NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 28 febbraio 2021

L'arte al Senato ed alla Camera dei deputati

 


Siete invitati gentilmente alla lettura di un nostro nuovo articolo pubblicato dall'agenzia stampa Consul Press dedicato all'arte d'epoca presente nei due Palazzi del Potere, Palazzo Madama e Palazzo Montecitorio, ricorrendo il 150° Anniversario di Roma Capitale scelti nel 1871 come sede del Senato e della Camera dei Deputati.


 Prof.Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro

 

https://www.consulpress.eu/larte-al-senato-e-alla-camera-dei-deputati/

 

https://www.consulpress.eu/storia-collezionismo-horafelix/

Da Bava Beccaris a Bresci. Anatomia di un regicidio

Giorgio Ferrari ricostruisce il lungo percorso che ha portato all'attentato a Umberto I


 

di Matteo Sacchi

Monza, 29 luglio dell'anno mille e novecento, due destini si incrociano: quello di Umberto I di Savoia, re d'Italia dal 1878, e quello di Gaetano Bresci, anarchico e figlio di contadini.

Tre colpi di pistola - in rapida sequenza, e a breve distanza - contro il Re in carrozza, che saluta la folla venuta ad assistere ad un saggio ginnico, troncano la vita del monarca. È un attimo. La carrozza tenta la fuga, il Re dice «Non credo sia niente» e poi si accascia, la gente inferocita cerca di linciare Bresci che balbetta «non sono stato io». Lo salverà, arrestandolo, un maresciallo dei carabinieri, Andrea Braggio. Bresci non oppone resistenza e solo a posteriori, salvato dai bastoni, dirà la celebre frase: «Io non ho ucciso Umberto. Io ho ucciso il Re. Ho ucciso un principio».

Quella scena accaduta nell'afosa serata estiva di Monza che cambierà la storia d'Italia è solo l'ultima di un dramma iniziato ben prima. Per rendersene conto a 120 anni dalla morte di Gaetano Bresci, forse (e il forse è d'obbligo) suicida nel carcere di Santo Stefano a Ventotene, c'è un libro che ricostruisce non tanto il regicidio, quanto l'intricato percorso sociale e politico che ha portato a esso: Uccidete il Re Buono. Da Bava Beccaris a Gaetano Bresci (Neri Pozza, pagg. 272, euro 18) di Giorgio Ferrari. Ferrari, inviato speciale ed editorialista, cesella con precisione certosina il contesto europeo e internazionale in cui è maturato l'attentato. L'impressione che se ne ricava è che molte delle tensioni politiche e ideologiche del Novecento, nonché il militarismo e la violenza che ha portato alle Guerre mondiali, abbiano solide radici nel secolo precedente. I tre proiettili (ma c'è stato anche chi ha parlato di un quarto colpo) che uccisero un Re schiacciato dall'ombra di suo padre, il vitale e battagliero Vittorio Emanuele II, sono stati fusi tanto nello stampo dell'anarchia che in quello del militarismo bismarckiano.

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https://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/bava-beccaris-bresci-anatomia-regicidio-1927016.html

Capitolo XVII : Big Boy Peterson, il primo avversario americano di Carnera

 di Emilio Del Bel Belluz 

Allo sbarco dalla nave Carnera trovò il suo manager, Léon Sée ad attenderlo. L’abile personaggio aveva avvertito i giornalisti del suo arrivo. Quel giorno tutti i quotidiani sportivi, e anche quelli nazionali pubblicarono degli articoli che narravano del gigante italiano, venuto in America in cerca di fortuna; dopo una carriera folgorante che gli aveva permesso di vincere molti incontri per KO in Europa. Grande rilievo all’arrivo di Carnera venne dato da un giornale scritto in lingua italiana per gli emigranti. Questo mostrava nella prima pagina una foto del pugile. Tanta gente era accorsa al porto per vedere il campione e sventolava il tricolore Sabaudo. Per un istante pensò all’Italia, la sua patria che doveva onorare, voleva far sapere al mondo che lui era venuto per scrivere una storia pugilistica importante, e non per fare un giro turistico. Carnera era contento di parlare con gli italiani presenti, percepiva il bene che gli trasmettevano e per un attimo sentì l’atmosfera di casa. Léon Sée gli presentò alcuni personaggi della boxe, per lo più allenatori ed organizzatori. 

Ad accoglierlo c’era anche un pugile italiano che da anni combatteva in America, ed avrebbe avuto il compito di allenarlo. A stento riuscì a muoversi tra la folla, i poliziotti lo aiutarono a raggiungere la macchina che lo stava aspettando: un’auto nera di grandi dimensioni, di quelle che non aveva mai visto in vita sua. Carnera era confuso, stanco, il suo allenatore Paul Journée lo raggiunse ed andarono verso l’albergo. Primo si trovò immerso in un grande traffico, vide le vie piene di passanti e molte insegne di ristoranti e negozi italiani con esposta la bandiera Sabauda. La piccola valigia che aveva con sé, conteneva il tricolore assieme alla bibbia. Gli altri bagagli arrivarono in albergo più tardi, gli uomini di Leon Sée erano stati incaricati di ritrarli. Con gioia vide una chiesa e questa immagine la impresse nella sua mente, per descriverla al suo parroco di Sequals. Carnera in macchina non parlò molto, non distolse lo sguardo dal finestrino e pensò che avrebbe dovuto migliorare l’inglese, era la terza lingua da imparare, e questo non lo spaventava. Arrivò all’albergo, una costruzione altissima affiancata da due alberi secolari, che svettavano verso il cielo. 

Davanti all’hotel c’era un grande trambusto, dato dai parecchi giornalisti che si riconoscevano dalla penna e da un piccolo block notes tra le mani e dai molti fotografi. A Primo vennero poste molte domande che venivano tradotte dal suo manager, come pure le risposte. Un giornalista italo - americano chiese a Carnera che cosa si aspettasse dall’avventura americana. Primo rispose che avrebbe voluto dare spettacolo pugilistico e tentare la scalata al titolo mondiale dei pesi massimi. Carnera disse che era felice di aver visto tanti italiani ad accoglierlo, e che avrebbe voluto abbracciarli tutti. Era stanco e confuso, e sperava che l’America gli volesse bene, perché in quei tempi duri bisognava stare uniti e lottare senza arrendersi. Tra le persone che lo avevano atteso, c’erano anche delle donne che lo volevano vedere da vicino, una curiosità che si trova sempre nel genere femminile: osservare accuratamente questa montagna che cammina. 

Entrò finalmente in albergo, raggiunse la sua stanza, e si buttò esausto sul letto, che per l’occasione gli era stato preparato, era lungo oltre i due metri. La stanza era molto elegante, ma questo particolare non lo notò, perché tanta era la stanchezza. Il sonno lo colse subito, non si era neanche svestito. Alle tredici, Paul Journée bussò alla sua stanza e gli disse di prepararsi per andare a mangiare, lo stavano aspettando e questa notizia lo rese subito allegro; finalmente avrebbe mangiato le specialità americane. In ogni Paese che era stato aveva sempre voluto rendere omaggio alla cucina del posto. Il pane italiano, a cui era sempre stato abituato, l’aveva trovato simile in Francia. Al circo c’era una donna che lo preparava e poi lo cucinava in un forno a legna. La sala dove mangiavano era molto bella, c’erano degli specchi e tante luci, molti camerieri vestiti in modo impeccabile: un ambiente davvero elegante. Il tavolo a loro riservato era molto grande, e vi trovò Léon Sée, che stava fumando il suo sigaro, assieme a Paul Journée, ed ad altre persone che gli furono presentate. Uno di queste era un manager della boxe, il più importante d’America, che avrebbe organizzato il suo primo combattimento che doveva essere tra una ventina di giorni. Per questo il suo allenatore gli ordinò del cibo abbondante come se dovesse combattere l’indomani. I due procuratori parlarono del prossimo match che si sarebbe svolto al Madison Square Garden contro l’avversario: Big Boy Peterson. Paul Journée disse a Carnera che da domani la vita sarebbe per lui cambiata. 

Rimanevano solo due settimane a mezza per potersi preparare, in nave il suo pupillo aveva fatto solo degli allenamenti poco intensi. La palestra non era molto lontana dall’albergo, e quel tragitto l’avrebbe fatto di corsa. Il suo allenatore lo avrebbe seguito con un’auto. Dopo che il pranzo era finito concesse un’intervista a un giornalista, al quale annunciò il suo prossimo combattimento al Madison Square Garden, il 24 gennaio. Il buon Carnera non si fece molte domande, era venuto in America per combattere e questo avrebbe fatto. L’indomani, all’alba, si preparò per fare il suo primo allenamento. Si vestì bene perché era una giornata molto fredda, il gelo pungeva come non mai. In strada, durante la sua sessione d’allenamento, notò pochi passanti infreddoliti che si recavano al lavoro. Gli piacque la città che con le sue luci illuminava il suo percorso, e si sentiva di buon umore. Nella palestra ebbe modo di fare conoscenza con parecchi pugili, tra cui quelli con i quali avrebbe fatto le sessioni di allenamento. Si augurava di frequentarli per parecchi mesi. La palestra era molto ben fornita d’attrezzi, gli fecero notare il sacco che avrebbe utilizzato, su cui gli avevano scritto il suo nome, e questo fu un pensiero che gradì molto. In America davano la possibilità ai tifosi, rappresentati soprattutto da vecchi pugili, di assistere agli allenamenti pagando l’ingresso, cosa che gli era capitata in Italia, quando nel 1928 era andato a combattere. Gli allenamenti furono piuttosto duri, da settimane Primo non si esercitava in palestra e si sentiva piuttosto arrugginito. Le prime sessioni di boxe furono molto faticose, la noble art alla fine è sudore e sangue, sul ring non viene regalato nulla. 

Nelle pause degli allenamenti gli toccava parlare con i giornalisti che accorrevano numerosi. L’avvenimento era stato pubblicizzato con dei manifesti, uno di questi se lo volle portare nella sua camera. Passava la giornata in palestra e per il pranzo andava a mangiare in una trattoria gestita da italiani, finalmente, poteva esprimersi liberamente nella sua lingua. Il gestore del locale era un italiano originario di Napoli che era stato tra quelli che erano arrivati dopo la Grande Guerra con la famiglia, e da anni viveva a New York. L’uomo fu davvero felice di vedere ogni giorno il campione, e cercava di preparagli la carne migliore e, come era accaduto da altre parti, ci fu un aumento della clientela, attirata dalla presenza del pugile. Carnera veniva fotografato in ogni luogo dove si recava. Il 24 gennaio al Madison Square Garden fece il suo esordio, aveva portato dall’Italia la sua bandiera Sabauda e scrutava se tra il pubblico ci fossero altri vessilli italiani. Nell’accappatoio si poteva leggere la scritta Carnera. Dopo le solite raccomandazioni fatte dal’ ’arbitro agli sfidanti, iniziò il suo primo incontro americano che vinse mettendo KO l’ avversario alla prima ripresa. La gente urlava il suo nome. La prima sfida era stata vinta, assai agevolmente. Non passò molto tempo che si ritrovò di nuovo sul ring, questa volta a Chicago per incontrare il pugile canadese: Elizar Rioux e si sbarazzò di lui, mettendolo a KO alla prima ripresa. Il pubblico era numerosissimo, tra cui molti italiani, che lo salutarono con affetto: era il 31 gennaio del 1930. Da quasi un mese si trovava in America e aveva combattuto ben due volte. Il suo manager, Léon Sée era entusiasta, perché incominciava ad incassare molti dollari. Neanche una settimana dopo era di nuovo sul ring, questa volta contro Bil Owens. I giornali parlavano sempre di questo gigante che era muscoloso come un Maciste. Nel mese di febbraio vinse cinque incontri, tutti per KO, contro Bil Owens, Buster Martin, Billy Sigman, Johann Erickson, Farmen Lodge ed era quello che il pubblico si aspettava dai pesi massimi. I giornali lo esaltavano e Carnera li conservava per farseli tradurre poi da una ragazza italiana che lavorava nella trattoria dove era cliente abituale. Il campione in quei pochi mesi cercò di migliorare l’inglese, grazie all’aiuto della ragazza ed aveva sempre con sé un piccolo vocabolario. Nel mese di marzo combatté per ben sei volte vincendo sempre per KO contro avversari che cadevano come birilli. Il 3 marzo fu a Filadelfia dove stese per kO alla sesta ripresa l’americano Roy Clark, poi di seguito vinse contro Sully Montgomery, Chuck Wiggins, Frank Zavita, George Thayton, Jack Mc Auliffe, sempre per KO. 

In quei due mesi non scrisse spesso alla famiglia, pensò solo ad allenarsi. Riuscì a vedere alcune città americane, e continuò con l’apprendimento dell’inglese. La gente lo acclamava e gli chiedeva l’autografo, era sempre gentile con tutti. Portava sempre con sé del denaro e spesso lo donava ai mendicanti, che lo ringraziavano con un semplice sorriso, e questo gli bastava. Quando poteva si recava a messa nella chiesa della comunità italiana, questa abitudine non lo lascerà mai. Il prete della chiesa dove si recava a pregare lo riconobbe, l’aveva visto nei giornali e lo invitò ad una festa con i suoi connazionali. Confidò al sacerdote che gli sarebbe piaciuto diventare il campione del mondo, per dare all’Italia una grande gioia, e lustro a quegli italiani che erano dovuti emigrare in America. Carnera era felice di poter fare qualcosa per gli altri e chiese al sacerdote se c’erano delle famiglie italiane bisognose d’aiuto. Il vecchio prete volle che fosse lui ad accompagnarlo in visita a due famiglie che stavano vivendo male, a causa della depressione economica. Essersi prodigato per loro lo aveva reso felice; quando si fa qualcosa per gli altri, il buon Dio ne tiene conto: questo ripeteva spesso sua madre. Carnera si commosse davanti a quella realtà, anche se aveva conosciuto un altro modo di vivere, quello rappresentato dai ricchi che assistevano a bordo ring i suoi combattimenti. Un giorno ritornò a trovare il sacerdote, aveva voglia di parlare con lui. In quei periodi aveva incassato una buona somma di denaro dal suo manager, e voleva fare qualcosa di più importante, non la solita elemosina. Il prete stava dicendo la messa, e il campione approfittò per assistervi, non aveva fretta. Quando fu finita la funzione il sacerdote lo fece accomodare in canonica, la perpetua aveva preparato un dolcetto, sperando che a mangiarlo fosse Primo. 

La donna lo portò in tavola, era una torta di mele, che ebbe una vita breve, e la perpetua arrossì ai complimenti del campione. Il sacerdote era felice di questa visita inaspettata, allora Carnera gli disse che voleva regalargli una mucca da latte, per aiutare i poveri. L’aveva acquistata da un commerciante di bestiame. Il curato sorrise, lo abbracciò ringraziandolo, quella bestia l’avrebbe data a una famiglia numerosa, che in questo modo sarebbe stata meno preoccupata per il futuro. La stessa sera, nella sua stanza, Carnera scrisse una lettera alla mamma e le raccontò che il mondo della boxe era importante, ma aveva tanta nostalgia per la sua terra. La informò, inoltre, della dura vita che facevano gli italiani in America, a causa della depressione economica. Alla madre raccomandò di non faticare molto nei campi e di pensare alla salute. Primo le confidò che con i soldi guadagnati gli sarebbe piaciuto farsi una casa, con un giardino per lei e per il papà. Nella lettera, ancora, aggiungeva di salutare gli amici, nei prossimi mesi sarebbe ritornato in paese che gli mancava tanto. La vita americana per lui era una grande corsa, dove non si aveva il tempo per pensare. Allegato alla lettera c’era un articolo uscito in un giornale italiano che elogiava una sua vittoria. Carnera quella sera, prima di addormentarsi, lesse la traduzione che gli aveva fatto la figlia del suo amico napoletano di un articolo uscito sul Dainly Mail di New York: “Questa volta Carnera ha incontrato un pugile che gli ha dato filo da torcere. Le due riprese di avvio sono passate incolori, ma Clark fu più attivo e dimostrò una leggera superiorità. Al terzo round l’italiano detto da alcuni cronisti “la torre di gorgonzola”, sembrò risvegliarsi e i tre minuti furono interessanti. I due avversari si batterono con ardore. Nella quarta ripresa Carnera spedì due volte Clark al tappeto ma il negro per nulla impressionato dai terribili colpi, si alzò sempre velocemente e si difese con grande foga, applaudito dalla folla. Appena iniziato il quinto round, Clark aggredì il gigante e lo centrò con un diretto destro sull’occhio sinistro che si gonfiò subito in misura preoccupante. Il pubblico ebbe la sensazione che la serie di vittorie di Carnera venisse interrotta. L’occhio pareva dovesse scoppiare da un momento all’altro. 

E quando il gong fermò la lotta, l’arbitrio disse che bisognava sospendere il match. Però fu proprio Carnera a chiedere di poter fare un’altra ripresa, una sola. E si lanciò furibondo in mezzo al ring, raccolse tutte le sue forze e sgranò una girandola di colpi finendo per travolgere Clark che cadde svenuto”. Da quell’incontro era uscito con un occhio pesto e nero, che gli faceva male, pensò che il suo avversario gli avesse rovinato per sempre la vista, ma il buon Dio era dalla sua parte. Gli venne in mente sua madre, perché le aveva appena scritto una lettera, e pensò che se fosse stata presente all’incontro di sicuro sarebbe salita sul ring per impedire di proseguire, scagliandosi addirittura contro l’avversario. Quell’incontro fu davvero difficile, ma di sicuro ce ne sarebbero stati molti di peggiori. Importante era che non avesse interrotto la serie di vittorie per ko. Quella sera tornato al camerino il suo manager gli mise del ghiaccio sull’occhio e venne chiamato un dottore. Dieci giorni dopo, ritornò sul ring per un’altra sfida, con l’occhio ancora tumefatto e vinse per KO. I primi tre mesi trascorsi in America furono soddisfacenti, vinse tredici incontri per KO e riuscì, pertanto, a spedire a casa una somma di denaro ragguardevole: il suo sogno si stava realizzando. Gli capitava di vedere il suo volto stampato sui giornali e sui manifesti che pubblicizzavano i suoi futuri incontri. Gli organizzatori gli procuravano delle interviste su vari giornali, la sua fama diventava sempre più grande, ma Carnera temeva che una sconfitta avrebbe potuto cancellare questo periodo d’oro. Quando viaggiava in treno, alle stazioni c’era della gente che lo voleva salutare; addirittura un giorno ad una fermata ci fu una banda italiana che lo volle onorare con l’inno Sabaudo. 

Quando acquistava i giornali riusciva a tradurre i titoli che gli dedicavano, e qualche frase, aiutandosi con un piccolo vocabolario. I progressi nella lingua erano lenti, ma costanti. Una sera si trovò in una stazione ferroviaria, assieme al suo allenatore, e si mise a parlare con un italiano, avanti con l’età, che viveva in America da tanti anni. Costui gli raccontò che aveva visto un solo incontro di boxe nella sua vita: quello del pugile italiano Emilio Buttafuochi, nato nel mantovano, vicino al fiume Po, nel paese di Poggiorusco, e trasferitosi in America per combattere. Questo pugile aveva incontrato molti grandi della boxe, e lui lo aveva visto combattere contro Johnny Grosso nel 1926. Gli erano rimasti nel cuore questi due pugili così diversi nell’arte di boxare. L’incontro fu vinto da Johnny Grosso che venne poi ucciso dalla malavita. Mostrò a Carnera un articolo che era uscito alcuni anni dopo la sua morte. Quel giovane forse non era riuscito a trovare la sua strada. Quel ragazzo era comparso in alcune riviste di pugilato, che lo stimavano come boxeur. Carnera volle offrigli un bicchiere di buon vino, e continuarono a parlare finché arrivò il treno che era in ritardo. Primo chiese notizie di Johnny Grosso al suo manager, ma ne ebbe una risposta evasiva. Nei giorni che seguirono, gli allenamenti furono molto impegnativi. Gli veniva in mente il pugile Johnny Grosso che era stato ucciso, e non si capiva il perché. Era un boxeur di una certa fama, aveva combattuto nei pesi massimi con alterna fortuna. Magari si sarebbero potuti incontrare sul ring, ma è strano il destino di chi non ha fortuna. Primo pensò alla sua famiglia, a una mamma che lo aveva pianto che, forse, sarebbe stata ancora viva. Questi pensieri lo fecero star male, se ne accorse anche Paul Journée che quel giorno lo stava allenando. Il 30 agosto doveva combattere contro un pugile italiano, l’incontro si doveva disputare ad Atlantic City. In quel mese faceva molto caldo che per un atleta è un fastidio in più, e Carnera con la sua mole sembrava una caffettiera che sbuffava. In palestra non c’era un filo d’aria, Paul Journée era affaticato, perché non aveva dormito molto. 


La giornata si presentava difficile per Carnera, era arrivato un nuovo pugile con il quale fare i guanti. Questi era un giovane simpatico, incassava bene i colpi di Carnera, e si muoveva con agilità. La sera del 30 agosto, anche lui, avrebbe esordito tra i pesi massimi e di questo era felice. Questo giovane non aveva un grande fisico, ma ugualmente era dotato di una grande forza. Obbediva scrupolosamente e con attenzione all’allenatore. Questo gli permetteva di imparare una tecnica che non aveva mai conosciuto prima. Quella sera, mentre erano a cena, chiese a Primo se voleva allenarsi sempre con lui, lo avrebbe seguito ovunque. Carnera ne volle parlare con Léon Sée, che accettò per un periodo di farlo stare con loro. Non poteva pagargli l’albergo dove loro alloggiavano, ma doveva trovarsi una pensioncina modesta ed avrebbe avuto i pasti garantiti. Primo era teso, gli capitava spesso in questo ultimo periodo, dopo che nei mesi precedenti si era fatto male all’occhio, temeva di essere ferito nuovamente.


martedì 23 febbraio 2021

Ricordi del Partito Nazionale Monarchico - Tre conferenze del 1958

 All’indomani delle elezioni politiche del 1958 che avevano visto la sensibile flessione elettorale del PNM, superato nel numero di voti e di seggi dal Partito Monarchico Popolare di Achille Lauro, il partito entrò in un periodo di crisi anche economica per cui vi fu un’assenza di iniziative di qualsiasi genere. 

In particolare la federazione di Roma, che aveva una bellissima sede in Via Quattro Fontane 143, cadde nel letargo più completo, per cui l’allora Commissario Nazionale del Movimento Giovanile del PNM ritenne suo dovere politico e morale cercare di ravvivare gli iscritti con una iniziativa che fu necessariamente accolta.


Da sinistra Amedeo De Giovanni, dirigente giovanile, Generale Bonamici,



Onorevole Degli Occchi

In effetti nelle elezioni del 1958 i giovani del PNM, in tutta Italia, si erano sobbarcati a tenere comizi oltre al solito “attacchinaggio” dei manifesti, per sopperire alla mancanza in molti casi di oratori di spicco che difendevano il proprio seggio e non andavano a tenere discorsi al di fuori del loro collegio, per cui l’iniziativa presa a Roma, rientrava in questa “supplenza”, ed in una urgente prospettiva di rinnovamento delle strutture organizzative, dimostratesi in molti casi carenti.

Perciò fu organizzato un ciclo di conferenze, tenute nel salone della federazione romana, che poteva ospitare un centinaio di persone. Gli oratori scelti furono Carlo Delcroix, che purtroppo non era stato rieletto, Roberto Cantalupo e Cesare Degli Occhi, che invece avevano mantenuto il loro seggio di Deputato, il primo a Roma ed il secondo a Milano. Erano effettivamente quanto di meglio per pensiero politico e fedeltà monarchica poteva rappresentare il partito.




Nella IV fila a sinistra L'ing Giglio Padre, in prima fila a sinistra La figlia della MOVM Raffaele Paolucci


A questo proposito è bene ricordare l’opera di formazione e cultura storico-politica che l’ambasciatore Cantalupo aveva svolto con il periodico “Governo” e l’appassionata difesa della Monarchia Sabauda, che nelle difficili piazze del Nord aveva svolto, all’epoca del referendum l’avvocato Cesare Degli Occhi, che anche nel congresso della Democrazia Cristiana del 1946 aveva combattuto per la scelta istituzionale monarchica, venendo, purtroppo sconfitto. Per non parlare di Delcroix, grande invalido della Guerra 1915-1918, per un tragico evento, avvenuto nel 1917,che lo privò della vista e delle mani, che, con la sua appassionata oratoria, densa di contenuti storici aveva percorso tutta l’Italia riempendo le piazze come pochi altri oratori, anche di altri partiti, erano mai riusciti ad ottenere, e di cui ricorderemo la frase finale di un suo discorso romano, nella piazza del Colosseo : “Italia e Monarchia, insieme sono cadute, insieme risorgeranno”, che fu accolta da un uragano di applausi, come non avevamo, né avremmo sentito in altre occasioni.


Al centro Giglio, Volpe, Delcroix

On Carlo Delcroix, MOVM

Gioacchino Volpe

Le date delle conferenze furono rispettivamente il 4 novembre, il 27 novembre e l’11 dicembre ed il salone della federazione non ebbe posti sufficienti per il pubblico accorso, con numerosi giovani, nonché il grande storico Gioacchino Volpe, sempre presente, per cui tutti ne uscirono rinfrancati. 

On Cantalupo, Ing Domenico Giglio9


Manifestazioni, è amaro dirlo, che furono forse il canto del cigno di questo partito.

“Haec saepe olim meminisse juvabit”

 

di Domenico Giglio (all’epoca Commissario nazionale del Movimento Giovanile del PNM).


domenica 21 febbraio 2021

Capitolo XVI: Carnera alla conquista dell'America


 di Emilio Del Bel Belluz

Nel gennaio del 1930, Carnera assieme al suo allenatore, Paul Journée s’imbarcò nella nave “Conte di Savoia“ a Genova. È una bella giornata, riscaldata da un pallido sole. Non nascose la sua tristezza e la sua preoccupazione per il futuro. 

Non era mai stato in America, al suo paese gli avevano parlato di questa grande nazione solo quelli che vi erano emigrati. Primo ricordava un vecchio del paese che gli raccontava sempre che in America si mangiavano delle bistecche dal peso di oltre un chilo. Si poteva trovare ogni ben di Dio, ma lui non era riuscito a fare fortuna e ritornò più povero di prima. L’uomo aveva avuto sfortuna perché si era ammalato e non riusciva a lavorare, solo l’aiuto di un prete italiano gli salvò la vita. Costui aveva una chiesa in un paese abitato da una comunità italiana e aiutava i poveri, quelli che non erano più di nessuno. Questa gente derelitta trovava ospitalità nelle sua canonica. Il vecchio aveva sempre detto che quel prete sarebbe diventato un santo per come si prodigava instancabilmente per gli altri. Carnera aveva per il vecchio una grande simpatia, e la figura di questo prete lo aveva affascinato, e chiedeva sempre di lui. L’uomo raccontava che il prete, una volta esauriti i soldi delle elemosine, aveva il coraggio di andare a bussare nelle case dei più benestanti. Nella stalla aveva una mucca, e un asinello. La prima l’aveva presa per produrre il latte per i poveri, e in canonica alla mattina, arrivava tanta gente da sfamare. L’asinello lo utilizzava durante i suoi vagabondaggi alla ricerca di cibo. 

Anche la gente povera gli donava dei viveri che lui metteva nella bisaccia portata dall’asinello, e nei momenti difficili doveva stare fuori quasi tutto il giorno per chiedere la carità. La sua meta preferita era la casa di un ricco italiano, che aveva fatto una grande fortuna in America. Possedeva un’ azienda agricola con centinaia di ettari di terreno, e questo anziano ricco, ma solo, lo vedeva sempre con felicità. Il prete sapeva che non era capace di negare la carità a nessuno, e gli voleva bene. La solitudine di questo signore era data dalla scomparsa della sua famiglia, la moglie era morta da anni, e l’unico figlio gli era stato ucciso durante una rapina nella villa dove abitava. Il prete di nome Felice lo consolava, e gli portava la parola del buon Dio che non abbandona mai nessuno dei suoi figli. Quando ripartiva dalla sua villa, l’asinello era carico di cibo, e di altre cose. La generosità dell’anziano signore non aveva limiti. Il vecchio paesano di Sequals gli aveva talmente parlato del prete Felice che gli sarebbe piaciuto conoscerlo. Carnera conservava nel suo portafoglio una lettera del prete su cui era scritto il suo indirizzo: era il suo contatto con l’America, di cui aveva tanto sentito parlare, senza averla mai vista. Il vecchio del paese, ogni tanto riceveva da lui degli aiuti, almeno due volte all’anno: in prossimità del Natale e della Santa Pasqua. Il vecchio continuò a vivere nella povertà, ma almeno nel suo paese era confortato dai suoi amici. La nave finalmente salpò dal porto, e Carnera dal ponte osservò per l’ultima volta le luci che provenivano dalle case lontane ed immaginava che in ognuna ci fosse una famiglia felice, perché riunita, anche se doveva sopportare una vita di stenti. Il suo allenatore, soffrendo di mal di mare, si era ritirato nella sua cabina. In nave molti lo avevano riconosciuto, si erano fermati a salutarlo, erano italiani poveri in cerca di fortuna, che viaggiavano stipati in terza classe. Primo Carnera osservò il cielo e si raccomandò a Dio che aiutasse questa gente disperata, e che le facesse incontrare un buon prete come Felice, disposto sempre a dividere il suo cibo con gli altri. Carnera guardava il mare e sentiva il profumo intenso dell’acqua; in lontananza vedeva le luci di qualche bastimento. Rientrò in cabina, e si preparò per andare a mangiare. Il suo allenatore Paul Journée non avrebbe cenato. 

Era preferibile che lui stesse a digiuno. Carnera aveva fame, da alcuni giorni si era dovuto mettere a dieta, perché mangiando in famiglia era cresciuto di quasi dieci chili, ed ora doveva ritrovare il suo peso forma. Quando scese nel ristorante il cameriere lo fece accomodare in un posto tranquillo, ma la solitudine non durò molto, perché alcuni signori italiani, conoscendolo di fama, gli chiesero se voleva unirsi al loro tavolo, e Carnera accettò. Queste erano persone ricche, mangiavano cibi raffinati e seguendo le norme del galateo, ma Carnera aveva mangiato alla tavola di un principe e non temeva di fare brutta figura: l’avevano istruito per bene. Durante la cena gli chiesero cosa si aspettasse da questa avventura americana, e se era mai stato in America. L’uomo che gli poneva queste domande era un italiano partito dal nulla che in America aveva fatto fortuna diventando un grande proprietario terriero ed era tornato in Italia per rivedere la terra dei padri. Manifestò a Carnera che ora era indeciso se lasciare l’ America e tornare in Italia. Al tavolo c’era anche la moglie che era americana, una bella donna dai capelli biondi . Questa signora sorrise a Carnera e si aspettava una risposta. Allora il campione disse che quando espatriò per la prima volta, per recarsi in Francia a lavorare, il desiderio che lo accompagnava era quello di poter fare presto il suo ritorno in patria, anche se poi gli fu permesso solo dopo alcuni anni, in occasione del combattimento a Milano contro Epifanio Islas. Un’idea gli era chiara in mente e che non avrebbe mai cambiato: la sua patria era l’Italia dove erano nati i suoi avi ed anche lui era venuto al mondo, e lì vi avrebbe fatto ritorno. 

L’America rappresentava solo una grande opportunità per la conquista del titolo mondiale dei pesi massimi. L’uomo che gli stava vicino gli disse che aveva conosciuto la sua storia proprio dai giornali americani, che avevano spesso parlato di un gigante italiano che aveva un fisico da Ercole, che avrebbe cercato in America la sua fortuna. Vari articoli erano stati pubblicati anche da un quotidiano scritto in lingua italiana e letto dagli emigranti. Questo giornale aveva riportato la storia di Carnera, raccontandola in alcune puntate, e corredandola con delle foto molto esplicative. Gli italiani d’America aspettavano con ansia i suoi prossimi combattimenti. Al tavolo arrivò pure il comandante della nave che, appena aveva saputo della presenza del gradito ospite, lo invitò a cena nelle sere successive. Carnera non era abituato a simili gentilezze, ai tanti complimenti, e timidamente, ringraziò i suoi ammiratori. Anche lui era un emigrante che cercava attraverso la boxe un lasciapassare per abbandonare la povertà, se ci fosse riuscito non avrebbe dimenticato quelli che erano poveri e che non erano stati molto fortunati. 

Quella sera chiuso nella sua cabina non riusciva a prendere sonno, gli era rimasto nel cuore quella povera gente che viaggiava in terza classe, che avrebbe avuto poco con cui sfamarsi e che s’accingeva a riscattare la propria vita in una terra nuova. Lui si vergognava d’aver mangiato in una tavola imbandita d’ogni ben di Dio. Quando era stato a Sequals, prima che partisse, il vecchio prete gli aveva fatto dono di una Bibbia, che era appartenuta a un sacerdote che era sepolto a Sequals. Il curato gli disse che, in ogni posto dove si trovasse, non dimenticasse mai di leggere una pagina di questo grande libro, lo avrebbe consolato perché il buon Dio era con lui. Il curato gli aveva fatto una dedica: “ A Primo Carnera, che non dimentichi mai il suo piccolo paese, e in qualunque parte del mondo si trovi, pensi al suo prete di campagna che prega per lui. Con tante benedizioni, Don Giuseppe”. Carnera si era portato nella sua valigia, oltre alla bibbia, il libro Cuore, quello regalatogli dalla sua maestra, di cui era gelosissimo. Dopo avere letto un passo della Bibbia si addormentò, felice e commosso. Il giorno dopo, incontrò il suo allenatore che non aveva chiuso occhio, aveva una faccia davvero sofferta, il mal di mare non gli dava tregua. Primo aveva dormito come un re, un sonno ristoratore, ed era di buon umore. Scese nella sala delle colazioni e fece onore al caffelatte, e ai molti dolci di cui era ghiotto; in quei momenti, che raramente sarebbero stati ripetibili, s’era dimenticato del proposito di mettersi a dieta. 

Gli capitava spesso di pensare ai tempi difficili, per lui l’America sarebbe stata un ulteriore banco di prova. Rimuginava spesso che nella vita l’importante era di non fare del male agli altri, e in questo modo si poteva stare tranquilli. Mentre era solo al tavolo, s’avvicinò il comandante della nave che gli chiese se poteva fargli compagnia. Era un appassionato di pugilato e aveva letto alcuni articoli scritti su Carnera. La conversazione ebbe come argomento la boxe, e l’uomo gli augurò di coronare il sogno di tutti gli italiani che era quello di diventare campione del mondo. Il comandante gli riferì che il duce Benito Mussolini stava seguendo la sua carriera e per questo aveva fatto pubblicare sul “Popolo d’­Italia “ un lungo articolo, che ripercorreva la vita di Carnera. Il puglie volle ringraziare il comandante della nave perché non sapeva di avere tra i suoi ammiratori proprio il Duce. La conversazione s’indirizzò nei difficili momenti che l’America stava vivendo. Il 24 ottobre 1929 fu il giovedì nero: il crollo della borsa di Wall Street e dell’economia. Le conseguenze gravissime avevano costretto molte persone sul lastrico, mai il mondo avrebbe pensato a questo drammatico epilogo. Il capitano volle scusarsi se aveva portato la conversazione su argomenti così tristi, tra cui ricordò anche il ritorno in patria di molti emigranti italiani, per loro era preferibile una vita di stenti in Italia che all’estero. Il capitano lasciò Carnera visibilmente intristito. Temeva che la stessa sorte potesse toccare a lui. La fame l’aveva sconfitta da pochi anni, e gli sarebbe dispiaciuto tornare indietro. Primo pensava che ci si debba adattare ad ogni evenienza, anche la più brutta, come gli diceva spesso don Giuseppe il suo parroco di Sequals:” Siamo nelle mani di Dio, perché Dio vede e Dio provvede”. Carnera era immerso in questi pensieri, quando gli si avvicinò una ragazza che voleva conoscerlo, aveva appena letto su un giornale un articolo su di lui. Aveva tra le mani un rotocalco, in cui veniva pubblicato ogni settimana un capitolo di un libro. Gli sedette vicino, sorridendogli, era vestita in modo elegante e iniziarono a conversare. 

La ragazza disse che abitava a Padova e andava a New York per far compagnia ad una zia che era rimasta vedova, e le sarebbe piaciuto convincerla a tornare in Italia. Disse a Primo che era felice di parlare con lui, una persona inusuale, infatti, non aveva mai conosciuto un boxeur che avrebbe combattuto per il titolo mondiale dei pesi massimi. Carnera le sorrise, e le disse che l’America rappresentava per lui la carta vincente del momento. La donna si mise a raccontare che si era laureata in lettere all’Università di Padova, e il suo sogno era quello di lavorare per i quotidiani nazionali. Quando conobbe Carnera pensò subito di scrivere un articolo da pubblicare su un giornale di Padova. Primo ne rimase felice e si dilungò nel racconto con particolari riguardanti la sua vita nel circo e i suoi combattimenti in Germania. La ragazza lo salutò felice, per lei era la persona più importante che aveva incontrato, gli diede la mano, e Primo sentiva quella manina che si perdeva nella sua. Durante il viaggio aveva cominciato ad allenarsi con Paul che, nel frattempo, stava superando il mal di mare. Alla mattina presto correvano lungo il perimetro della nave. Faceva un freddo cane, ma si vestivano con molta accortezza, e ad entrambi piaceva sentire il profumo ed il rumore del mare. 

Alcuni italiani che aveva conosciuto e che viaggiavano in terza classe, lo seguivano negli allenamenti. Carnera aveva un cuore davvero generoso e si era messo d’accordo con il cuoco che gli passasse del cibo da distribuire tra di loro. Un giorno aveva chiamato il medico di bordo, perché una donna e il suo bambino stavano male, e costui fu felice di fare qualcosa per il campione. La donna ed il figlio avevano la febbre molto alta. Questa disponibilità verso le persone povere lo rese ancora più popolare. Una sera con il capitano organizzò una lotteria per raccogliere del denaro da destinare a quelli che avevano bisogno, e questa iniziativa ebbe un grande successo. La gente si era abituata a conoscere questo gigante dal cuore buono, lo apprezzava e sperava che potesse trionfare. La giovane che lo aveva intervistato gli disse che aveva preparato il suo primo articolo e, se voleva, glielo avrebbe spedito. Carnera le diede l’indirizzo di sua madre, perché non sapeva nulla sulla sua destinazione in America. Nella nave aveva fatto la conoscenza di alcuni uomini italiani che da anni vivevano in America e qualche volta aveva giocato a carte con loro, senza rischiare il denaro che aveva portato con sé. Passarono i giorni successivi quasi in un baleno e finalmente si vide una mattina la famosa statua della Libertà, immersa nella nebbia. 

L’America lo aspettava e iniziava la sua avventura. Quando discese la scaletta, gli italiani che viaggiavano in terza classe urlarono il suo nome, e lo salutarono, ansiosi di raccontare ai loro famigliari che avevano conosciuto un campione che aveva un buon cuore e coraggio da vendere: infatti, fino ad ora non si era mai arreso davanti alle difficoltà della vita


venerdì 19 febbraio 2021

Liberazione dell'Italia. Ecco il "film" degli alleati


Da Salerno a Milano e Bergamo. Così la storia in presa diretta smentisce la vulgata comunista

di Francesco Perfetti 

L'idea dell'unità della Resistenza a guida comunista come mito fondante dell'Italia post-fascista fu il grande capolavoro di quella cultura azionista e comunista che si era proposta, in linea con il progetto gramsciano, la conquista della società civile e politica.

Tale idea presupponeva che la Resistenza fosse stata un movimento popolare di massa all'interno del quale le componenti non comuniste erano state inessenziali o marginali. Scomparvero, così, o furono minimizzati, in tanta letteratura storiografica, sia i contributi forniti alla Liberazione da parte di uomini o formazioni partigiane - cattolici, liberali, monarchici - che non fossero comunisti sia, ancora, quelli dei militari e degli internati nei campi di prigionia tedeschi. Persino in una opera celebrata come innovativa, quale fu il volume di Claudio Pavone dal titolo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, le cose non cambiarono troppo: anche in quel caso il contributo di alcune componenti alla Liberazione (si pensi, per esempio, alla monarchica e liberale Franchi di Edgardo Sogno) è marginalizzato mentre il contrasto fra partigiani di colore diverso culminato nella strage di Porzûs è confinato in qualche nota a piè di pagina.

Non basta. La mitizzazione della Resistenza - enfatizzata retoricamente anche dalle e nelle cerimonie celebrative - ha finito per diffondere una idea falsa della realtà storica veicolando l'idea che la Liberazione sia stata opera esclusiva, o quanto meno prevalente, della Resistenza e ridimensionando, in tal modo, il contributo militare degli Alleati a un evento che, senza il loro intervento, probabilmente avrebbe faticato a realizzarsi. A tale visione, frutto evidente di «uso politico della Resistenza», assesta un duro colpo l'ultimo importante studio dello storico contemporaneista Gianni Donno dal titolo La liberazione alleata d'Italia 1943-1945 (Pensa Multimedia, 11 volumi in cofanetto, euro 275) impreziosito da un imponente apparato iconografico e da una eccezionale documentazione archivistica proveniente dagli archivi americani e fino ad oggi inedita.

Arricchito da due introduzioni, di Piero Craveri e di Giampietro Berti, il lavoro mostra come la Liberazione sia avvenuta, proprio e soprattutto, grazie all'avanzata delle Forze Alleate lungo il versante tirrenico dallo sbarco di Salerno (settembre 1943) sino a Milano e Bergamo (aprile 1945). Una lunga e faticosa marcia ostacolata dalla resistenza delle truppe tedesche asserragliate lungo la Linea Gotica, ma anche dalle caratteristiche del territorio e dalle condizioni atmosferiche. La «campagna d'Italia», insomma, non fu affatto una passeggiata. Costò agli alleati circa 90mila morti in combattimento o a causa della guerra sepolti in 42 cimiteri sparsi in tutta la penisola. Un grande sacrificio di sangue, dunque, che per molto, troppo tempo la «vulgata» resistenziale ha lasciato in ombra per motivi esclusivamente politici. Un sacrificio che - pur senza nulla togliere al contributo di sangue dei partigiani, che secondo i dati riportati da Donno fu di circa 7mila morti - fa ben comprendere, come osserva giustamente Craveri, chi fossero stati davvero i «protagonisti» della liberazione d'Italia dal fascismo e dal nazismo.

Rispetto ad altre opere storiografiche sulla campagna d'Italia, il lavoro di Donno è originale perché la ricostruzione dell'avanzata alleata dopo lo sbarco di Salerno è fatta utilizzando i Reports of Operations delle unità combattenti americane, cioè i rapporti stilati dai comandanti di pattuglie, compagnie, battaglioni al termine delle singole operazioni. Si tratta di una documentazione che l'autore integra, naturalmente, con le altre fonti tradizionali, ma che, con il suo linguaggio scarno ed essenziale, offre un suggestivo racconto in «presa diretta» e dà conto dei sentimenti di entusiasmo o paura, di aspettative o delusioni degli uomini inquadrati nella V Armata e impegnati nelle operazioni belliche.

Al tempo stesso, questa documentazione aiuta a comprendere meglio la logica di certe scelte strategiche o tattiche suggerite da fattori imponderabili. Per esempio, le piogge torrenziali sull'Italia centromeridionale nell'ultimo trimestre del 1943 provocarono smottamenti di terreno e allagamenti che resero difficile, in qualche caso addirittura problematica, l'avanzata dei mezzi corazzati. Di tutto ciò, ed anche dei riflessi sul morale dei militari, si trova una precisa registrazione nei Reports of Operations. Di particolare interesse, lo sottolineo per inciso, è la riproduzione fotografica di alcuni numeri del settimanale Yank, un rotocalco che aveva come sottotitolo The Army Weekly e che era destinato ai soldati impegnati al fronte sia per offrire loro un aggiornamento periodico anche fotografico dell'andamento delle operazioni militari, sia per tenerne alto il morale e galvanizzarne gli spiriti.

Nel complesso, dunque, il lavoro di Gianni Donno sulla liberazione alleata dell'Italia non è, come la maggior parte delle più conosciute opere sull'argomento, una «storia politica» o una «storia militare» di taglio tradizionale costruita con un approccio di tipo «macrostorico», ma è piuttosto una narrazione di tipo «microstorico» che consente in qualche caso di rivedere taluni giudizi consolidati o di spiegare certe situazioni o decisioni. Basterà un solo esempio. Dai Reports of Operations si comprende il motivo dell'uso massiccio della artiglieria pesante e dei bombardamenti alleati. Si trattò, infatti, di una scelta, in certo senso, obbligata dalla accanita difesa delle truppe germaniche che, utilizzando piccole unità e cecchini ben celati, riusciva a ritardare l'avanzata delle truppe americane in un territorio aspro e difficile provocando uno stillicidio di caduti tra le loro file.

Al di là della ricostruzione degli aspetti militari della Campagna d'Italia, tuttavia, il lavoro di Donno finisce per avere una importanza che trascende la dimensione della «storia militare» propriamente detta perché contribuisce a demitizzare la vulgata resistenziale sulla Liberazione e a far comprendere come il contributo degli Alleati sia stato, davvero, fondamentale per le sorti del Paese.


Fonte: Il Giornale

Piccola rassegna stampa su Famiglia Cristiana


Sottoponiamo all'attenzione dei nostri amici due articoli:

Nota della presidentessa di telefono rosa



martedì 16 febbraio 2021

Capitolo XV: L’anno 1929: Carnera una lunga scia di vittorie


 di Emilio Del Bel Belluz

 

Il 1929 fu un anno terribile che il mondo non avrebbe mai dimenticato. In America, dopo il crollo della Borsa di Wall Street del 24 ottobre, la crisi era diventata ancora più spaventosa. La disoccupazione aveva generato tanti uomini che pativano la fame, intere famiglie che non sapevano come sopravvivere. Una lotta dura che non lasciava presagire momenti di luce. Molte persone si suicidavano, capitava che in certi alberghi la gente chiedesse il piano più alto per buttarsi. Questa situazione tremenda si era estesa a macchia d’olio anche negli altri Paesi. La vita di tanta gente era stata stravolta. La parola depressione economica divenne pesante come un macigno, tante storie che avevano come matrice comune: la disperazione. La gente era costretta a fare mille sacrifici per mettere un boccone in tavola.  Carnera per affermarsi combatté molte volte nel terribile anno della depressione. Dopo l’incontro di Berlino dove aveva perduto la sua imbattibilità, salì sul ring per sedici volte, e riuscì a vincere il pugile Diener che lo aveva umiliato in Germania, il 28 aprile del 1929. Era passato quasi un anno e la rivincita fu fatta a Londra il 17 dicembre del 1929, e in quell’incontro, davanti a un pubblico numeroso, vinse per KO alla sesta ripresa. Alla fine del  1929, aveva disputato ben 19 incontri dei quali  undici vinti per KO, e due  sconfitte, di cui ottenne la rivincita. Nell’ultimo anno era stato a combattere in tante città: Parigi, Londra, S.Sebastiano, Marsiglia, Lipsia e Berlino. Il primo incontro con Stribling si svolse a Londra il 18 novembre 1929 e vinse per squalifica Carnera. Accadde una cosa importante che non avrebbe mai dimenticato, per uno come lui che era venuto dalla terra, da un mondo semplice. La vita con il circo gli aveva permesso di conoscere molto bene la Francia, tutti i piccoli paesi e gli aveva garantito almeno di poter mangiare e godere di qualche soldo, e poi l’opportunità di diventare un pugile. La sua fama di boxeur gli aveva permesso di combattere finalmente la fame; ma Carnera non avrebbe mai pensato di sedere assieme a tavola con un sovrano. La notizia giunse anche in Italia ed il Gazzettino del 20 novembre 1929 la riportò. “ Il Principe, futuro re Edoardo VIII, partecipò con Carnera ad un pranzo d’onore in casa di Lord Birkenhead  assieme ad una trentina di membri dell’aristocrazia. Carnera sedeva accanto al Principe, commosso per l’alto onore. Dopo il pranzo il Principe lo invitò a parlargli della sua vita, della sua famiglia e dei progetti per il futuro. Carnera aderì all’invito, suscitando nei presenti vivo interesse. Poi il Principe gli disse: “ Siete fortunato ad essere ancora tanto giovane, potreste così avere la possibilità di conquistare il titolo mondiale”. Il secondo incontro con Stribling si era svolto a Parigi il 7 dicembre 1929 e Carnera aveva perso per squalifica alla settima ripresa.  Primo era diventato più forte e gli allenamenti erano stati continui. Aveva 23 anni e non era più potuto tornare nei luoghi dove era nato e sognava questo momento. Aveva rivisto l’Italia e sua madre nell’unico combattimento che aveva fatto a Milano, nel novembre 1928. Sperando in un suo rientro a Sequals, gli era venuto in mente  l’organizzatore Carpegna che si era suicidato, quel dramma lo aveva dentro ancora e non era risuscito a dimenticarlo. Una sera parlò al suo allenatore di voler rientrare in Italia, ma costui era contrario, il suo posto era la Francia. Si stava già pianificando la data del prossimo incontro che sarebbe avvenuto in America. Era il sogno di tutti i pugili. Carnera insistette nella sua idea di far ritorno a casa, anche perché sua madre non stava tanto bene e  aveva già scritto a lei ed a un suo amico del suo rientro, La vita non era fatta solo di boxe e sentiva in lui la forte esigenza di trascorrere il Santo Natale in famiglia e di  assistere alla Messa di mezzanotte. Negli anni trascorsi all’estero  sognava spesso di rivedere il suo vecchio mondo. Primo Carnera, il 21 dicembre del 1929, tornò a casa. Primo partì dalla stazione di Parigi con alcune valige molto grandi, che contenevano doni e vestiti per la sua famiglia e gli amici meno fortunati di lui. Questa volta non era povero, e poteva permettersi la prima classe. Era famoso, era diventato uno dei pugili più importanti. Con sé aveva portato alcuni album su cui  la giovane del bistrot aveva incollato dei ritagli di giornale che parlavano di lui. Non vedeva l’ora di mostrarli alla sua famiglia. Questa vita è una bestia, una volta aveva detto in un momento di tristezza, ma tutto passa, anche il dolore ed ora il suo cuore esultava. Gli dispiaceva che la giovane del bistrot non l’avesse accompagnato e nemmeno fosse venuta a salutarlo alla stazione. Per lei gli addii erano troppo tristi da sopportare.  Carnera sentiva che quell’amore era molto importante e che non poteva finire tanto presto. Lasciando la Francia, provava un senso di riconoscenza verso coloro che lo avevano sostenuto.  La vita in quel periodo gli aveva  sorriso. Sapeva bene che non ci sono dei momenti solo felici, e bisognava apprezzare la gioia più che si poteva. Il suo allenatore gli aveva sempre raccomandato d’essere umile con tutti, specialmente sul ring dove tutto poteva cambiare da un momento all’altro. L’avversario è sempre imprevedibile,  i pugni fanno male, e il tappeto della vita è più doloroso del tappeto del ring. Il viaggio in treno fu lungo, ma non gli pesò, tanta era la voglia di rivedere la sua terra. Quando giunse finalmente alla stazione di Udine, qualcuno lo riconobbe e si avvicinò a salutarlo. Primo parlò con tutti, si diresse al bar della stazione dove fece un’ abbondante  colazione, che incuriosì le persone attorno nel vedere quanto mangiava e quanto alto e muscoloso era. Caricò i bagagli su un taxi, e si diresse a Sequals. La giornata di dicembre era fredda, ma aveva un grande cappotto che lo riparava. Provò una grande emozione quando sentì la parlata friulana del taxista che gli narrò gli avvenimenti più importanti degli ultimi tempi. Prima di arrivare in paese, chiese di fermarsi un attimo al cimitero, voleva portare un pensiero alla sua maestra. Non ebbe difficoltà a trovare la sua tomba, dove si raccolse a pregare, e in quegli attimi gli venne una grande nostalgia per una persona che lo aveva davvero amato, gli aveva insegnato cosa fosse la vita e gli aveva donato la bandiera Sabauda dalla quale non si era mai separato. Passando tra le tombe, riconobbe con sorpresa tante persone che erano morte, tra cui molti anziani del paese e si incupì nel vedere la tomba di un suo compagno di scuola, con il quale aveva spesso giocato. Mentre usciva dal cimitero s’avvicinò alla tomba del soldato austriaco a cui aveva preso le scarpe che era  posta vicina a quella di due soldati italiani, militi di due nazioni diverse che dormivano sotto lo stesso cielo, il sonno degli eroi. Il suo sguardo, poi, si posò sulle montagne, e sulla  chiesa che si stagliava verso il cielo. Quanto tempo era passato, sperava che ci fosse sempre lo stesso  vecchio prete e si domandava se sarebbe stato riconosciuto. Il tempo ti fa cambiare le persone con cui ti relazioni, ma quelle che hai conosciuto nell’infanzia te le porti sempre dentro. Un poco più avanti, una vecchia con dei fiori in mano lo riconobbe, lo chiamò per nome e le chiese di abbracciarlo. La donna era talmente piccola che Primo dovette inginocchiarsi per stringerla a sé. Il tassista si fermò davanti alla sua casa, scaricò le valige dal taxi. Primo rivide la mamma che lo abbracciò, questa volta non si mise in ginocchio come a Milano, l’anno prima. Dalla casa accorsero i fratelli, e il padre che stava nella stalla perché avevano riconosciuto la voce di Primo. Tra di loro ci fu una semplice stretta di mano, suo figlio non era più un bambino, questa volta aveva davanti un colosso d’uomo, una quercia come quelle  che era abituato ad abbattere nel bosco. La gente che abitava vicino alla casa di Primo voleva salutare il campione, l’uomo che aveva fatto sognare il paese. Ben presto la cucina si riempì di persone, e ognuna di loro lo salutava con affetto, specialmente i bambini che lo vedevano per la prima volta. In paese c’era aria di festa, tutti volevano vedere Carnera che da tempo era lontano, ed avevano potuto seguire le sue gesta solo dai giornali. Carnera era felice, la mamma aveva subito preparato qualcosa da mangiare, il padre Sante andò in cantina a prendere il vino migliore per brindare il ritorno del campione. Quando la cucina fu riempita di persone, Primo pensò d’uscire in strada, anche se faceva freddo, dove la gente del paese aveva preparato dei tavoli con sopra dei fiaschi di vino, del pane fresco e dei salami. In poco tempo la metà del paese si era riunita. La felicità del campione e dei suoi famigliari era immensa. Arrivò pure il vecchio parroco, che aveva tanti anni. Lo ospitarono in casa per non fargli prendere freddo. Il curato e il sindaco, le persone più illustri del paese, riservarono per Primo delle parole di lode e di gratitudine per aver fatto conoscere Sequals all’estero. Il parroco lo abbracciò e gli raccomandò la sua presenza in chiesa la prossima domenica. Era stato lui a battezzarlo, ed era lui che gli scriveva le lettere che la mamma gli dettava. Il vecchio prete non disdegnò qualche bicchiere di vino, ma lo sguardo della perpetua lo gelò al secondo bicchiere. Questa volta la donna non disse nulla, oggi era grande festa e bisognava accettare quel ben di Dio. Primo raccontò che quando si è lontani,  la nostalgia per quello che si è lasciato, é una ferita che non si rimargina mai e ti prende soprattutto alla sera, quando sei solo nella tua stanza. Quando era lontano, il suono delle campane del suo paese gli mancava moltissimo. Il primo pensiero del mattino e l’ultimo della sera era rivolto ai suoi genitori. La gente continuava ad arrivare, le donne del paese avevano preparato la gubana: il dolce preferito da Primo. Qualcuno andò a prendere una fisarmonica, sapendo che al campione  piaceva suonarla. Allora si cominciò a cantare e a ballare, il vino mitigava la sensazione pungente del freddo. Qualcuno aveva cominciato a cantare le vecchie canzoni che parlavano di coloro che avevano lasciato la propria terra e qualche lacrima era scivolata furtiva sul volto di tanti, ma complice il buio non si vide. Carnera era stato festeggiato come se avesse vinto il titolo mondiale dei pesi massimi, in realtà, aveva solo vinto una ventina d’incontri. Una ragazza del paese gli chiese come era andata la cena con il principe del Galles, e se era bella l’Inghilterra. Carnera, vista la grande curiosità della giovane, la accontentò dilungandosi a raccontare con generosità di particolari. Primo passò i giorni seguenti attorniato dal calore della famiglia; la mamma lo viziava con i suoi piatti preferiti. Ora in casa Carnera, grazie alle somme inviate dal figlio, non regnava più la povertà. La mamma però cercava di non  farsi vedere troppo affettuosa con lui, non voleva ingelosire gli altri due figli. Le madri sono gli angeli della casa, il fuoco della famiglia, e nessun vento avrebbe potuto spegnare l’amore che donano. Alcuni giorni dopo venne a trovarlo quel bambino che era fuggito da casa e che era andato a Milano, fingendo d’essere il nipote. Il ragazzo era in compagnia dei genitori che ringraziarono il campione per le gentilezza avuta per il figlio e per la grossa mancia che gli aveva dato. Il ragazzo era cresciuto e a scuola andava bene. Qualche sera Carnera andava all’osteria del suo paese, il Bottegon, dove gli piaceva giocare a carte con gli amici e bere qualche bicchiere di buon vino. Gli affari dell’oste erano notevolmente migliorati, grazie all’aumento degli avventori che accorrevano per vedere il campione. Inoltre, il proprietario aveva fatto stampare delle foto di lui e della sua casa natia che venivano autografate da Primo e poi distribuite ai clienti. Carnera aveva sempre con sé una bella penna stilografica, che esibiva volentieri come un trofeo. Gli era stata regalata da un tifoso in Francia, e per lui era un portafortuna di cui era gelosissimo. Nei giorni che precedevano il Santo Natale, il parroco aveva chiesto l’aiuto di Primo per costruire la capanna, sapendo che lui era un bravo falegname, e per restaurare delle statue che con il tempo si erano danneggiate. Alla fine in chiesa c’era il presepe più bello, mai costruito prima. Il vecchio parroco sentiva il peso degli anni, ma sembrava che in quei giorni tutto fosse incantevole. Venne la vigilia del S. Natale ed il sacerdote celebrò la Messa di Mezzanotte, la chiesa era gremita di gente. A Primo quei momenti magici e ricchi di fede erano mancati tanto. Carnera aveva capito che, dopo aver viaggiato molto, il posto che amava di più era il paese dov’era nato. La festa del Natale la passò in famiglia, che da anni attendeva questo momento e non pensava che si realizzasse. Il buon cibo, il presepe allestito in un angolo della casa assieme all’albero con le luci scintillanti, gli erano mancati molto. Quella sera la mamma gli chiese se avesse una fidanzata, se qualche ragazza avesse rapito il suo cuore. Il pugile abbassò gli occhi, come se dovesse nascondere qualcosa, ma era solo la timidezza che aveva dentro che non riusciva a vincere. Raccontò che in Francia aveva conosciuto una ragazza con la quale usciva nei momenti di libertà, era una giovane tranquilla che lavorava in un bistrot  e gli procurava tanta gioia lo stare insieme. Proprio in quei giorni le aveva scritto una lettera. Dal portafoglio trasse una sua foto e la mostrò ai genitori, che la guardarono ammirandola, era una bella giovane e le domande della mamma si fecero incalzanti e Primo rispondeva con poche parole. Il S. Natale, che era iniziato con la Messa  di Mezzanotte, finì; come tutte le cose belle terminano troppo in fretta. In quei giorni aveva ricevuto un telegramma da Léon Sée, che gli annunciava che ai primi di gennaio sarebbero partiti per l’America: una nuova avventura sarebbe iniziata. Tenne la notizia per sé, non voleva preoccupare la madre. Carnera avrebbe preso una nave come tanti avevano fatto per andare a lavorare nelle Americhe, con il cuore pieno di speranza. Il mondo della boxe negli Stati Uniti era molto popolare, nonostante ci fosse la depressione economica. Bisognava salire la vetta per arrivare al titolo mondiale.  Gli ultimi giorni a Sequals furono piuttosto malinconici. La mamma se ne era accorta, ma non volle chiedergli nulla. Festeggiò il capodanno con la famiglia e gli amici. Il giorno prima della partenza si recò dal parroco per salutarlo, e si raccomandò di stare vicino alla sua famiglia. Prima di lasciare la canonica, gli consegnò una somma di denaro da destinare ai poveri del paese. Il parroco gli diede un bacio e gli promise che avrebbe pregato per lui. Lasciò dei soldi, anche, alla mamma di un suo compagno di scuola, che dopo aver perso un figlio ed il marito, non se la passava bene. Quello stesso giorno tornò al cimitero dove era sepolta la sua mastra e incontrò la donna che l’aveva assistita con tanto amore, e gli disse che l’insegnante aveva sempre pensato a lui, lo nominava sempre, e gli aveva voluto bene come una mamma. Lasciando  il cimitero con Lucia, volle portare un fiore al soldato austriaco a cui aveva sfilato le scarpe, con le quali era andato in Francia. L’indomani mattina Carnera partì con il taxi verso la stazione di Udine, dopo aver abbracciato la mamma e salutato i fratelli e il padre. Lasciando Sequals, venne colto dalla stessa tristezza che provò quando lasciò l’Italia per la prima volta, per recarsi in Francia. Le ultime immagini che portò con sé furono una casa con le luci accese ed il fumo di un camino che volteggiava verso il cielo.


sabato 13 febbraio 2021

13 Febbraio. Gaeta si arrende. La fine di un Regno.

 


Il 13 febbraio 1861, dopo un assedio iniziato dalle truppe italiane il 5 novembre, la fortezza di Gaeta, ritenendo, giustamente, il comando borbonico, ormai inutile ogni ulteriore resistenza, che avrebbe provocato solo nuovi lutti, si arrendeva e l’indomani, 14 febbraio, Francesco II con Maria Sofia, e la famiglia, si imbarcavano sulla corvetta “La Mouette”, messa a loro disposizione, da Napoleone III, per raggiungere Terracina e da lì Roma. Il generale Cialdini, comandante delle truppe italiane poteva prendere possesso della città, dalla quale uscivano, incolonnati, con l’onore delle armi, le truppe borboniche, con alla testa i loro generali, ai quali Cialdini ed il Principe Eugenio di Savoia, Luogotenente del Re, rivolgevano parole di meritato encomio per la difesa da loro, per mesi, sostenuta in Gaeta. Il Cialdini, che il Re Vittorio Emanuele avrebbe insignito del titolo di Duca di Gaeta, poi volle che il successivo 17 febbraio venisse celebrato sull’istmo una messa funebre per invocare pace all’anima degli estinti di entrambe le parti, rivolgendo alle truppe un ordine del giorno, di cui riproduciamo la seconda parte per la nobiltà di sentimenti ivi espressa:

“Soldati,

noi combattemmo contro italiani, e fu questo necessario ma doloroso ufficio; perciò non potrei invitarvi a manifestazioni di gioia, non potrei invitarvi agli insultanti tripudi del vincitore. Stimo più degno di voi e di me il radunarvi sotto le mura di Gaeta, dove verrà celebrata una gran messa funebre. Là pregheremo pace ai prodi, che durante questo memorabile assedio perirono combattendo tanto nelle nostre linee, quanto sui baluardi nemici. La morte copre di un mesto velo le discordie umane, e gli estinti sono tutti eguali agli occhi dei generosi. Le ire nostre d’altronde non possono sopravvivere alla pugna. Il soldato di Vittorio Emanuele combatte e perdona”.

Questo 13 febbraio ricorre perciò il centosessantesimo anniversario di questo storico evento che sanciva la fine del regno borbonico e poteva così consentire a Cavour, un mese dopo, di poter presentare al Parlamento, ancora subalpino il disegno di legge, di un solo articolo che proclamava Vittorio Emanuele II, Re d’Italia.

Domenico Giglio

mercoledì 10 febbraio 2021

Santa Messa in suffragio di Camillo


Ursula, Costanza e Giulio Zuccoli

ricorrendo il secondo anniversario della scomparsa dell'amatissimo



                                             Camillo 

faranno celebrare una Santa Messa in suffragio martedì 16 febbraio, alle ore 18:00

nella 

Basilica di "San Lorenzo in Lucina"

in Piazza San Lorenzo in Lucina n. 6, 

00186 - Roma


Si ringrazia anticipatamente chi vorrà partecipare



10 Febbraio


 

lunedì 8 febbraio 2021

Il ruolo propulsore delle “visioni politiche”

 

 

di Aldo A. Mola

 

Le cure di Arcuri: il fallimento della programmazione

 Un punto fermo della svolta in corso è che essa è “politica” nel senso alto e forte del termine. Comunque proceda e si sviluppi, è nata dalla decisione meritoria di Matteo Renzi di uscire dal governo Conte-bis per dissenso sulla sua condotta, del tutto insoddisfacente a fronte delle urgenze del Paese, poi ricordate dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella: la sanitaria, l'economica e la sociale, ma mai affrontate con la tempestività e la risolutezza necessarie.

 Le vere e drammatiche ripercussioni economiche e sociali nel periodo medio-lungo della pandemia sono ancor tutte da vagliare, mentre ristagna l'elaborazione del benedetto “piano” per arginarle e invertire la rotta: quel “progetto” che il governo Conte-Gualtieri non è giunto a proporre, così mostrando la sua inadeguatezza programmatica e quindi “politica”. Le si capirà meglio quando, prima o poi, si passerà dalle misure tampone (protrazione della cassa integrazione e divieto di licenziamenti) alla normalizzazione del rapporto tra produzione e mercato in tutte le loro componenti interne e internazionali.

 Durante le guerre gli Stati si sono sempre indebitati fuori misura e senza controlli. L'Italia lo ha fatto, rovinosamente, nel 1914-1918; e nuovamente nel 1940-1946: dieci anni che pesano per cento. Poi, appunto, è sempre arrivata l'ora della “resa dei conti. E' quanto l'Italia deve aspettarsi al termine di un anno durante il quale il governo ha estorto al Parlamento “scostamenti di bilancio” enormi ma di modestissima efficacia quale volano per la ripresa, trangugiati da tanti settori solitamente vigili nel timore di essere tacciati di “lesa patria”. Senza giri di parole e chiamando le cose come sono, col pretesto di fronteggiare l'“emergenza” il “Conte II” ha indebitato i cittadini presenti e futuri, recidendo i garretti di qualsiasi “ripresa” ventura. Non ha affatto “ristorato” quanti sono stati impediti di svolgere la loro normale attività d'impresa economica, ha soffocato il commercio e i consumi, ha impoverito il gettito dell'imposizione corrente (e quindi le sue stesse risorse immediate e venture) e ha lasciato briglia sciolta a “Potentati di spesa” del tutto fuori controllo, a cominciare dal Commissario Domenico Arcuri che si è prodotto in iniziative incongruenti, dai banchi scolastici a rotelle (il cui uso è rifiutato dai loro destinatari) ai padiglioni a primula dal malaugurate colore di sangue rappreso, anziché procedere celermente alla vaccinazione di massa: operazione dinnanzi alla quale ha mostrato la stessa reattività esibita nella fase pandemica iniziale quando mancarono mascherine, camici e tamponi.

 Il risultato della “non politica” del governo uscente è nell'eredità materiale che esso scarica su quello entrante. Se tutto fila liscio ad aprile risulterà vaccinato poco più del 10% degli italiani: una quota lontanissima dal minimo indispensabile per invertire la rotta e passare dall'emergenza perpetua, cara all'Avvoltoio appulo, alla normalità, dalla comunicazione istrionica e isterica imperversante da ormai un anno a un dialogo serio tra governo, amministrazioni pubbliche e cittadini, che non sono affatto grulli e vanesi come vengono dipinti ma hanno bisogno di informazioni affidabili, scientificamente tarate e proposte in modo chiaro anziché fatuamente emotivo. Quanto a “comunicazione” è ora che le televisioni smettano di rifilare ogni mezz'ora immagini di aghi conficcati qui e là nei muscoli di poveretti che girano gli occhi dall'altra parte, di fiale, siringhe, cerotti e frigoriferi per la conservazione di vaccini: spettacoli che rimandano alle piazzate medievali, quando le folle erano attratte dai supplizi inflitti ai condannati a morte. Per far capire che a volte occorre farsi curare un dente non c'è bisogno di riprendere in diretta televisiva la bocca spalancata e le tenaglie che lo strappano dalla radice.

 

Per un'Italia “più viva”: Parva favilla gran fiamma seconda

 Se però l'Italia davvero risalirà la china lo si deve, ripetiamo, a un altro e decisivo strappo: quello attuato da Matteo Renzi nei confronti di un governo statico ed estatico, in attesa del “miracolo”: l'elargizione futura (aspetta e spera... ) dei finanziamenti previsti dal Piano Europeo per la Ripresa a fronte di progetti sostenibili e verificabili: né più né meno di quanto richiesto per ottenere il MES, ora uscito dall'orizzonte immediato ma non dalle necessità del Paese. L'Italia ne ha bisogno estremo per ammodernare il sistema sanitario, che è infantile dividere nelle categorie di pubblico e privato perché il contagio virale non fa distinzione di classe, lingue, religioni eccetera... Come il Verbo di Giovanni Evangelista, perfidamente esso “soffia dove vuole”.

 Ma (dicono i sondaggi) Renzi conta solo il 2% delle intenzioni di voto. E allora? La verità della politica, quella alta, non si misura sulla base dei consensi raccolti dai simboli dei partiti ma della forza delle idee, dalla loro lungimiranza. E' lì la differenza tra la politica fondata sulla scienza (l'unica politica vera) e quella avvolta nelle chiacchiere degli imbonitori. Per quanto superfluo, va ricordato che il Novecento è il non rimpianto secolo delle masse, anzi delle “folle”, manipolate e spinte a condotte suicide, a “credere obbedire combattere” senza capire perché, dove e con quali vantaggi. 

 Lasciando ai margini il passato remoto, va ricordato che all'indomani della seconda guerra mondiale le condizioni dell'Italia non migliorarono grazie ai tanto celebrati partiti “di massa”, fermi nel culto dei rispettivi feticci (Stalin da un canto e la ierocrazia superstiziosa dall'altro) ma per l'azione di micropartiti colti e lungimiranti, minoritari nei consensi ma maggioritari nella capacità programmatica e nella forza trainante delle loro “pre-visioni”. Esattamente come era accaduto nella seconda metà del Settecento illuministico e nuovamente nell'Ottocento, quando una minoranza esigua guidò il processo verso l'unità nazionale che strappò l'Italia dal lungo “Medioevo”. All'indomani della guerra i partiti numericamente maggioritari per voti e per seggi in Parlamento erano nettamente contrari alla “occidentalizzazione” dell'Italia: una prospettiva rifiutata sia dai socialcomunisti accorpati nel Fronte popolare sia dai democristiani, diffidenti nei confronti dell'“America”, sospetta per i suoi costumi (visti come “malcostumi”).

 

 A riposizionare l'Italia “a Occidente”, dove essa già si era attestata con i sovrani, da Vittorio Emanuele II a suo nipote, Vittorio Emanuele III, furono partiti dal modesto seguito elettorale ma proiettati nella direzione storica assunta dai “patrioti” sin dagli albori del Risorgimento, come il “britannico” milanese Federico Confalonieri, che l'Imperatore d'Austria fece condannò a morte, chiuse i condizioni disumane allo Spielberg e rilasciò a condizione che esulasse negli Stati Uniti d'America.

 Orbene, nella Ricostruzione postbellica Alberto Tarchiani, ambasciatore d'Italia a Washington, fece più degli esponenti dei “partiti di massa”, incluso il democristiano Alcide De Gasperi. Altrettanto fecero esponenti di partiti piccoli e piccolissimi, come Leo Valiani e Piero Calamandrei, eletti alla Costituente del dissolto partito d'azione, e Ugo La Malfa che da quello stesso partito transitò con Ferruccio Parri in quello repubblicano. Alle elezioni del 1948 il PRI racimolò il 2,5% dei voti e 9 seggi, che nel 1953 si ridussero all'1,6% e a cinque scranni. I liberali nel 1948 ottennero appena il 3,8 dei consensi e 19 seggi che scesero a 13 cinque anni dopo quando esso ebbe il 3% dei voti benché presidente della Repubblica fosse il loro “numero uno”, Luigi Einaudi. A loro volta i socialdemocratici fletterono dal 7,2 % del 1948 al 4,5% del 1953 e da 33 deputati scesero a 19. Eppure furono quei partiti minori a tenere il timone dell'Italia verso Occidente mentre Pio XII continuava a ritenere che persino Rotary, Lions e analoghe associazioni “di servizio” fossero quinte colonne di una massoneria occulta, satanica, più infida e pericolosa dei socialcomunisti bonaccioni di strapaese.

Il passaggio a nord-ovest....

 Paradossalmente (è l' “ironia della storia”) furono quei piccoli partiti (incluso il repubblicano) a tenere viva la memoria del Risorgimento, della “grande guerra patriottica” del 1915-1918, della rivendicazione dell'italianità di Trieste e Gorizia, dell'Istria, di Fiume e delle città italofone della Dalmazia, del ruolo dell'Italia in un'Europa e in un mondo depurato dalla miopia del nazionalismo e delle illusioni autarchiche del rovinose regime mussoliniano. Con gli stessi argomenti della miglior tradizione patriottica monarchica, furono quei partiti minori a riportare l'Italia nei binari dell'età ante-fascista. Negli Anni Sessanta se ne fece interprete il socialdemocratico ravennate Giordano Gamberini, già vescovo della chiesa gnostica.

 Non può quindi stupire che a “manovrare lo scambio” per avviare l'Italia nei binari giusti sia stato ora un partito del 2% come Italia Viva. I voti non si contano ma si pesano. Per molti “partiti” i consensi pletorici sono un gravame soffocante. E' il caso del Movimento Cinque Stelle (mai giunto a darsi identità vera), come, per altri versi, del Partito Democratico e di altri: appesantiti e frenati dalla necessità di raccattare consensi anziché capaci di progettare e proporre, di andare oltre le tattiche elettorali e di tornare alla strategia e recuperare il senso profondo della “politica”, come si fece negli Anni Sessanta con la “politica dei redditi” e la programmazione economica propugnata da La Malfa e negli Anni Settanta con la messa a punto di “Progetto '80” e i piani del Club di Roma.

 C'è davvero bisogno di partiti? Dal proto-Risorgimento e nelle guerre per l'indipendenza e per l'unificazione nazionale l'Italia non ebbe “partiti”. Ai tempi di Massimo d'Azeglio, Camillo Cavour, Quintino Sella...via via sino a Giolitti non vi furono “partiti liberali” ma persone di governo capaci e meritevoli, severe verso la stessa classe sociale di cui erano espressione, perché le riforme costano molto e il loro gravame non può essere scaricato sui nullatenenti, da avviare invece alla emancipazione attraverso scolarizzazione ed educazione civica: una missione immane e di lungo periodo. Risalire la china richiede un paio di generazioni. E' quella che si prospetta all'Italia odierna: al bivio tra progresso nella libertà e pauperismo nella decrescita infelice, tra falso egualitarismo e meritocrazia, tra governo delle competenze e occupazione del potere nel nome di quel Jean-Jacques Rousseau che s'impancò a pedagogo ma abbandonò cinque all' Hospice des enfants trouvés. Alla larga, se è quello il rapporto consequenziale tra pensiero e azione....

 

 Ecco perché ora tocca a Mario Draghi e a chi saprà assecondarlo nella nuova Ricostruzione di cui l'Italia ha urgenza dopo tre anni di “non governo”, che si risolve nella peggior forme di malgoverno.

Aldo A. Mola   

 

 

BOX

 

I 107 “SENATORI DI DIRITTO” CHE NEL 1948 ARGINARONO LA DERIVA DEMO-CLERICALE

 

 

La III Disposizione transitoria e finale della Costituzione in vigore dal 1° gennaio 1948 stabilì che “per la prima composizione del Senato della Repubblica” fossero nominati senatori i deputati eletti all'Assemblea costituente il 2-3 giugno 1946 forniti di determinati requisiti. Il “privilegio” una tantum fu riconosciuto a ex presidenti del Consiglio dei ministri o di assemblee legislative; ai membri del disciolto regio Senato ma non “epurati” (una “trappola” il cui esame richiederebbe da solo ampio spazio); a chi fosse stato eletto deputato almeno tre volte (anche alla Costituente); a quanti erano stati dichiarati decaduti dalla Camera con l'iniqua legge del 9 novembre 1926 e avesse scontato pene di reclusione non inferiore a cinque anni inflitte dal Tribunale speciale fascista per la difesa dello Stato. Furono nominati senatori di diritto” per quella prima legislatura repubblicana anche gli ex senatori del Regno componenti della Consulta Nazionale durata in vita dall'estate 1945 al 1946.

 Se si fossero candidati alle elezioni poi fissate per il 18-19 aprile 1948 i beneficiari del privilegio decadevano automaticamente dalla nomina “una tantum” alla Camera Alta. Come imposto dalla III Disposizione transitoria e finale (ma solo il 22 aprile 1948), venne emanato il decreto del Presidente della Repubblica (Enrico De Nicola) che elencò i 107 senatori “di diritto” del primo Senato della repubblicano.   

 Quei “patres” erano in gran parte anziani, provati dalla storia. Ventidue morirono nel corso della legislatura. Però ebbero un peso determinante anche se oggi è dimenticato e completamente ignorato dalla “narrazione”, secondo la quale il vincitore delle elezioni, Alcide De Gasperi, non formò un governo di soli democristiani perché contava 305 seggi alla Camera su 630 e 131 al Senato su 315. In teoria avrebbe potuto fare tutto da sé cercando l'appoggio di una manciata di “volenterosi” a destra e a manca.

 A impedirglielo fu proprio la composizione politica, culturale e “storica” dei 107 senatori di diritto. In massima parte infatti essi rappresentavano l'Italia anti-fascista ma anche quella ante-fascista: liberali, democratici, socialisti riformisti e cattolici di quel partito popolare che per anni aveva votato a favore del governo Mussolini e se ne era dissociato solo quando assunse il volto di regime di partito unico.

 Per di più tra quei “patres” vi erano molti repubblicani, anticlericali militanti e persino massoni notori come, tra altri, il generale Roberto Bencivenga, Eduardo Di Giovanni, Cipriano Facchinetti, Meuccio Ruini (già presidente della Commissione dei Settantacinque che varò la bozza della Costituzione) e Arturo Labriola, che era stato ministro del Lavoro nel V governo Giolitti e persino gran maestro del Grande Oriente d'Italia a Parigi dal 1932.

 Tra i 107 furono nominati senatori il vercellese Mario Abbiate, il monarchico Tullio Benedetti, Alberto Bergamini, Ivanoe Bonomi, Giuseppe Canepa, Alessandro Casati, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Alfredo Frassati, Luigi Gasparotto, Michele Giua, Stefano Jacini, Emilio Lussu, Cino Macrelli, Enrico Molè, Riccardo Momigliano, Rodolfo Morandi, Francesco Saverio Nitti, Vittorio Emanuele Orlando, Ferruccio Parri, Sandro Pertini, Giovanni Porzio, Giuseppe Romita, Carlo Sforza, Pietro Tomasi della Torretta, Adolfo Zerboglio (liberali, repubblicani, socialisti...) e alcuni comunisti tutti di un pezzo quali Ruggero Grieco, Girolamo Li Causi, Vincenzo Moscatelli, Celeste Negarville, Giovanni Roveda, Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia, Emilio Sereni e Umberto Terracini. Tutti ricordavano bene che nel novembre 1922 De Gasperi aveva votato a favore del governo Mussolini (di cui facevano parte esponenti del partito popolare, compreso Giovanni Gronchi) e poi della legge elettorale che aveva spianato la strada al regime.

 In sintesi la maggior parte dei 107 senatori “costituzionali” non era affatto “democristiana” e meno ancora “papista” mentre pontefice era Pio XII. Dopo aver trangugiato l'inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione quei senatori si sarebbero opposti fermamente a una deriva clericale. Pertanto De Gasperi non avrebbe mai avuto la maggioranza in Senato, proprio perché i “patres di diritto” facevano la differenza. Perciò, non per “generosità” ma per necessità, egli varò il governo quadripartito formato da democristiani, liberali, repubblicani e socialdemocratici, con vicepresidente Einaudi (e poi il Giuseppe Saragat quando Einaudi fu eletto presidente della Repubblica) e il massone Facchinetti alla Difesa.

 Furono quei “senatori di diritto” a salvaguardare la tradizione della Terza Italia che rischiava di essere risucchiata nelle sabbie mobili di una malintesa contrapposizione tra Roma e San Pietro anziché, come era, tra lo stalinismo e l'Occidente liberaldemocratico tutelato dagli Stati Uniti d'America e, di lì a poco, dall'ingresso dell'Italia nella Nato, strenuamente voluto dal “fratello” Randolfo Pacciardi molto prima e più che da De Gasperi.

          Aldo A. Mola