NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 25 marzo 2019

Pedro Sanchez non vale un Franco

Il fanatismo dei neosocialisti spagnoli


di Aldo A. Mola
 
Pedro Sánchez il becchino 
“Quieta non movère” è un saggio mònito degli antichi. Invece il chiodo fisso dei neosocialisti spagnoli, da Zapatero a Pedro Sánchez, è rimuovere la salma di Francisco Franco dal Valle de los Caídos per trasferirla nella cripta più nascosta di Spagna. Zapatero ci provò per anni, invano. Sánchez ripete la litania. Ha persino strappato il tacito consenso delle Cortes, con silenzi opachi e astensioni del Partito popolare e di Ciudadanos, sempre affetti dall'orticaria quando si parla di Franco e del Franchismo, quasi arrivino da un altro pianeta anziché dalla lunghissima transizione che vide alternarsi al governo senza traumi i socialisti di Felipe González e i popolari di Aznar. Da quando è stato battuto in Parlamento e ha dovuto indire elezioni anticipate per il prossimo 28 aprile, Sánchez ne sta facendo una questione di vita o di morte. Poiché spera che la nascita di un nuovo governo vada per le lunghe, ha fissato al 10 giugno il giorno nel quale, costi quel che costi, la salma imbalsamata di Francisco Franco y Bahamonde va assolutamente rimossa, malgrado l'opposizione del priore dell'Abbazia benedettina di Santa Cruz, Santiago Cantera, dipinto come bieco reazionario. Contro la pretesa di Sánchez e dei suoi accoliti sono schierati all'unanimità i sette nipoti di Franco (Carmen, Mariola, Francis, Merry, Cristóbal, Arancha e Jaime), l’Associazione per la Difesa del Valle de los Caídos e un ventaglio di organizzazioni sempre più decise a difendere la memoria autentica del Paese. In attesa che il Tribunale Supremo dello Stato si pronunci sui molti ricorsi pendenti, Sánchez fa della estumulazione uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale. Il suo vero obiettivo, però, non è rimuovere quel che resta del Caudillo di Spagna (come Franco venne detto ai tempi della sua sanguinosa ascesa) ma intimidire Popolari e Ciudadanos, ricattarli con l'accusa di paleofranchismo, di “fascismo eterno” (il “vangelo” di Umberto Eco, ora riecheggiato da Francesco Filippi in “Mussolini ha fatto anche opere buone”, ed. Bollati-Boringhieri). In realtà Sánchez mira a “provocare” e ad infoltire le file di “Vox”, il movimento sorto proprio contro l'estremismo neosocialista e la flebilità dei “moderati”. In tal modo calcola di frantumare il fronte avversario in tre corpi separati e di batterli alle elezioni, grazie alla legge elettorale vigente, pensata per il bipartitismo, non per il caleidoscopio di partitelli e partitini (autonomisti come i “canarini”, indipendentisti, separatisti, federalisti, repubblicani senza se e senza ma...), causa sicura della deflagrazione se non vi fosse lo scudo della monarchia.

Le radici dell'ascesa di Francisco Franco al potere
Ma perché mai l'ossessione neosocialista ispanica per la salma di Franco? Come tutte le “idee fisse”, anche questa non è affatto un mistero. A ben vedere è una sorta di franchismo uguale e contrario. Riassumiamo.
Il Caudillo nacque in una famiglia di liberi pensatori. Lo era suo padre, che gli preferiva il fratello, Ramón, massone accanito come altri consanguinei, poi da Francisco abbandonati alla furia dei reazionari. Il futuro Jefe del Estado fece una brillante carriera nell'esercito, conseguì successi Oltremare e divenne il più giovane generale d'Europa. Però non avrebbe mai avuto spazio politico se la Spagna fosse stata capace di darsi un governo parlamentare stabile. Il dramma del Paese arrivava dal suo passato remoto: secoli di “reconquista cristiana” dal giogo dei “moros” e, nel Cinquecento, la lotta per la “limpieza de sangre”, che impose a islamici e a ebrei di andarsene o di travestirsi da moriscos e da marranos, convertiti ma sospettati. La pace di Utrecht (1713), dopo la guerra di successione sul trono di Madrid, segnò il passaggio dagli Asburgo (“Los Austria”) ai Borbone di Francia. Nel 1808 Napoleone I invase la Spagna e impose re suo fratello maggiore, Giuseppe, “don José Primero”. La feroce guerriglia per l'indipendenza, sorretta dagli inglesi, non finì con la cacciata degli invasori ma con l'annientamento degli “afrancesados”, uccisi o costretti all'esilio. Era la vendetta contro la repressione bonapartistica immortalata da Francisco Goya nel “Dos de Mayo”, rivendicazione popolare contro i metodi insopportabili degli occupanti (gli aristocratici in buona parte si erano “accomodati”). L'Ottocento in Spagna fu un secolo di moti liberali (quasi sempre guidati da militari), di sette segrete e di guerre tra opposti rami della dinastia (uno, reazionario, guidato da don Carlos, contrario alla successione femminile sul trono di Madrid), e di complotti che finirono con l'assegnazione della corona a un re designato dalle Cortes: Amedeo di Savoia, Duca d'Aosta, secondogenito del re d'Italia,Vittorio Emanuele II. Don Amadeo Primero regnò poco più di un anno, col beneplacito del “concerto europeo”, ma dovette fare i conti con il malcontento (locale ed eterodiretto) culminato in vari attentati.
Dopo un'effimera repubblica e il ritorno dei Borbone con Alfonso XII e la perdita di Cuba e delle Filippine (1898), lacerata da movimenti rivoluzionari anarco-socialisti (ne fu campione  e vittima Francisco Ferrer y Guardia, fucilato quale promotore della “semana trágica”), la Spagna parve appartarsi dalla storia d'Europa. Evitò di immischiarsi nella Grande Guerra. La sua economia crebbe, come documenta Fernando García Sanz in opere tradotte anche in italiano. Dalle turbolenze postbelliche uscì non con dittature più o meno totalitarie come avvenne dalla Russia all'Italia e alla Germania ma con un governo autoritario e fattivo, presieduto da Miguel Primo de Rivera. Stanco di opposizioni querule, de Rivera si dimise e si trasferì a Parigi. Nel 1931, all'indomani del successo delle sinistre nelle elezioni amministrative, Alfonso XIII di Borbone lasciò la Spagna senza rinunciare alla Corona. A Madrid venne proclamata la seconda Repubblica. Iniziarono anni di travagli. Si scatenò l'anticlericalismo serpeggiante nel Paese come fiume carsico. Furono dati alle fiamme chiese e monasteri e vennero perpetrate infamie ai danni dei cattolici, documentate da Arturo Mario Iannaccone nell'inoppugnabile “Persecuzione. La repressione della Chiesa in Spagna fra Seconda Repubblica e guerra civile, 1931-1939” (ed. Lindau).
Dopo cinque anni di disordini, in risposta al brutale assassinio del monarchico José Calvo Sotelo da parte dei “rossi”, con l'alzamiento di quattro generali nel luglio 1936 la Spagna precipitò nella guerra civile. Accordi sovraordinati indicarono nel generale José Sanjurjo, già promotore di un colpo di stato militare contro la Repubblica, il capo di una giunta comprendente Emilio Mola, vero “direttore del golpe”, Franco e Queipo de Llano. L'aereo che riportava Sanjurjo dal Portogallo in Spagna cadde, forse per il peso eccessivo del bagaglio. Il suo potenziale successore, Mola, repubblicano, sospettato a torto di affiliazione massonica, nel 1937 a sua volta morì in incidente aereo. Queipo era un sanguinario succubo del fascino femminile e dell'alcol, privo di fiuto politico. Rimase Franco, che pazientemente raccolse via via al suo seguito tutti i nemici della Repubblica di Madrid: i falangisti di José Antonio Primo de Rivera, figlio di Miguel, i requetés (monarchici “carlisti”) e un ventaglio di movimenti e personalità. Tutti vennero benedetti dall'alto clero spagnolo e da papa Pio XI, che condannò il nazionalsocialismo pagano di Hitler, il bolscevismo materialistico di Stalin e non aveva certo motivo di avversare chi, come Franco, in Spagna combatteva contro atei dichiarati e anticlericali fanatici. La guerra civile fu orrenda. Franco era vendicativo e crudele. Oltremare aveva utilizzato reparti speciali “di colore” contro i marocchini. Altrettanto fecero tutti gli eserciti coloniali dell'epoca. Mescolò motivazioni di varia genesi. Tra le sue vittime emblematiche rimane Federico García Lorca, che agli occhi dei conservatori rappresentava l'“Anti-Spagna”, anti-nazionale e più “scostumata” che libertina. Eppure da mezzo secolo in Spagna cresceva l'appello alla modernizzazione. Ne erano stati portavoce e interpreti letterati, storici e politici di alto profilo come Miguel Azaña (massone per un giorno), Alcalá Zamora, Alejandro Lerroux, Diego Martínez Barrio, più conservatori che rivoluzionari. Della vera Spagna furono interpreti Miguel de Unamuno e i tanti militari “di loggia” che passarono a fianco dei Quattro generali.


Non fu Franco a semplificare il conflitto e a ridurlo a lotta mortale tra le tenebre e la luce. In realtà, e lo documentano l'inglese Paul Preston, Juan Pablo Fusi e Fernando Cortázar, vi erano non due ma tre Spagne: la rivoluzionaria, la reazionaria e quella che aspirava a liberarsi dalla taccia di “Spagna invertebrata” e a farsi Europa, liberale, democratica, non senza influssi massonici come si legge in “L'integrazione europea e la penisola iberica” (a cura di Romain H. Rainero, ed. Marzorati). Era la Spagna che aveva alle spalle il filosofo e pedagogista tedesco Krause, l'“ideario spagnolo” di Angel Ganivet e Ortega y Gasset. 
La massoneria ebbe un ruolo specifico nel dramma? Ne hanno scritto storici di vaglia come Maria Dolores Gómez Molleda, José Antonio Ferrer Benimeli e Juan José Ruiz Morales, autore di “Palabras asesinas” e di poderosi  saggi sulla repressione di comunisti e massoni da parte di Franco. I fatti però dicono che molti “fratelli” di alto rango, militari, politici e “intellettuali”, si schierarono con il Caudillo. Franco era massonofago. Lo mostrò  negli articoli pubblicati tra il 1947 e il 1950, con lo pseudonimo di J. Boor (una contraffazione delle “lettere” incise  sulle colonne dei Templi: J. B.). Secondo Franco le logge erano al servizio degli stranieri, anzitutto i francesi, i sovietici e le brigate internazionali che portarono migliaia di volontari in Spagna a fianco della Repubblica. Per vincere davvero la Spagna, “faccia al sole e camicia nuova”, doveva eradicare l'altra, la rivoluzionaria, e  spazzare via la “terra di mezzo”. Lo fece con la benedizione del Pontificato. Pio XII scomunicò Juan Perón (caso unico di un capo di Stato cattolico nella storia moderna della Chiesa) e conferì l'Ordine del Cristo a Franco, suscitando l'indignazione di tanti fedeli, anche in Italia. Non solo per il papa, da quindici anni Franco era divenuto il simbolo della lotta contro il “comunismo”. Se questo fosse prevalso a Madrid, l'Europa centro-occidentale avrebbe visto cancellato forse per sempre illuminismo, liberismo, diritti dell'uomo. Per quanto paradossale, proprio in Spagna venne combattuta una battaglia decisiva, che vide anarchici, liberali e molti socialisti spazzati via non da Franco ma dai moscoviti ortodossi, come Palmiro Togliatti, Longo e Vidali.  

Verso la Spagna attuale: Opus dei e instaurazione della monarchia. 
Ma Franco non è né può essere ridotto solo al Caudillo della guerra civile. Ne hanno scritto Edgardo Sogno e Nino Isaia in “Due fronti” (ed. LibriLiberal) che meriterebbe di esser ripubblicato e meditato mentre divampano fatue chiacchiere sul ”fascismo”. Franco ebbe tre meriti indiscutibili, che si impongono anche a chi non ne apprezza la personalità, la sua “retranca”, astuzia del contadino gallego, uso nei secoli a celare i suoi propositi. In primo luogo tenne la Spagna al di fuori della Seconda guerra mondiale, malgrado le pressioni di Mussolini, che lo considerava ingrato nei confronti dell'aiuto datogli dall'Esercito italiano nella guerra civile con il Corpo Truppe Volontarie: il CTV che gli spagnoli traducevano in “Cuando ten vas?”. Dopo aver inutilmente tentato di circuirlo in un lungo esasperante colloquio a Endaya, Hitler disse che mai più lo avrebbe incontrato. Franco era sfuggente, indecifrabile. In realtà pensava alla sua terra. Ebbe la saggezza di lasciarvi approdare silenziosamente gli anglo-americani: un garanzia sulla vita non sua personale ma della Spagna Eterna. In secondo luogo favorì la modernizzazione propugnata dall'Opus Dei, che formò una classe dirigente di tecnocrati. Parlavano anche inglese ma pensavano in spagnolo. Al suo interno ripresero spazio antichi propositi del falangismo di José Antonio: una visione “popolare”, a correzione del ritorno in forze dell'aristocrazia arcaica. Infine il Caudillo ebbe chiaro che il suo potere personale era transitorio: doveva passare dalla “Jefatura del Estado” alla monarchia. Il cambio non poteva però ridursi a puro e semplice ritorno al passato. Di mezzo vi erano stati i molti enormi errori dei Borbone, la condotta di Juan, conte di Barcellona, da lui ritenuta poco lineare e infine la guerra civile. Per essere davvero punto di equilibrio e garanzia per il futuro la monarchia non andava “restaurata” ma “instaurata”. Anche Umberto II, in esilio, si adoperò per convincere don Juan a passare la mano al figlio, Juan Carlos, designato Re. Iniziò il processo che ebbe protagonisti Manuel Fraga Iribarne, Adolfo Suárez e altri uomini della “transizione”, coronata con la Costituzione del 1978 redatta da giuristi anche socialisti come Gregorio Peces Barba. 
Alla morte Franco poté ritenere aver ricostruito la Spagna “una, grande, libre”, membro delle Nazioni Unite dal 1955, lo stesso anno nel quale l'Italia vi venne ammessa.

Il Valle de los Caìdos, simbolo di pacificazione.

La salma del Caudillo non appartiene solo alla sua famiglia e alla Spagna. Essa rappresenta un capitolo della storia d'Europa. Non solo. L'immensa croce ritta sul colle sovrastante la cupa Basilica vuol essere un simbolo di pace eterna, un invito alla meditazione sulla storia universale. Quando pure le sue spoglie venissero rimosse, l'opera di Franco rimarrebbe consegnata alla storia: anzitutto di un'Europa che ha troppo a lungo ostacolato l'ingresso della Penisola Iberica nella Comunità Economica, accampando violazioni dei diritti dell'uomo, per ostacolarne, in realtà, le esportazioni e ritardarne la modernizzazione. Chi ha visitato la Spagna durante la dittatura o all'indomani della morte di Franco e la confronta con l'attuale conosce bene i passi da gigante compiuti dal Paese grazie alla dirigenza cresciuta negli anni del franchismo. Unì senso dello Stato e memoria del Passato. Il Passato che non deve passare. E' il futuro.
Anche Sánchez sa che i “monumenti” sono come la storia. Non si cancellano. Lo ha ricordato Francesco Rutelli contro certe manie dilaganti oltre Atlantico e anche in Italia, ove imperversa la smania di rimuovere, abbattere, obliare. Tuttavia conduce la sua lotta disperata per la estumulazione: vuole svellere la pietra angolare degli avversari, seminare la zizzania tra i suoi rivali, dividerli e sconfiggerli alle urne, per riportare la Spagna all'indietro, a fianco di Maduro, della Cuba perennemente castrista. Senza alcuna nostalgia personale del massonofago Caudillo (che finse di non sapere quante logge anglo-americane proliferassero nel suo Paese malgrado i divieti ufficiali), i quarant'anni del suo dominio hanno diritto a un giudizio storico pacato, libero dai precetti di “leggi sulla memoria” che sanno di censura ideologica e di fanatismo, contrario ma esattamente uguale al suo.


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