di Aldo A. Mola
Itinerarium mentis.... allo “storicismo
assoluto”.
Ricorrono settant'anni dalla morte di Benedetto
Croce (Pescasseroli, L'Aquila, 25 febbraio 1866-Napoli, 20 novembre 1952), il
maggior pensatore italiano del secolo scorso. La sua “iniziazione” alla vita fu
tragica. Il 25 luglio 1883 sopravvisse al terremoto di Casamicciola (Ischia) in
cui perse i genitori e la sorella Maria. Il cugino di suo padre, Silvio
Spaventa (patriota perseguitato e incarcerato dal re Borbone, deputato,
ministro, senatore dal 1889 e studioso
insigne di Hegel) ne assunse la tutela e lo prese con sé a Roma. Iscritto a
Giurisprudenza nel 1884 preferì seguire le lezioni di Antonio Labriola, unico
socialista italiano apprezzato da Friedrich Engels. Tornato nella sua Napoli
nel 1886, dopo approfonditi studi di economia e viaggi in Europa nel 1895
pubblicò Materialismo storico ed economia marxistica. Con impegno
immane nel 1900 intraprese la
pubblicazione della Filosofia dello Spirito, una concezione sistemica
nuova, fondata sulla “distinzione” tra vero, bello, buono e utile e risolta
nello storicismo assoluto, scevro da ogni “trascendenza”. Avversario del
positivismo e della riduzione dell'uomo a somma di “bisogni”, con la rivista
“La Critica” (fondata nel 1903) promosse il rinnovamento della vita culturale
italiana, in dialogo con molti prestigiosi pensatori europei.
Non temeva di andare contro corrente.
Rispettoso delle religioni ma estraneo ai loro culti, compreso il cattolico,
interrogato dall'“Idea nazionale” su che cosa pensasse della massoneria
(all'epoca ritenuta potente) rispose che “a cagione del suo cerimoniale e del
suo segreto” essa incontrava “a ogni istante il ridicolo e il sospetto”. Anni
prima l’aveva liquidata come “cultura ottima per commercianti, piccoli
professionisti, maestri elementari, avvocati, mediconzoli, perché cultura a
buon mercato; ma perciò stesso pessima per chi deve approfondire i problemi
dello spirito, della società, della realtà. Pessima non solo mentalmente, ma
anche moralmente”. Non spiegò, tuttavia, perché massoni fossero stati e fossero
anche Francesco De Sanctis, Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, tanti
illuministi da lui venerati, i protomartiri del Risorgimento italiano e i
promotori del pacifismo, allarmati dalla corsa dei maggiori Stati del mondo a
incrementare gli armamenti e dal dilagare di nazionalismo, razzismo,
antisemitismo e pulsioni anarco-sindacalistiche, massimalistiche e irrazionali,
da lui aborriti ma osservati con occhio talora divertito.
Quando
da quella polveriera scaturì la conflagrazione europea Croce fu tra quanti
sperarono che l'Italia non entrasse nella fornace ardente. Nominato senatore da
Vittorio Emanuele III (26 gennaio 1910) su proposta di Sidney Sonnino (che con
Antonio Salandra fu responsabile dell'intervento nella Grande Guerra), Croce
visse appartato dalla vita pubblica. Completò la sua opera filosofica nel 1917
con Teoria e storia della storiografia. Fu tra i pochi grandi pensatori
europei che non bruciarono incensi all'“interventismo intervenuto”. Saggiò la
solitudine.
La
guerra, col seguito di rivoluzioni, crollo di Stati secolari, dispendio di vite
e di risorse, oscuramento morale, degrado civile, abbrutimento e squilibrio
psicologico delle masse, gli si rivelò in tutta la sua negatività. Uso a
valorizzare gli aspetti positivi di ogni fase storica del passato prossimo e
remoto, sospese il giudizio su quel presente. Pur confidando nel riscatto della
coscienza europea dopo i traumi della catastrofe bellica, deluso dai trattati
di pace punitivi imposti dai vincitori al Congresso di Versailles fu
preoccupato dalle nuove pulsioni destabilizzanti, come l'impresa di d'Annunzio
a Fiume e la dissennata condotta del partito socialista italiano.
Al governo con Giolitti (1920-1921)
Nel
giugno 1920, quando aveva ormai conquistato meritata fama universale di “uomo
di pensiero”, la sua vita ebbe la svolta. Incaricato dal re di formare per la
quinta volta il governo, il settantottenne Giovanni Giolitti (1842-1928) lo volle
ministro della Pubblica istruzione. Sollecitato dall'amico Olindo Malagodi,
direttore giolittiano di “La Tribuna”, di recarsi subito a Roma per assumere il
portafoglio, come annotò poi nel 1944 a Sorrento, Croce visse “un'ora di
turbamento e smarrimento, pensando al carico che si sarebbe rovesciato sulle
sue spalle e alla sua nessuna esperienza della burocrazia di quel ministero e
della Camera dei deputati”. Inoltre non si era mai occupato di pedagogia, né di
problemi scolastici, didattici ed educativi, pur così fervidi in Italia tra
Otto e Novecento, anche per opera di pedagogiste come Maria Montessori. Fu sua
moglie, Adele Rossi, a confortarlo: “Se questo è il dovere a cui sei chiamato,
devi accettarlo”. Glielo ripeté l'indomani Giolitti: “L'Italia è in tale
travaglio che tutti dobbiamo sforzarci (e non so se riusciremo) a salvarla”.
Poiché bisognava andare in giornata a prestare giuramento, Croce gli confidò di
non avere con sé un abito nero. Lo statista piemontese gli rispose che “il re
non badava a cotesti formalismi di etichetta”.
Vittorio
Emanuele III era al timone dell'Italia da quando il 29 luglio 1900 suo padre
Umberto I era stato assassinato a Monza dall'anarchico Gaetano Bresci, che
certo non aveva fatto tutto da solo, come sapeva proprio Giolitti, che a lungo
fece indagare la vendicativa Maria Sofia di Borbone, ex regina delle Due
Sicilie. Chi credeva nell'unità nazionale quale valore supremo doveva fare la
sua parte, “per il re e per la patria”.
Croce si mise dunque all'opera. Nel programma
del governo – come poi sintetizzò – “al dicastero dell'istruzione era assegnato
il compito di introdurre nelle scuole l'esame di Stato”. Serviva a valutare non
solo gli studenti ma anche gli insegnanti. Le loro cattedre andavano rimesse a
concorso ogni dieci anni, per costringerli ad aggiornarsi. Lasciate ai margini
le dispute sull'insegnamento della religione nella scuola (venne poi introdotta
da Giovanni Gentile, ministro nel governo Mussolini), Croce lavorò di bulino e
di cesello per migliorare l'esistente perché non v'erano mezzi per varare
chissà quali riforme e perché i suoi progetti dovevano passare al vaglio
preventivo della Commissione parlamentare, affollata da “maestrucoli elementari
socialisti” (come egli scrisse) e da deputati che lo inondavano di
“sollecitazioni” a favore dei propri elettori. Tra i tanti, uno esclamò ad alta
voce: “Egli non risponde alle nostre lettere, e noi bocceremo i suoi disegni di
legge”. Tra i suoi avversari più polemici Croce ricordò Giacomo Matteotti, che
lo accusò di pensare “a Hegel, alla dialettica, al cielo metafisico” mentre in
un'aula scolastica della sua plaga erano stipati settanta alunni (però non
seppe precisare né il nome della scuola né quello del comune).
Anche
in Senato il ministro ebbe vita dura perché promuoveva economie, si opponeva a
spese inutili e rifuggiva dalla retorica, come, per esempio, impartire
educazione “patriottica”, che non è “catechismo” imparaticcio ma tutt'uno con
il senso del dovere del cittadino. Vedendolo all'opera, Giolitti osservò: “Ma
questo filosofo ha molto buon senso!”. Fu ricambiato da Croce che così ne
sintetizzò il programma liberale: “Spontaneamente parteggiava sempre per le
classi umili, indistintamente, fossero anche i parroci di campagna; e non ho
colto sulle sue labbra altra antitesi che quella di ricchi e poveri; e il suo
appoggiare costantemente i poveri contro i ricchi. Gli speculatori e i
profittatori di guerra detestava con sincera rivolta morale, e in Senato,
rispondendo a un fiorito discorso di opposizione di uno di costoro, che più
aveva dato scandalo con un lusso smodato, accennò con disprezzo a quelli che la
voce pubblica ha denominato pescecani e le loro femmine”.
Dura
era la sua vita quotidiana anche al Ministero, all'epoca allogato all'ex
convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, due passi dal Pantheon. Il
personale riluttava a prestare servizio anche nel pomeriggio e, per polemica,
non si levava il cappello quando lo incrociava, tanto che Croce ne licenziò uno
in tronco “per educarne cento”. Non per sé, ma per la dignità dell'Istituzione
e quindi dell'Italia e del personale stesso, che doveva esser compreso della
sua missione e del suo privilegio di pubblico dipendente, con tutti i vantaggi
che ne conseguivano in anni di grandi difficoltà per tutti.
Come
ha ricordato Nicola Matteucci nel profilo di Croce pubblicato nel volume IX di Il
Parlamento Italiano, 1861-1992 (ed. Nuova Cei), prima della guerra il
filosofo “non amò l'età giolittiana, ritenendola priva di valori e di ideali”.
Chiamato al ministero della Pubblica istruzione comprese e condivise appieno i
propositi del presidente del Consiglio: elevare l'obbligo scolastico dagli
undici ai quattordici anni e promuovere l'istruzione tecnica per raccordare la
formazione scolastica professionale con la dinamica economica postbellica.
I suoi
trentasei discorsi parlamentari, pubblicati a cura di Emilia Campochiaro e
saggio introduttivo di Michele Maggi (il Mulino, 2002), illuminano l'impegno
del filosofo chiamato a servire lo Stato. Il 17 marzo 1921 Croce si dichiarò
convinto che gli insegnanti italiani avevano “chiara coscienza della loro
dignità” e si sarebbero opposti agli appelli a scioperare lanciati da singoli
individui o da particolari gruppi. Se mai fosse accaduto, il ministero avrebbe
assunto i necessari provvedimenti, in linea con la ventennale politica di
Giolitti: libertà degli scioperi “economici”, ma non nei pubblici servizi e
nelle “aziende di Stato”, quali ferrovie, poste e telegrafi. Era l'Italia che
varò la legge sulla cittadinanza e l'obbligo dell'istruzione, indispensabile
corollario del diritto di voto, che deve essere “bene informato”.
In
difesa dalla dignità dell'Italia
Nella Storia d'Italia dal 1871 al 1915,
conclusa nel novembre 1927 e pubblicata l'anno seguente dal “suo” editore e
amico Giuseppe Laterza (in tempo per farla leggere dall'ottantaseienne Giolitti
ormai volgente al trapasso), Croce ritrasse vividamente il cammino compiuto
dalla Patria in meno di mezzo secolo di unità politica all'insegna della
libertà, grazie a una classe dirigente nel suo insieme animata da alto senso
dello Stato. Non era affatto l'“Italietta” poi irrisa dal fascismo.
All'opposto, essa promosse l'incivilimento e avviò l'integrazione tra le
diverse aree del Paese: un programma che poteva proseguire nel tempo solo
contenendo le spese militari. Non per caso, come Giolitti fece notare, a
chiedere guerra erano “ragazzini in pantaloni corti” e repubblicani.
Di
quell'Italia Croce difese l'opera in discorsi memorabili. Almeno tre meritano
di essere rievocati. Anzitutto quello del 20 novembre 1925. Anche a nome di
alcuni colleghi annunciò la sua astensione (che valeva voto contrario) sul
progetto di legge sulla “Regolarizzazione delle Attività delle Associazioni,
Enti ed Istituti”, meglio noto come “legge contro la massoneria”. Lo bocciò
perché era “parte integrante di un unico tutto di leggi antiliberali”. Pur
senza rinnegare le sue posizioni pregresse, sentì “l'alto dovere di non venir
meno alla propria coscienza, che avverte che il presente non è qual era il
passato”, come già aveva ampiamente chiarito nella risposta al “Manifesto degli
intellettuali fascisti” (nota erroneamente come “Manifesto degli intellettuali
antifascisti”: “intellettuali”, infatti, era vocabolo per lui urticante, come
già per Carducci). Il secondo fu il suo netto “no” all'approvazione del
Trattato e del Concordato tra la Santa Sede e l'Italia” (24 maggio 1929). Lo
concluse con la frase famosa: “Accanto o di fronte agli uomini che stimano
Parigi valer bene una messa, sono altri pei quali l'ascoltare o no una messa è
cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza. Guai
alla società, alla storia umana, se uomini che così diversamente sentono, le
fossero mancati o le mancassero”. Fu il suo ultimo discorso in Senato. Era
sempre più solo. Lo era ancor di più il Re, privo di interlocutori nelle Aule
parlamentari e nelle “accademie”.
Nominato
membro della Consulta Nazionale, il 27 settembre 1945 Crice respinse
l'affermazione di Ferruccio Parri, del presidente del Consiglio, secondo il quale non potevano essere definiti
democratici i governi prefascisti. Dichiarò “la coscienza vivissima del debito
che tutta l'Italia presente ha verso quel passato”. Del pari mostrò
apprezzamento di storico e di cittadino verso monarchia di Savoia che aveva
condotto l'Italia a indipendenza, unità e libertà e per la cui conservazione,
come Luigi Einaudi, si pronunciò nel referendum istituzionale del 2-3 giugno
1946. La sua ventilata elezione a presidente provvisorio della neonata Repubblica
ebbe il veto della Santa Sede. Prevalse il trinomio De Nicola-De
Gasperi-Togliatti, suggellato dall'inclusione dei Patti Lateranensi
nell'articolo 7 della Costituzione.
Angosciato
dalle prospettive aperte dal secondo conflitto mondiale e dal lancio delle due
bombe atomiche sul Giappone (che per lui non fu un “fatto d'armi” ma un
lancinante interrogativo morale sul confine tra scienza e destini dell'umanità)
il 24 luglio 1947 votò contro l'approvazione del Trattato di pace imposto
all'Italia il 10 febbraio 1947, con un un discorso che fu anche testamento di
“figlio dell'Italia che non muore”. “Noi siamo stati vinti, ma noi siamo pari,
nel sentire e nel volere, a qualsiasi più intransigente popolo della terra”.
Nel
70° della sua morte Benedetto Croce non va “rievocato” con un francobollo e
qualche discorsetto di circostanza. Va riletto, studiato e compreso nella sua
complessità. Insegnò che la “alta politica” è radicata nella “alta cultura” e
che quanti la coltivano non devono aver paura della solitudine come non l'hanno
della morte.
Aldo A. Mola
BOX
CONTRO LA RATIFICA DEL TRATTATO DI PACE
DEL 10 FEBBRAIO 1947
Dal 23 al 31 luglio 1947 l'Assemblea
Costituente discusse il disegno di legge recante “Approvazione del Trattato di
pace fra le potenze Alleate ed Associate e l'Italia firmato a Parigi il 10
febbraio 1947”. Il presidente del Consiglio dei ministri, Alcide De Gasperi, e
il ministro degli Esteri, Carlo Sforza, ne propugnarono l'approvazione di
concerto con i deputati dei partiti al governo: democristiani,
socialdemocratici, repubblicani e liberali. I più autorevoli esponenti del
pre-fascismo (Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti, Meuccio
Ruini...) pur con riserve votarono a favore. Votò a favore anche Einaudi,
secondo il quale la pace, per quanto amara, apriva la strada alla federazione
europea, da lui auspicata sin dalla Grande Guerra. I comunisti uscirono
dall'Aula senza votare. Il Trattato fu approvato da una minoranza: 262
“si”contro 68 “no” e 80 astenuti (i socialisti) su 555 “costituenti”.
Il
discorso pronunciato nell’occasione da Benedetto Croce merita di essere letto
per intero. Qui ne riproduciamo alcuni brevi passaggi:
“Io non pensavo che la sorte mi avrebbe, negli
ultimi miei anni, riserbato un così trafiggente dolore come questo che provo
nel vedermi dinanzi il documento che siamo chiamati ad esaminare. [...] Noi
italiani abbiamo perduto una guerra, e l'abbiamo perduta tutti, anche coloro
che l'hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati
perseguitati dal regime. [...] Il documento che ci viene presentato non è solo
la notificazione di quanto il vincitore, nella sua discrezione o indiscrezione,
chiede e prende da noi, ma un giudizio morale e giuridico sull'Italia, e la
pronunzia di un castigo che essa deve espiare per redimersi e innalzarsi e
tornare a quella sfera superiore in cui, a quanto sembra, si trovano con gli
altri popoli, anche quelli del Continente nero. E qui mi duole di dover
rammentare cosa troppo ovvia, cioè che la guerra è legge eterna del mondo.
[...] Un'infrazione della morale qui indubbiamente accade, ma non dalla parte
dei vinti, sì piuttosto dei vincitori, non dei giudicati ma degli illegittimi
giudici. [...] Noi italiani, che non possiamo accettare questo documento,
perché contrario alla verità, e direi alla nostra più alta coscienza, non
possiamo accettarlo né come italiani curanti dell'onore della Patria né come
europei, due sentimenti che confluiscono in uno perché l'Italia è tra i popoli
che più hanno contribuito a formare la civiltà europea e per oltre un secolo ha
combattuto per la libertà e l'indipendenza sua. [...] Non vi dirò che coloro che questi tempi
chiameranno antichi, le generazioni future dell'Italia che non muore, i nipoti
e pronipoti ci terranno responsabili e rimprovereranno la nostra di aver
lasciato vituperare, avvilire e inginocchiare la nostra comune Madre a ricevere
mestamente un iniquo castigo. [...] Occorre un atto di volontà, un esplicito
No.”
Quella di Benedetto Croce, applaudita in Aula,
bocciata al voto e infine dimenticata, suonò quale “vox clamantis in deserto”.
FINE BOX
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