato i
partigiani nelle regioni del centro-nord e fornito argomenti alla Repubblica
sociale italiana. Dal 12 settembre 1943 la monarchia dovette fare i conti con
tre insidie concatenate. Prelevato da Campo Imperatore sul Gran Sasso d’Italia
ove era sotto labile sorveglianza e trasferito in Germania, Mussolini accettò
di assumere la guida dello “Stato repubblicano d'Italia”, poi Repubblica
sociale italiana: ove l'Italia da sostantivo retrocesse ad aggettivo (e tale rimane).
Accettò, anche per attutire la rappresaglia germanica e propiziare la
continuità amministrativa delle regioni comunque occupate dai tedeschi. Il 18
il duce tenne alla radio un discorso “di eccezionale violenza contro il re e
Badoglio”. Giorno dopo giorno rovesciò valanghe di recriminazioni contro la
monarchia, accusata di aver profittato degli unici veri protagonisti del
Risorgimento: Mazzini, Pisacane, la Sinistra storica...: argomenti usati anche
dagli antifascisti antimonarchici. Il secondo avversario della Corona, come
accennato, fu il Comitato centrale di liberazione nazionale che, riunito in
clandestinità, disconobbe il governo Badoglio, non rappresentativo dei partiti
antifascisti, lo accusò di aver abbandonato Roma nelle mani dei tedeschi e deliberò
unilateralmente di “deferire al libero voto del popolo (quindi a plebiscito, o
come poi si disse a referendum, NdA), convocato al cessare delle ostilità, la
decisione sul problema istituzionale” (5 ottobre 1943). In terzo luogo dovette
fare i conti con gli americani, che premevano per l’abdicazione del sovrano
senza valutarne le ripercussioni sia nell'Italia centro-settentrionale, sia
nelle regioni già libere da occupazione germanica e sul corso di una guerra
dalla durata imprevedibile, nel cui corso avevano bisogno della collaborazione
dell'unico Stato dItalia esistente: il regno. Il disorientamento dilagava anche
in ambienti moderati. Sotto la data 17-22 dicembre Bonomi annotò nel Diario l'
“atteggiamento dei liberali”, comunicatogli da Nicolò Carandini. Se il re si
fosse ostinato “a restare” avrebbero accettato “anche la situazione
rivoluzionaria”. Per “lasciare aperta la possibilità di difendere eventualmente
il principio monarchico nella futura costituente” i liberali volevano “una
monarchia pulita e non un cencio sporco come l'attuale sovrano”. Il re
prevedeva tali insidie. Dovette però fare i conti con una quarta minaccia, più
grave e pericolosa perché arrivava dall’interno del mondo sul quale aveva
ritenuto di far leva, non nell’interesse personale ma dello Stato. Il 24
ottobre Badoglio si fece tramite dei “precisi intendimenti” dei partiti
antifascisti animati, tra altri, da Carlo Sforza (senatore e Collare della SS.
Annunziata). Rientrato dagli Stati Uniti “pieno di rancore e di ambizione”,
questi agiva di concerto con democristiani napoletani (Giulio di Rodinò e
Angelo Raffaele Jervolino) e persino con liberali. A loro inderogabile avviso
il re doveva abdicare subito; il principe ereditario doveva rinunciare alla
successione e passare la corona al nipote, Vittorio Emanuele principe di
Napoli, di soli sette anni e quindi vegliato da un reggente, nella persona di
Badoglio stesso. Il rifiuto, aggiunse il maresciallo, avrebbe portato alla
caduta della monarchia. La proposta era statutariamente irricevibile. Il re la
respinse, sdegnato. Il reggente era previsto dallo Statuto solo “durante la
minore età del Re”. In caso di passaggio della corona a Vittorio Emanuele,
principe di Napoli, nato nel 1937, la reggenza andava conferita al prossimo
parente maschio (il duca Aimone d’Aosta, il conte di Torino o un altro principe
sabaudo) oppure alla regina madre, Maria José, che però era in Svizzera con i
figli, sempre a rischio di colpi di mano da parte dei nazisti. Solo in mancanza
di qualunque erede dinastico le Camere, “convocate entro dieci giorni dai
ministri” avrebbero nominato il reggente. Sennonché lo scioglimento della
Camera voluta da Badoglio e l'impossibilità di convocare il Senato per cause di
forza maggiore avevano paralizzato il Parlamento. Secondo l'articolo 16 dello
Statuto le disposizioni relative alla reggenza erano “applicabili al caso in
cui il re maggiore si trovi nella fisica impossibilità di regnare”. In un paese
allo sbando Vittorio Emanuele III tutto era tranne che “fisicamente impedito”.
Infine, quando pure avesse deciso di abdicare, avrebbe potuto farlo per sé, non
per il figlio. Badoglio fece persino approntare una curiosa serie di
francobolli del valore di 50 centesimi. La sua firma vi sovrastava dal basso in
alto la Lupa di Roma. Stampati dalla tipografia Richter di Napoli sulla fine
del 1943, non vennero mai “emessi”. Già una volta il maresciallo ci aveva
provato: nel 1929, quando “firmò” un francobollo da 50 centesimi con effigie di
Vittorio Emanuele III. La sovrastampa fu eseguita dallo stabilimento Raimondi
di Napoli sotto sorveglianza della direzione delle Poste e telegrafi di Napoli.
Già allora ne fu vietata l’emissione. D’altronde il maresciallo non era il solo
a cercar di mettere la “firma” sull’Italia. Anche Benedetto Croce fece la sua
parte. Per i giorni 27 e 28 gennaio 1944 venne indetto a Bari un convegno dei
Comitati di liberazione nazionale. Il 7 gennaio Sforza dichiarò a De Nicola,
senatore exurgens e flammis del lungo sonno attraverso il regime, di essere
disposto a trangugiare una luogotenenza del “sovrano fellone”, ma non a favore
di Umberto. “Escluso naturalmente anche l’ex re nazifascista di Croazia”, cioè
Aimone duca d'Aosta, aggiunse Sforza, “ogni altro principe p(oteva) essere
accettato sia come reggente, sia come luogotenente”. Al congresso di Bari Croce
sferrò un durissimo attacco alla persona di Vittorio Emanuele III, intimandone
l’abdicazione immediata. L’8 maggio, quando ormai tutto era consumato, in una
postilla a futura memoria, il filosofo rivendicò direttamente e primariamente a
se stesso 1’“eliminazione del re” di cui Sforza menava vanto: operazione alla
quale egli lavorò “in segreto, e diplomaticamente, con De Nicola”. Scrivendo di
sé in terza persona aggiunse: “Croce confessa e conferma di non essere dal suo
passato preparato a governare il suo paese, ma non si sente privo di buon senso
pratico...”. In quegli stessi giorni, però, rientrato da Mosca via Algeri,
Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano, preparò
l'offensiva politico-culturale contro di lui, tanto da metterlo nella
mortificante condizione di non ripresentarsi in consiglio dei ministri,
adducendo la fatica del viaggio. Malgrado tutte le difficoltà e ostilità da
Brindisi temporaneamente “capitale del regno”, Vittorio Emanuele III dette
impulso alla lotta di liberazione, in atto, come si dirà, sin dallo stesso 9
settembre 1943.
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