NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 29 agosto 2018

"La Stampa" 29 Agosto 2018 - Le Monarchie baluardo democratico di Juan Luis Cebrián

L'antico tricolore del Regno ritorna a Susegana: fu salvato durante la ritirata di Caporetto

Torna a casa a quasi centouno anni di distanza l’antico tricolore (nella foto)  che sventolava sulla cima del pennone del Comune di Susegana.
La bandiera venne salvata nel 1917 durante la ritirata di Caporetto, per volontà del capitano di un’autocolonna in transito per il paese. Per una delle tante coincidenze della storia, ad eseguire l’ordine fu il geniereUmberto Savoia, originario della Valpolicella, che ammainò il drappo con lo stemma della casa reale dei Savoia per salvarlo dall’invasore, conservandolo con cura e portandolo a casa al termine del conflitto.
A più di un secolo di distanza, il figlio Giulio, classe 1929, ha espresso il desiderio che la bandiera faccia ritorno a Susegana, proprio nell'anno del centenario della fine della Grande Guerra.
“Quando il signor Savoia ci ha contattato ci siamo commossi - racconta il sindaco Vincenza Scarpa - E’ stata una sorpresa e un regalo enorme per la nostra comunità. Insieme agli assessori Matteo Bardin e Enrico Maretto ci siamo recato a Sant’Ambrogio di Valpolicella e abbiamo potuto vedere la bandiera, che si trova in uno stato di conservazione perfetta”.
Non è ancora stato deciso, invece, dove verrà esposto l'importante cimelio: “Ora siamo in contatto con la Soprintendenza, per avere tutte le indicazioni necessarie su come conservare questo reperto in maniera adatta", spiega la prima cittadina.
La cerimonia ufficiale si terrà sabato 15 settembre alle ore 10.45 in piazza Martiri della Libertà, quando Giulio Savoia consegnerà nella mani del sindaco Scarpa la bandiera tricolore, alla presenza dei cittadini e di numerose autorità civili e militari.



martedì 28 agosto 2018

CULTURA  LUNEDÌ 27 AGOSTO 2018, 17:48 A Palazzo Madama arriva la mostra "La Sindone e la sua immagine"



In occasione della riapertura della restaurata Cappella della Sindone, opera di Guarino Guarini, Palazzo Madama propone dal 28 settembre 2018 al 21 gennaio 2019 la mostra La Sindone e la sua immagine, curata da Clelia Arnaldi di Balme con la consulenza scientifica di Gian Maria Zaccone,direttore del Centro Internazionale di Sindonologia di Torino.
L’allestimento, ideato dall’architetto Loredana Iacopino, è ambientato nella Corte Medievale di Palazzo Madama, suggestivo ambiente fatto edificare da Cristina di Francia nel 1636, dove sulla parete di fondo è ben visibile un affresco raffigurante l’Ostensione della Sindone organizzata nel 1642 per celebrare la fine delle ostilità tra la stessa Madama Reale, reggente per il figlio Carlo Emanuele II, e i suoi cognati, il Principe Tommaso e il Cardinale Maurizio. Il percorso espositivo ripercorre la storia della Sindone e le diverse funzioni delle immagini che l’hanno riprodotta nel corso di cinque secoli, da quando il Sacro Lino fu trasferito da Chambéry a Torino nel 1578, per volere di Emanuele Filiberto di Savoia, fino ad oggi.
Organizzata in collaborazione col Polo Museale del Piemonte, diretto da Ilaria Ivaldi, la rassegna presenta al pubblico un’ottantina di pezzi provenienti in particolare dal Castello di Racconigie dalla Fondazione Umberto II e Maria José di Savoia, che ha sede a Ginevra, e inoltre dal Museo della Sindone di Torino e dalle stesse collezioni di Palazzo Madama. Le opere avute in prestito da Racconigi e da Ginevra fanno parte della celebre collezione raccolta dal Re Umberto II. Molti di questi quadri erano già stati esposti nel 1931 a Palazzo Madama in occasione del matrimonio di Umberto di Savoia con la principessa Maria del Belgio.
Sono raffigurazioni della Sindone realizzate dal momento del suo arrivo in Piemonte nel XVI secolo fino al principio del 1900 con svariate finalità: immagini celebrative dinastiche in ricordo di Ostensioni avvenute in particolari festività ed eventi politici, oppure legate a avvenimenti storici; lavori di alto livello esecutivo accanto ad altri più popolari dagli evidenti scopi devozionali. Opere prodotte con tecniche diverse - incisioni, disegni e dipinti su carta, su seta o su pergamena, ricami e insegne processionali – dove la Sindone è presentata secondo rigidi modelli iconografici che lasciano, però, spazio alla fantasia dell’artista per l’ambientazione e la decorazione.
All’interno delle scene dipinte si alternano svariati personaggi storici, sia ecclesiastici sia della famiglia reale, le forme dei baldacchini, le immagini di carattere devozionale in cui il lenzuolo è sorretto dalla Madonna e dai Santi, le architetture effimere predisposte per la sua presentazione ai pellegrini in Piazza Castello, i simboli della Passione, le ghirlande fiorite e gli oggetti destinati alla devozione privata e al mercato dei souvenir. In apertura troviamo il grande dipinto a olio su tela di Pieter Bolckmann del 1686, raffigurante Piazza Castello affollata in occasione dell’Ostensione del 1684 per il matrimonio di Vittorio Amedeo II con Anna d’Orléans.
Dal Museo della Sindone provengono oggetti significativi come la cassetta che servì a trasportare la reliquia a Torino nel 1578 e la macchina fotografica da campo utilizzata da Secondo Pia, il primo a documentare fotograficamente la Sindone nel 1898.

domenica 26 agosto 2018

La morte di Mafalda di Savoia Assia, una tragedia italiana


di Aldo A. Mola

Il 28 agosto 1944 la principessa Mafalda di Savoia (“Muti”, in famiglia), consorte di Filippo Landgravio d'Assia, morì dopo una tardiva amputazione del braccio sinistro, ustionato sino all'osso,  per fermare la cancrena generata dagli spezzoni di bombe anglo-americane che l'avevano ferita. L'intervento ebbe luogo nell'ambulatorio improvvisato nel postribolo del campo di concentramento di Buchenwald. Il 24 precedente migliaia di fortezze volanti partite da basi remote bombardarono a tappeto le Officine Gustloff e i dintorni. Churchill, in visita a Napoli, voleva dare una lezione alla Germania, già piegata dalla sconfitta inflittale dai sovietici a Kursk. Nessuno immaginava che al bordo del campo vivesse la figlia di Vittorio Emanuele III, catturata a Roma il 22 settembre 1943 per ordine di Hitler e lì detenuta dal 8 ottobre. “Povera foglia frale...” la Principessa lasciò  la vita terrena.

Riscoprire la tragedia di  Mafalda di Savoia-Assia  significa compiere un passo avanti nella conciliazione della memoria storica, con quanto può derivarne nella vita quotidiana. Più serenità, più responsabilità. Ne scrisse l'imperiese Renato Barneschi in “Frau von Weber”  nel 1982 (poi, Bompiani, 2006), seguito dal bel saggio sulla “Regina della Carità”, come Elena venne definita. Il 18 marzo 1983 morì a Ginevra Umberto II, iniquamente condannato all’esilio perpetuo dalla Repubblica italiana: una condotta abbietta nei confronti del Re Gentiluomo, che volle con sé nel feretro il regio sigillo. Deposto nell’Abbazia di Altacomba, antico sepolcreto della Casa, a quel modo  il Re mandò il suo ultimo messaggio agli italiani: dovevano e debbono farsi carico della propria storia, tutta.
Il mònito non fu raccolto.  Eppure basta rievocare di Mafalda di Savoia-Assia per chiudere finalmente la sterile polemica retrospettiva contro la Casa, che sin da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, sul trono dal 1831, legò le sue sorti alla lotta per indipendenza, unità e libertà degli italiani. Pagando molto.  Nella carne. Ne fu esempio lo stesso Carlo Alberto, che il 23 marzo 1849, la sera della battaglia di Novara abdicò e partì per il Portogallo, ove si spense, consunto, il 28 luglio, appena cinquantunenne. Al protomedico Alessandro Riberi, mandatogli dal figlio, Vittorio Emanuele II, bisbigliò quasi scusandosi: “Le voglio bene, ma muoio”. Suo  nipote, Umberto I, fu assassinato a Monza il 29 luglio 1900, poco dopo aver insediato il governo liberal-progressista guidato dall'ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato. E quindi fu la volta di Vittorio Emanuele III, che abdicò e partì per l'Egitto il 9 maggio 1946, e, di lì a poco, di suo figlio, Umberto II, appunto, che lasciò la Patria per il Portogallo il 13 giugno 1946. Senza ritorno.

Vicende dimenticate, deformate da letture faziose, con cesure,  censure  e ampie zone d’ombra.
Fra le molte rimane ingiustificabile il lungo oblio riservato a Mafalda. La sua vicenda basta da sola a dire quanto una livorosa  polemistica  non vuol sentire né ammettere: nel dramma della seconda guerra mondiale Casa Savoia fu tutt’uno con le famiglie italiane anche nella sofferenza e   nel lutto.
Un anno prima della tragica morte, il 28 agosto 1943, Mafalda  era partita da Roma per raggiungere la sorella, Giovanna, consorte dello zar dei bulgari, Boris III, che rientrato da un tempestoso incontro con Hitler, ammalò d’improvviso (probabilmente avvelenato perché non approvava le misure contro gli ebrei e intendeva sganciare il proprio paese dall'alleanza con i tedeschi) ed era ormai agonizzante. Suo marito, sposato nel Castello di Racconigi il 23 settembre 1925, dopo l’attentato del 20 luglio 1944 al Fuehrer  era  in stato d’arresto. Il viaggio di rientro in Italia per la principessa Mafalda fu un'odissea. Alla stazione di Sinaia, in Romania, venne informata della svolta in atto in Italia (proclamazione dell'armistizio, trasferimento della Casa Reale e del governo in Puglia) e invitata a rimanere. Proseguì per raggiungere i figli, a Roma, forte del suo rango. L'aereo predisposto per il suo trasferimento da Budapest a Bari atterrò a Pescara. Da lì raggiunse fortunosamente Roma. Mafalda si riteneva al sicuro proprio per il rango di Prinzissin, che agli occhi dei nazisti, ferocemente antimonarchici, era invece un'aggravante, come ricorda Frédéric Le Moal nella biografia di Vittorio Emanuele III (Gorizia, LEG). Mentre il figlio maggiore, Maurizio, già in Germania, era a portata  di mano di Hitler,  la regina Elena lasciando Roma ne aveva affidato molto fiduciosamente i figli minori, Enrico, Otto ed Elisabetta, al sostituto segretario di Stato della Santa Sede, Giambattista Montini, che però presto li allontanò perché, accampò, sopraggiungevano nipoti suoi.
Pertanto anche i principini d’Assia finirono a loro volta in Germania. Nella Città Eterna caduta sotto il controllo di Kappler,  Mafalda finì in un tunnel  senza uscite. Si fidò dei germanici sino a recarsi alla loro ambasciata ove (le era stato assicurato) sarebbe stata chiamata al telefono  dal consorte Filippo. Lì, invece, venne arrestata (22 settembre 1943).  Nel campo di  Buchenwald, che aveva per insegna “A ciascuno il suo”, Fu assegnata  alla  stanza 9 della baracca 15. 
Come centinaia di migliaia di connazionali ignari della sorte dei loro cari (dispersi, prigionieri,...), i sovrani, il principe ereditario Umberto e tutti i suoi famigliari e amici rimasero in angosciosa attesa di notizie della principessa, prigioniera in mani studiatamente crudeli. Della sua atroce fine dettero notizia i  giornali,  con commenti ingenerosi e inopportuni,  il 14 aprile 1945. Scrissero crudamente  che Mafalda di Savoia-Assia era morta per le ferite riportate nel bombardamento del lager in cui era rinchiusa. L’aiutante di campo di Umberto di Piemonte, Luogotenente del Regno, ne informò subito il generale Paolo Puntoni, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, affinché  i sovrani “non leggessero la tremenda notizia sui giornali”. Puntoni ne riferì subito al Re. Nel Diario annotò che il sovrano “come sempre (...) non lasci(ò) trapelare alcun turbamento” e continuò la conversazione in corso con Brunoro De Buzzaccarini. Solo un quarto d’ora dopo, Vittorio Emanuele III  s’appartò per riferirne alla Regina. Ma quell’informazione era davvero esatta? Seguirono settimane di angoscia, sino a quando il 2 maggio, proprio quando in Italia  cessò la guerra, tramite  i canali informativi della Santa Sede, venne  la conferma. Quando ne ebbe certezza, il Re  assunse “quell’atteggiamento che, per chi non lo conosce a fondo, può sembrare cinico; e io so  - scrisse Puntoni -  che egli soffre terribilmente...”. Liberati, come il padre, al crollo del nazismo, Maurizio ed Enrico d’Assia furono poi ripetutamente a Villa Jela, ad Alessandria d’Egitto, ove Vittorio Emanuele III prese dimora dopo la partenza dall’Italia per l’esilio (9 maggio 1946). Lo ricordò Tito Torella di Romagnano in  “Villa Jela” (Garzanti).

Della morte della principessa (vittima della deportazione, del bombardamento anglo-americano, del forse voluto ritardo nella cura delle gravissime ferite) non si doveva parlare tra fine della guerra e referendum istituzionale. La morte di Mafalda in campo di concentramento provava che Casa Savoia aveva combattuto e pagato la sua opposizione al dominio nazista. Dal settembre 1943 la Corona aveva trasformato il conflitto in lotta di liberazione, ancora una volta ponendo a servizio della Patria  le persone dei sovrani, i loro figli e i loro beni.  Doveva  rimanere misconosciuta  la figura di Mafalda, delicata e forte a un tempo, atrofica come il padre ai muscoli degli arti inferiori e tuttavia  attivissima, dedita alla beneficenza generosa e discreta, come sua madre, Elena.  Per quotidiani ed  emittenti radiofoniche  incitanti all’odio e al disprezzo nei confronti di Casa Savoia, la morte di Mafalda in un campo di concentramento nazista sparigliava le carte. Lo stesso valeva per la sorte della figlia minore dei sovrani, Maria, di cui ha scritto la principessa Maria Gabriella di Savoia  in La vita a Corte in Casa Savoia. Né se ne poté scrivere dopo il referendum fu frutto di migliaia di brogli largamente documentati in  documenti mai confutati.
Il silenzio su Mafalda coprì due altri aspetti della verità. Anzitutto  la pietas di padre Herman Joseph Tyl. Quando riconobbe la salma della Prinzessin, con sollecitudine egli la sottrasse al forno crematorio, cui era destinata, e la fece avviare a Weimar ove venne sepolta, sia pure come “donna sconosciuta”. Nel lager del resto la Principessa era stata registrata sotto il nome di  “frau von Weber”. Sette  marinai di Gaeta internati a Weimar però ne riconobbero la sepoltura e la segnarono. Fu la conferma della fraternità nel dolore, propria dell’identità italiana. Ma anche questo doveva passare sotto silenzio, come  ha ricordato anche Mariù Safier nella oggi introvabile biografia di Mafalda, scritta con penna lieve e ricchezza documentaria in Mafalda di Savoia Assia dal bosco dell'ombra poi arricchita in Mafalda di Savoia Assia. Un ostaggio nelle mani di Hitler (Bastogi).

Settantadue anni dopo il cambio istituzionale del giugno 1946 e mentre l'assetto istituzionale scricchiola per tracotanza di due vicepresidenti e l'evanescenza del presidente del Consiglio, la straziante sorte di Mafalda di Savoia-Assia s'impone quale parte integrante della storia dell’Italia del Novecento. I sovrani, il principe  ereditario, tutta Casa Savoia portarono il lutto al braccio, come milioni  di connazionali. Erano gli stessi che all’inizio del secolo avevano scommesso su un progresso ininterrotto, senza traumi bellici, ma  poi fecero i conti con la grande guerra e nel ventennio seguente fronteggiarono  la grande depressione economica  con l’IRI, le bonifiche, il rilancio industriale e manifatturiero,  sempre nella certezza che il lavoro premia più delle avventure. La concordia deve prevalere sull'odio, sull'invidia di classe, sulle falsità spacciate per storiografia.
Quell’Italia commise vari errori, e anche gravi. Ma in una monarchia statutaria responsabile degli errori non è il Re solo (né, meno ancora, un sovrano isolato quale fu Vittorio Emanuele III, tuttora in attesa di una biografia scientifica) sibbene l’intera dirigenza, che ne fu quanto meno corresponsabile. Osò dirlo Aimone di Savoia-Aosta con la franchezza tipica della sua Casa: e fu a sua volta costretto all’esilio. Lo ricorda anche Amedeo di Savoia in Cifra Reale.  Il ricordo della figlia del Re morta nel campo di sterminio ove  s’ergeva la  Goethe Eiche, la Quercia di Goethe, costituisce dunque un invito a riflettere sulla storia italiana del Novecento con passione, perché si tratta di pagine dolenti, ma finalmente senza pregiudizi paraocchi. Casa Savoia, ne emerge con chiarezza, fu tutt’uno con ogni altra famiglia dell’ “itala gente da le molte vite”. Il martirio di Mafalda ne è appunto il suggello.
Vanno aggiunte poche altre osservazioni. Con la Grande Guerra crollarono gli imperi di Russia, Turchia, Austria-Ungheria e Germania. Il Regno d'Italia rimase l'unica monarchia costituzionale rilevante nell'Europa di terraferma. Vittorio Emanuele continuò la “grande politica” degli avi, con il conferimento del Collare dell'Ordine della Santissima Annunziata e alleanze dinastiche. A parte le nozze della primogenita Jolanda (“Anda”) con il conte Carlo Calvi di Bergolo (non gradito dalla Regina Madre, Margherita di Savoia), nel 1925 “Muti” andò in sposa al Langravio d'Assia, Filippo, che operava per traghettare la Germania dal caos postbellico: un luterano. Giovanna, terzogenita, sposò  l'ortodosso Boris III, zar dei Bulgari. La Santa Sede non gradì né l'uno né l'altro matrimonio e interpose clausole medievali. Ma il Re, che nel 1896 aveva sposato l'ortodossa Elena di Montenegro, pensava anzitutto all'Italia nel difficile quadro europeo (l'URSS non era un amico...) e e alla libertà di coscienza di tutti i regnicoli. Nella  sua difficile opera non venne affatto aiutato. Un Re in solitudine (come Vittorio Emanuele III drammaticamente fu dal 1938 in poi) è un paradigma per i presidenti sotto assedio  dei tempi nostri. Fu il caso di Giovanni Leone e di Francesco Cossiga.
Quale sorte attende Sergio Mattarella? Tocca agli italiani dotati di senso della storia, alimento del senso dello Stato, rimboccarsi le maniche e coniugare l'oggi con il lungo corso dell'Italia unita.
E' significativo che nell'anniversario della sua tragica morte Mafalda di Savoia venga ricordata a Pamparato, due passi da Vicoforte ove dal dicembre 2017 riposano le salme dei suoi genitori: luoghi di pace e di meditazione.  

    Aldo A. Mola           
          
         


sabato 25 agosto 2018

MESSAGGIO DI S.A.R. IL PRINCIPE AMEDEO DI SAVOIA - AOSTA ALLA CITTA’ DI GENOVA


Pamparato (Cuneo) ricorda Mafalda di Savoia, "da Principessa a deportata"


Il Comune, tramite la Biblioteca Comunale, e la onlus "col. Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo", hanno organizzato, per mercoledì 28 agosto 2018, anniversario della morte nel campo di concentramento di Buchenwald, una tavola rotonda dal tema "Mafalda di Savoia da Principessa a Deportata".

I lavori si svolgono nel Municipio, già Castello di Caccia della famiglia nobiliare Cordero di Pamparato, alle ore 17,30.


Coordina il giornalista Claudio Bo.


Relatori: l'on. prof. Sergio Soave, Presidente dell'Istituto Storico della Resistenza della Provincia di Cuneo, il prof. Mola, storico, la prof.sa: Aimar, fondatrice del Centro Studi Principe Oddone, il Marchese Cordero di Pamparato, autore studi storici.


venerdì 24 agosto 2018

Continuano i processi farlocchi a Re Vittorio Emanuele III

Dal quotidiano di Napoli "Il Mattino" apprendiamo che l'ineffabile magistrato della repubblica Woodcock troverà il tempo per partecipare, ovviamente in qualità di pubblico ministero, quindi la pubblica accusa, ad uno dei tanti processi che si tengono ogni tanto a carico di Re Vittorio Emanuele III. 
Questo si terrà nella generosa terra del Cilento che diede infinita maggioranza alla Monarchia al referendum istituzionale del 1946.
Ci chiediamo se i magistrati dello stato non abbiano cose più impellenti da fare per garantire che gli italiani abbiano la giustizia cui hanno diritto. Ma tant'è...
Bontà loro apprendiamo che questa volta si prevede addirittura una difesa del Sovrano che completò l’Unità Nazionale.
Non possiamo che sorridere pensando che dati gli ottimi risultati delle precedenti inchieste del magistrato, anche ai danni di Casa Savoia, conclusesi con il risarcimento per ingiusta detenzione, Vittorio Emanuele III uscirà dal dibattimento con un “non luogo a procedere”.

Di seguito la notizia de “Il Mattino”.

Lo staff




Le colpe di uno Stato incapace di controllare

di Salvatore Sfrecola

La tragedia di Genova insegna che le responsabilità del concessionario non assolvono chi ha operato per far perdere efficienza e prestigio alla pubblica amministrazione: pesa anche la cattiva politica che non dà direttive e non sa scegliere i collaboratori

Ci  voleva la tragedia di Genova, ultima in ordine  di tempo tra i crolli di ponti e viadotti, le frane e le esondazioni che periodicamente costituiscono l’emergenza di questo Paese, che spende per tali eventi più, molto più di quanto avrebbe dovuto impegnare per la prevenzione ed i controlli, perché qualcuno si soffermi sulla realtà dell’amministrazione pubblica ormai  inadeguata, da rifondare . Non che manchino eccellenze e strutture adeguate in ogni settore, ma è evidente che l’Amministrazione nei suo complesso è molto lontana da quella che l’Italia aveva conosciuto in passato. Basta riandare un po’ alla storia per rilevare come siano venuti meno professionalità e presidi che un tempo erano il fiore all’occhiello dello Stato e degli enti, territoriali e istituzionali.
Per non sembrare un laudator temporis acti riprendo quanto ha scritto pochi giorni fa, il 18 agosto, su Facebook, il professor Guido Melis, noto storico delle istituzioni il quale ha ricordato che «c’era una volta il Genio civile. Dopo l’unità, nell’Ottocento, fece letteralmente l’Italia, costruendo strade, ponti, edifici pubblici. Li progettava, li realizzava, li manuteneva. Aveva il corpo di ingegneri civili più prestigioso d’Italia. Poi lo Stato si espanse.
Le opere si fecero più numerose e costose. Allora si fece ricorso alle imprese  private. Si stipularono contratti d’appalto. Il Genio civile, amministrazione dello Stato, adesso per lo più vigilava. Il verbo vigilare è un verbo ambìguo. Allora significava conoscere i progetti delle imprese, seguirne l’esecuzione, controllarne nel tempo la manutenzione. L’occhio dello Stato funzionava. Corpi scelti di ispettori, dotati di elevate capacità tecniche, vedevano e provvedevano. Era cosi con Giolitti e fu così col fascismo.Un ingegnere del Genio in provincia era un’autorità. E cosi il capo dell'ufficio tecnico erariale, l’intendente di finanza, il prefetto. Ogni autorità nel suo settore agiva con ampi poteri di vigilanza. Nel secondo dopoguerra questo sistema saltò».
La citazione è lunga ma essenziale e dice con l’autorevolezza del cattedratico cose che ho sempre detto e scritto io sulla base dell’esperienza maturata nella magistratura contabile, nel controllo e nella giurisdizione di responsabilità, un osservatorio prezioso delle amministrazioni statali, regionali e degli enti locali.
Aggiungo quanto ho appreso leggendo ed osservando nell’esercizio di collaborazioni con alcuni ministri, in specie  ai Lavori pubblici, ai Trasporti e alla Marina mercantile, funzioni oggi confluite in un unico ministero «delle infrastrutture», Ho trovato ovunque funzionari di elevata professionalità e di alto senso dello Stato ma anche molte scartine, persone incapaci di aggiornarsi, di studiare e di assumersi delle  responsabilità.
Nei primi anni Novanta, in chiusura di un convegno a Perugia, promosso dalla Regione dell'Umbria sul tema della gestione del patrimonio, l’allora ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, facendo riferimento ad un mio intervento sul tema della responsabilità dei pubblici funzionari per danno all’Erario, disse che molti suoi funzionari si sarebbero fatti tagliare le mani piuttosto che firmare e assumersi una responsabilità. Replicai che avevo visto sotto processo soltanto incapaci o disonesti. Ma quella del ministro era comunque un a parte della realtà, una convinzione ampiamente condivisa tra i burocrati, certamente tra i meno preparati.
L’altra parte va individuata nella cattiva politica, quella che non è capace di dare direttive alla struttura e di scegliere i collaboratori. La politica che ha riempito i ministeri di incaricati di funzioni dirigenziali provenienti dall’area politica del ministro, persone spesso senza arte né parte, arroganti quanto incapaci, soprattutto di dirigere e coordinare i propri collaboratori.
La norma dice di incarichi da conferire «a persone di particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria , da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi...». Letta così sembra una cosa importante. Ma il linguaggio ampolloso nasconde una realtà diversa, quella che ha consentito di riempire gli uffici di affiliati ai partiti, tratti da centri studi e da sezioni dove sono parcheggiati i portaborse. E, ancor più grave è stato l’incarico di funzioni dirigenziali a dipendenti pubblici che non sono riusciti a vincere un concorso da dirigente.
Nel 2001 a Palazzo Chigi c'era Giuliano Amato ed alla Funzione pubblica Franco Bassanini che quell’incarico aveva ricoperto anche nel precedente governo di Massimo D’Alema. Naturalmente ne hanno approfittato tutti i governi, a cominciare da Silvio Berlusconi e Matteo Renzi.
In queste condizioni la pubblica amministrazione italiana ha perduto le capacità operative e progettuali e anche quelle di vigilanza e controllo  che sarebbe stato necessario potenziare progressivamente a mano a mano che si procedeva nelle privatizzazioni, perché il passaggio di  attività imprenditoriali a privati, come la gestione della rete autostradale, avrebbe dovuto essere accompagnata da uno sviluppo delle capacità di monitoraggio delle gestioni, sia dal punto di vista giuridico ed economico che da quello tecnico. È evidente che, perse le capacità tecniche che in passato avevano distinto il ministero dei Lavori pubblici, la cultura del vigilare si è sviluppata secondo modelli di verifica formale successiva, sulle carte anziché sul posto, sur place, come fa la Corte dei conti europea, attuando una sorta di controllo fideistico avente ad oggetto le attestazioni del concessionario. Insomma, facciamo a fidarci. 
Una annotazione finale. Perduta la cultura scientifica che aveva caratterizzato il vecchio Genio civile, anche gli ingegneri sono diventati dei burocrati dediti solamente al controllo delle carte, in una condizione, quindi, che non consente loro di interloquire da pari a pari con i concessionari i quali affidano le loro relazioni ad illustri cattedratici.
«Lei pensa che io potrei contestare quanto scrive il mio professore, quello che mi ha insegnato all’università?», mi sono sentito dire più volte ad ogni contestazione quando la vigilanza ed i controlli non apparivano sufficientemente approfonditi. Come a Genova, dove sarà presto chiaro che le evidenti responsabilità del concessionario non potranno assolvere lo Stato che, si scoprirà, avrebbe dovuto controllare e non accettare ciecamente le relazioni tecniche dell’appaltatore, anche quando sottoscritte dal maestro dell’ingegnere di turno.

Con un’amministrazione priva di corpi tecnici adeguati alle esigenze è facile per politici sensibili alle sirene dell’imprenditoria nazionale e locale aderire alle richieste dei concessionari desiderosi di avere mano libera nella prospettiva di maggiori guadagni. Di queste scelte si accusa oggi il governo Berlusconi. Siamo nel 2008, ma è anche vero che ripetutamente il senatore Lucio Malan, di Forza Italia, ha interrogato invano i ministri delle Infrastrutture responsabili della proroga delle concessioni, segnalando l’evidente contrasto di quelle decisioni con le regole europee della concorrenza.

giovedì 23 agosto 2018

E se l'Italia si riaffidasse ai Savoia?



La monarchia, nel 2018, è davvero così «fuori moda»? È la domanda che pervade le pagine del bel libro «Conversazione sulla monarchia» di Histórica Edizioni, praticamente il resoconto di una lunga chiacchierata tra il giornalista Rai Adriano Monti Buzzetti Colella e l'avvocato cassazionista Alessandro Sacchi, presi dente deirUnionc Monarchica Italiana.
La risposta di Sacchi, ovviamente, non può che sottolineare l'attualità del sistema monarchico, non fosse altro per la sua presenza in alcune delle democrazie più apprezzate dell'Occidente,  dal Regno Unito alla Spagna, dall'Olanda al Belgio.
Paesi nei quali - spiega il presidente dell'Umi - la presenza della figura del Re, super partes c davvero unificante, ha contribuito al superamento di drammi e voragini istituzionali che avrebbero potuto mettere a dura prova le rispettive popolazioni. Basti pensare proprio al Belgio, dove la storica inimicizia tra fiamminghi e valloni trova «unificazione» proprio sotto la figura della Casa Reale, una presenza così «rassicurante» da far tollerare anche una lunga parentesi senza un governo capace di prendere il comando del Paese. Potrebbe la monarchia tornare anche in Italia? Stando alla Costituzione, no. Ma, nella conversazione tra Sacchi e Monti Buzzetti, emerge proprio la denuncia di quello che rappresenta l'articolo 139 della Carta repubblicana, l’obbligo della forma repubblicana che, di fatto, rappresenta una vera e proprialimitazione della volontà popolare. 
[...]

"Il Tempo", 13 agosto 2018.


mercoledì 22 agosto 2018

Il libro azzurro sul referendum - XII cap - 2



«Il Consigliere Cosentino, seguendo scrupolosamente istruzioni dall'alto che fra poco si preciseranno, telefona a Pagano: «Debbo farle una comunicazione, riservatissima. Le mando persona di fiducia, il consigliere Vitali». «Il Re ha deciso di lasciare il Paese domani - comunica riservatamente il Consigliere Vitali a Pagano - decisione irrevocabile. Partirà alle 15. Il Re la prega pertanto di procedere alla riunione della Corte entro le dodici di domani; e che sia una riunione di carattere conclusivo, sì da chiudere la partita una volta per sempre, e permettergli di lasciare il Regno in una situazione assolutamente regolare. Entro le ore dodici di domani tutto deve essere fatto, questo è l’intendimento di Sua Maestà ».
Nel tardo pomeriggio il ministro Lucifero apprende casualmente la cosa. Telefona immediatamente a De Gasperi, ma gli si risponde che «il Presidente è a Castel Gandolfo, per una giornata di riposo». Rintraccia allora Arpesani segretario del Consiglio dei Ministri, cui denuncia, in termini di furore, la manovra (naturalmente il Sovrano non ha affidato alcun incarico per Pagano; non c’è una parola di vero nella «comunicazione» di Vitali al magistrato) raccomandandogli di smentirla sia con Pagano, sia con Pilotti, Procuratore Generale della Suprema Corte, senza perdere tempo.
Arpesani telefona a Pagano: «Smentisco formalmente che il Re abbia deciso di partire domani alle 15. Smentisco che Sua Maestà le abbia inviato alcuno con la richiesta di chiudere la partita entro le dodici di domani».
Pagano conferma quanto Arpesani sa, e commenta: «Sono molto sorpreso di tutto questo. Non ci si raccapezza più. La ringrazio molto! ». Poi Arpesani telefona a Pilotti; identica smentita. Pilotti risponde: «Si, io ho saputo della pretesa decisione del Re e della necessità che sia riunita immediatamente la Corte, proprio poco fa, dal Presidente Pagano!»
Finalmente De Gasperi rientra a Roma e telefona candido a Lucifero: De Gasperi: «Caro .Ministro, quella cosa (formula prudenziale telefonica per indicare la riunione della Cassazione) si fa domani alle 12 ».
Lucifero con uno scatto: «Non si fa nulla! Lei oggi alle 13, dico non più tardi di oggi alle 13, mi ha dichiarato che il Governo è completamente all’oscuro di quanto decide la Corte, che agisce, secondo lei, in piena libertà! Mi ha parlato di turris eburnea... Ebbene, io sono venuto a sapere che il Consigliere Vitali è stato inviato a S. E. Pagano per comunicargli... » e gli rifà la storia della macchinazione.
Il crescendo di Lucifero impressiona il Presidente e, mentre quello ripete « F'accio uno scandalo » De Gasperi: «Per amor del cielo si calmi. Veda un po’ cosa succede se mi allontano un momento. Come è stato possibile questo increscioso equivoco? Sono costernato. Intervengo immediatamente!». Poco più tardi richiamerà per dire: «Chiarito l’equivoco. Tutto fermato. Ne riparliamo domani. Buona notte ».
Fino a questo punto però la manovra è stata ricostruita solo parzialmente cioè nei tre tempi Cosentino-Vitali-Pagano. Sia Lucifero che Arpesani ignorano ancora la fonte, di cui sono naturalmente assai curiosi. E’ Arpesani che riesce a individuarla, in una nuova telefonata a Cosentino; impaurito delle possibili conseguenze della parte che ha giocato, e delle minacce di scandalo ventilate da Lucifero, questi finisce col tradire il mandante. Cosicché Arpesani può far sapere a Lucifero: «L’azione è partita da Romita. E’ stato lui a incaricare Cosentino, che sostiene di aver agito in assoluta buona fede. Egli mi ha fatto questa confidenza a patto che la cosa resti fra noi. Perciò ti prego di non dare alla cosa pubblicità di sorta ». 
Lucifero: «Nient’affatto, mio caro, la faccenda è troppo grave e troppo evidentemente di pubblico interesse, perché io possa impegnarmi in tal senso, lo ne farò invece l’uso che crederò necessario! ».
Inutile dire che, se il gioco fosse riuscito, la vittoria repubblicana sarebbe stata legalizzata a spron battuto, e la Corona si sarebbe trovala, in un tardivo conato di reazione, automaticamente fuori legge. Romita inventò di sana pianta la partenza del Re ».
La riunione della Corte fu rinviata alle ore 18 del giorno 10; L’On. De Gasperi ignorava la decisione della Corte.

(1) Da Storia segreta ... pag. 145 e seg.

lunedì 20 agosto 2018

Religiosità di Umberto di Savoia


E’ nota la religiosità del Principe Umberto, ma non è mai male aggiungere nuovi elementi e testimonianze  della stessa. In questo caso riprendiamo da “Il Bollettino Salesiano” di luglio-agosto di questo anno un ricordo di don Orione, pronunciato in una Messa del 31 gennaio 1940, dove raccontò ai fedeli l’avvenimento della traslazione della salma di don Bosco, dalla prima sepoltura a Valsalice a quella di Santa Maria Ausiliatrice  a Torino, avvenuta nel 1929 : “….si passò  anche davanti Palazzo Reale. Ricordo che al balcone c’era il Principe di Piemonte, circondato da generali. Il carro (funebre) si fermò un momento ed Egli fece cenno di compiacenza; i superiori Salesiani chinarono il capo, come a ringraziarlo di quell’atto di omaggio a don Bosco. Poi il carro raggiunse Maria Ausiliatrice. E di lì a qualche minuto venne anche il Principe, circondato da personaggi della Casa Reale, a rendere atto di devozione al nuovo Beato.”   

Domenico Giglio.

«Io, ticinese, guardia delle tombe dei reali italiani»

A Elio Moro, docente di Locarno, è stato affidato l’incarico di recuperare una lunga tradizione culturale al Pantheon di Roma

LOCARNO – Toccherà a un locarnese cercare di recuperare una lunga tradizione culturale al Pantheon di Roma. Lui è Elio Moro, un uomo dai mille interessi. Di professione docente, spazia dalla cultura alla gastronomia. Sua l’idea di recuperare antiche ricette di digestivi. Sue diverse iniziative benefiche lanciate nella Svizzera italiana. Stavolta, l'incarico arriva da Roma. «Sono stato nominato responsabile delle guardie elvetiche delle tombe reali, spiega. Da anni c’è una carenza di svizzeri che ricoprono questo ruolo».  

Le guardie d’onore alle tombe reali del Pantheon sono state istituite nel 1878. Con lo scopo di prestare servizio di guardia alle tombe dei re d’Italia. «Allo stesso tempo – spiega Moro – si mantiene viva la tradizione legata alla casa dei Savoia e al Risorgimento. Nel Pantheon c’è anche la tomba di Raffaello Sanzio». Ma cosa deve fare sostanzialmente una guardia? «Si indossa la divisa, così come all’epoca. E si sorvegliano le tombe. È più che altro anche una questione culturale e istituzionale, che attrae parecchio i turisti». 


sabato 18 agosto 2018

MESSAGGIO DI S.A.R. LA PRINCIPESSA MARIA ISABELLA DI SAVOIA - GENOVA ALLA CITTA’ DI GENOVA



Genovesi!
dal lontano Brasile desidero far pervenire alla Vostra Città, cui la mia Casa è legata da una storia quasi bicentenaria, il mio cordoglio per le famiglie di chi ha perso la vita nel crollo del ponte, per i feriti cui auguro una pronta guarigione,  per gli sfollati che hanno dovuto abbandonare le loro case.
Questa terribile disgrazia segna profondamente la coscienza di ogni Italiano onesto ed è monito per le Istituzioni, perché abbiano nel futuro la consapevolezza che loro compete a tutela della sicurezza dei cittadini, in qualsiasi parte d’Italia operino.
Genova, città operosa, che svolge un importante posizione di polo commerciale a livello internazionale, sono certa, ritornerà ad operare serenamente alla luce della sua “Lanterna”.
Questo il mio saluto ed il mio beneaugurante auspicio per il domani. Con affetto
da San Paolo del Brasile, 17 agosto 2018
                  Maria Isabella di Savoia - Genova

venerdì 17 agosto 2018

Utilità sociale, crescita professionale La leva obbligatoria è idea realistica

di Salvatore Sfrecola


La Trenta ha torto: il servizio militare non riguarda i soli combattenti. Con la proposta di Salvini un apparato di ingegneri, medici, veterinari, periti e e genieri potrebbe essere d’efficiente supporto alle esigenze statali

Per il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, quella di Matteo Salvini, che propone di reintrodurre la leva obbligatoria, è «un’idea romantica», non più attuale. Invece, ad essere limitativa è l’idea delle Forze armate che ha la
signora di via XX Settembre, peraltro in aperta adesione alla concezione diffusa nei vertici militari, da sempre: quella che i militari siano esclusivamente combattenti. Non è stato così, ad esempio, nell’esperienza del più potente esercito di tutti i tempi, quello della Roma repubblicana e imperiale, che disponeva di un imponente apparato servente della truppa combattente, genieri, medici, veterinari, addetti alla cura delle armi e delle uniformi. Sì perché l’esercito romano, diversamente dai combattenti
di tutti gli eserciti del tempo aveva una grande organizzazione che e l’esempio, come scrive Massimo Severo Giannini, uno dei nostri più grandi amministrativisti, di una efficiente struttura burocratica, capace di sovvenire in
ogni tempo ed in ogni luogo alle esigenze dei combattenti.

Basti pensare al sistema della leva che ha assicurato all’Urbe, sotto il martellare delle milizie del generale cartaginese Annibaie Barca, di ricostituire in poche settimane legioni efficienti e bene organizzate a ogni sconfitta pur in
una condizione di estrema difficoltà. Era quella una grande organizzazione che consentiva ai consoli delle legioni ai margini dell’impero in funzione di controllo del territorio di utilizzare il tempo costruendo acquedotti, fognature, terme, che troviamo ovunque erano giunti i combattenti di Roma.
Ma venendo ai tempi nostri è certamente più attuale la proposta di Salvini, mentre appare vecchia l’idea che delle Forze armate ha il ministro Trenta, quella che ho sempre ritenuto fosse un’«occasione mancata» per il nostro apparato difensivo. Il ministro della Difesa giustamente richiama l’esigenza che i combattenti siano professionisti, come in tutti gli eserciti moderni. Ma l’esercito non è fatto solo di combattenti, come si è detto di Roma, ma ha altre importanti specialità. Prima tra tutte il Genio che, infatti, interviene rapidamente in occasione di calamità naturali e di altre emergenze con straordinaria efficienza, quella propria di un apparato militare organizzato gerarchicamente. Quei reparti hanno a disposizione specialisti, ingegneri, geometri, periti tecnici, e strumenti tecnici moderni, dalle scavatrici alle gru, e possono sovvenire rapidamente alle esigenze dei militari e della popolazione civile aprendo una strada costruita da una frana, costruendo un ponte che consenta di ripristinare la viabilità resa impraticabile da qualche evento naturale. È stato sempre così. Tuttavia l’utilizzazione sistematica del Genio militare è stata sempre vista con diffidenza dai vertici militari che ritengono non solo prioritaria ma esclusiva la funzione combattente, così consentendo il business delle imprese che operano costosi interventi per la Protezione civile.
Quest’anno le piogge hanno, speriamo, limitato gli incendi. ma è certo che la cura dei boschi per evitare l’accumularsi di rami e fogliame secco, quello che costituisce un innesco naturale degli incendi, è  assolutamente trascurata, anzi inesistente.
Quanto costa a carico del bilancio pubblico spegnere gli incendi che sarebbe stato possibile prevenire attraverso la bonifica del sottobosco?
C’è, poi, il capitolo della vigilanza nei musei e nelle zone archeologiche. Non è una attività equiparabile a quella dei combattenti ma è la custodia del patrimonio più prezioso che abbiamo, quello che insieme al paesaggio fa dell’Italia il Bel Paese, la ragione prima del nostro turismo, come ha ricordato più volte, ancora di recente, il senatore Gian Marco Centinaio, ministro delle politiche agricole, forestali e del turismo, appunto. Il Genio militare è stato nella storia d'Italia una risorsa preziosa, come ho ricordato più volte a proposito della costruzione delle infrastrutture ferroviarie che secondo Camillo Cavour avrebbero unificato l'Italia richiamando il ruolo di Luigi Federico Menabrea. ingegnere, capo del Genio militare, ministro dei Lavori pubblici e presidente del Consiglio.
I nostri militari di leva potrebbero essere impiegati, altresì, nel sistema informatico degli apparati militari, in modo da essere anche pronti ad intervenire in funzione ausiliaria o di controllo di quella diffusa rete di apparati che ormai gestisce tutte le attività complesse, dagli acquedotti alla distribuzione dell'energia elettrica. Né può essere esclusa l'utilità di giovani negli uffici delle amministrazioni e degli enti, magari «prestati» in alcuni periodi per far fronte alle emergenze feriali. Nel settore sanitario, ad esempio, che denuncia gravi carenze in alcuni momenti nei quali la gente prega di non ammalarsi, nel fine settimana e destate. Sarebbe anche un modo per impiegare medici e paramedici, incrementare la loro esperienza e specializzazione.
E siccome parliamo di sanità forse a qualcuno sfugge il ruolo fondamentale che svolgeva la leva obbligatoria attraverso lo screening della popolazione maschile (oggi anche di quella femminile) ai fini alla prevenzione delle malattie.
Ci sono, poi, i «vivai», se così possiamo chiamarli, delle Forze armate nelle attività sportive, che si arricchirebbero di un più ampio concorso di giovani.
Insomma la leva obbligatoria, in una versione moderna e intelligente assicurerebbe servizi importanti al Paese e alle comunità e costituirebbe una scuola di vita e professionale come un tempo era quando il giovane imparava un mestiere o si perfezionava in una professione. Un’idea buona, a me pare, che sposa quel tanto di romantico che, ci dicevano i nostri nonni, aveva fatto l’Italia unendo in un unico impegno sul fronte siciliani e piemontesi, veneti e pugliesi, con le esigenze moderne di sostegno alle tante attività che lo Stato e gli enti locali altrimenti non riescono a soddisfare.

giovedì 16 agosto 2018

1793: Savoiardi contro Francesi



Nel settembre 1792 alcuni reparti dell’esercito repubblicano francese al comando del gen. Montesquieu entrarono  nel Ducato di Savoja dal confine di Pont de Bonvoisen  (Ponte di Buonvicinato).

Era il periodo in cui a Parigi la Convenzione cercava di difendere la Repubblica dai nemici esterni (Austro-Russo-Prussiani), ma anche di esportare la rivoluzione con tutto il bagaglio ideologico, anticlericale  e amministrativo al seguito nei paesi confinanti. 

Il Regno di Sardegna (Re Vittorio Emanuele I) fu uno dei primi confinanti a farne le spese.

L’Alta Savoja, quella attorno al Lago di Annecy, con la Tarantasia  ad est  ed in particolare la zona a nord est di Annecy, cioè le valli  attorno a  Thones, piccola cittadina capo Mandamento, si sollevò nel maggio 1793 contro i “francesi”  giacobini e rivoluzionari occupatori, con la forza di quelle contrade facenti parte a tutti gli effetti del Regno di Sardegna.

Sabato 4 maggio 1793 era giorno di mercato a Thones e proprio qui tra le bancarelle  iniziarono  le prime avvisaglie della protesta popolare.
   
Il giorno dopo domenica 5 maggio sulla piazza del paese le autorità giacobine  filo-francesi, vollero iniziare con prepotenza ed ostentazione  le operazioni  burocratiche inerenti la leva militare, la famosa “leva di massa” tanto odiata dai contadini. 

Sia i coscritti, che parecchi presenti si opposero. Venne distribuita la  coccarda azzurra  colore dei Savoja.

I capi più in vista del movimento di rivolta furono un contadino ventenne di nome  Louis Rovet, spinto probabilmente  dalla motivazione del rifiuto della leva militare ed una giovane ricamatriceMarguerite   Frichelet - Avet,  nata a Thones nel 1756, di sentimenti religiosi e quindi più sensibile e contraria  all’acceso anticlericalismo repubblicano, arrivato con i commissari dell’esercito francese.          
Ad Annecy le autorità presero subito provvedimenti  organizzando una colonna mobile di  200  cavalieri e 700 fanti da inviare a Thones a sedare  la rivolta.

Nello stesso tempo i contadini della vallata, mossi dallo spirito delle vecchie “jacquerie” si armarono  con armi da fuoco, in specie quelle requisite con un colpo di mano a Menthon sul lago di Annecy ed occuparono Thones,  ad iniziare dalla Mairie e dalle case dei borghesi.

La sera del  7 maggio avvenne il primo scontro tra  i soldati francesi  e gli inesperti ed anche  poco disciplinati  montanari.

I primi ebbero la meglio, mettendo in fuga i secondi, che si ritirarono sull’impervio altopiano della Mosette. Il giorno dopo fu invece la cavalleria francese ad essere scompaginata con varie perdite tra morti e feriti.

Ma il giorno successivo  9 maggio  i francesi, ricevuti notevoli rinforzi  tanto da portare la truppa a 2500 unità, assalirono con vigore le postazioni degli insorti che si dispersero ritirandosi nelle alte valli. 

Uno “spia” tra le file dei montanari, figura  che non manca mai in queste circostanze, fu anche la causa del successo dell’aggiramento di un lato delle postazione degli insorti, attraverso un impervio sentiero montano.

[...]

Gervasio  Cambiano