NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 12 gennaio 2022

BENEDETTO CROCE LA SOLITUDINE DELLA CULTURA


di Aldo A. Mola

 

Itinerarium mentis.... allo “storicismo assoluto”.

 

Ricorrono settant'anni dalla morte di Benedetto Croce (Pescasseroli, L'Aquila, 25 febbraio 1866-Napoli, 20 novembre 1952), il maggior pensatore italiano del secolo scorso. La sua “iniziazione” alla vita fu tragica. Il 25 luglio 1883 sopravvisse al terremoto di Casamicciola (Ischia) in cui perse i genitori e la sorella Maria. Il cugino di suo padre, Silvio Spaventa (patriota perseguitato e incarcerato dal re Borbone, deputato, ministro, senatore  dal 1889 e studioso insigne di Hegel) ne assunse la tutela e lo prese con sé a Roma. Iscritto a Giurisprudenza nel 1884 preferì seguire le lezioni di Antonio Labriola, unico socialista italiano apprezzato da Friedrich Engels. Tornato nella sua Napoli nel 1886, dopo approfonditi studi di economia e viaggi in Europa nel 1895 pubblicò Materialismo storico ed economia marxistica. Con impegno immane nel 1900 intraprese  la pubblicazione della Filosofia dello Spirito, una concezione sistemica nuova, fondata sulla “distinzione” tra vero, bello, buono e utile e risolta nello storicismo assoluto, scevro da ogni “trascendenza”. Avversario del positivismo e della riduzione dell'uomo a somma di “bisogni”, con la rivista “La Critica” (fondata nel 1903) promosse il rinnovamento della vita culturale italiana, in dialogo con molti prestigiosi pensatori europei.

Non temeva di andare contro corrente. Rispettoso delle religioni ma estraneo ai loro culti, compreso il cattolico, interrogato dall'“Idea nazionale” su che cosa pensasse della massoneria (all'epoca ritenuta potente) rispose che “a cagione del suo cerimoniale e del suo segreto” essa incontrava “a ogni istante il ridicolo e il sospetto”. Anni prima l’aveva liquidata come “cultura ottima per commercianti, piccoli professionisti, maestri elementari, avvocati, mediconzoli, perché cultura a buon mercato; ma perciò stesso pessima per chi deve approfondire i problemi dello spirito, della società, della realtà. Pessima non solo mentalmente, ma anche moralmente”. Non spiegò, tuttavia, perché massoni fossero stati e fossero anche Francesco De Sanctis, Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, tanti illuministi da lui venerati, i protomartiri del Risorgimento italiano e i promotori del pacifismo, allarmati dalla corsa dei maggiori Stati del mondo a incrementare gli armamenti e dal dilagare di nazionalismo, razzismo, antisemitismo e pulsioni anarco-sindacalistiche, massimalistiche e irrazionali, da lui aborriti ma osservati con occhio talora divertito.

 

   Quando da quella polveriera scaturì la conflagrazione europea Croce fu tra quanti sperarono che l'Italia non entrasse nella fornace ardente. Nominato senatore da Vittorio Emanuele III (26 gennaio 1910) su proposta di Sidney Sonnino (che con Antonio Salandra fu responsabile dell'intervento nella Grande Guerra), Croce visse appartato dalla vita pubblica. Completò la sua opera filosofica nel 1917 con Teoria e storia della storiografia. Fu tra i pochi grandi pensatori europei che non bruciarono incensi all'“interventismo intervenuto”. Saggiò la solitudine.

   La guerra, col seguito di rivoluzioni, crollo di Stati secolari, dispendio di vite e di risorse, oscuramento morale, degrado civile, abbrutimento e squilibrio psicologico delle masse, gli si rivelò in tutta la sua negatività. Uso a valorizzare gli aspetti positivi di ogni fase storica del passato prossimo e remoto, sospese il giudizio su quel presente. Pur confidando nel riscatto della coscienza europea dopo i traumi della catastrofe bellica, deluso dai trattati di pace punitivi imposti dai vincitori al Congresso di Versailles fu preoccupato dalle nuove pulsioni destabilizzanti, come l'impresa di d'Annunzio a Fiume e la dissennata condotta del partito socialista italiano.

Al governo con Giolitti (1920-1921)

   Nel giugno 1920, quando aveva ormai conquistato meritata fama universale di “uomo di pensiero”, la sua vita ebbe la svolta. Incaricato dal re di formare per la quinta volta il governo, il settantottenne Giovanni Giolitti (1842-1928) lo volle ministro della Pubblica istruzione. Sollecitato dall'amico Olindo Malagodi, direttore giolittiano di “La Tribuna”, di recarsi subito a Roma per assumere il portafoglio, come annotò poi nel 1944 a Sorrento, Croce visse “un'ora di turbamento e smarrimento, pensando al carico che si sarebbe rovesciato sulle sue spalle e alla sua nessuna esperienza della burocrazia di quel ministero e della Camera dei deputati”. Inoltre non si era mai occupato di pedagogia, né di problemi scolastici, didattici ed educativi, pur così fervidi in Italia tra Otto e Novecento, anche per opera di pedagogiste come Maria Montessori. Fu sua moglie, Adele Rossi, a confortarlo: “Se questo è il dovere a cui sei chiamato, devi accettarlo”. Glielo ripeté l'indomani Giolitti: “L'Italia è in tale travaglio che tutti dobbiamo sforzarci (e non so se riusciremo) a salvarla”. Poiché bisognava andare in giornata a prestare giuramento, Croce gli confidò di non avere con sé un abito nero. Lo statista piemontese gli rispose che “il re non badava a cotesti formalismi di etichetta”.

   Vittorio Emanuele III era al timone dell'Italia da quando il 29 luglio 1900 suo padre Umberto I era stato assassinato a Monza dall'anarchico Gaetano Bresci, che certo non aveva fatto tutto da solo, come sapeva proprio Giolitti, che a lungo fece indagare la vendicativa Maria Sofia di Borbone, ex regina delle Due Sicilie. Chi credeva nell'unità nazionale quale valore supremo doveva fare la sua parte, “per il re e per la patria”.

Croce si mise dunque all'opera. Nel programma del governo – come poi sintetizzò – “al dicastero dell'istruzione era assegnato il compito di introdurre nelle scuole l'esame di Stato”. Serviva a valutare non solo gli studenti ma anche gli insegnanti. Le loro cattedre andavano rimesse a concorso ogni dieci anni, per costringerli ad aggiornarsi. Lasciate ai margini le dispute sull'insegnamento della religione nella scuola (venne poi introdotta da Giovanni Gentile, ministro nel governo Mussolini), Croce lavorò di bulino e di cesello per migliorare l'esistente perché non v'erano mezzi per varare chissà quali riforme e perché i suoi progetti dovevano passare al vaglio preventivo della Commissione parlamentare, affollata da “maestrucoli elementari socialisti” (come egli scrisse) e da deputati che lo inondavano di “sollecitazioni” a favore dei propri elettori. Tra i tanti, uno esclamò ad alta voce: “Egli non risponde alle nostre lettere, e noi bocceremo i suoi disegni di legge”. Tra i suoi avversari più polemici Croce ricordò Giacomo Matteotti, che lo accusò di pensare “a Hegel, alla dialettica, al cielo metafisico” mentre in un'aula scolastica della sua plaga erano stipati settanta alunni (però non seppe precisare né il nome della scuola né quello del comune).

  Anche in Senato il ministro ebbe vita dura perché promuoveva economie, si opponeva a spese inutili e rifuggiva dalla retorica, come, per esempio, impartire educazione “patriottica”, che non è “catechismo” imparaticcio ma tutt'uno con il senso del dovere del cittadino. Vedendolo all'opera, Giolitti osservò: “Ma questo filosofo ha molto buon senso!”. Fu ricambiato da Croce che così ne sintetizzò il programma liberale: “Spontaneamente parteggiava sempre per le classi umili, indistintamente, fossero anche i parroci di campagna; e non ho colto sulle sue labbra altra antitesi che quella di ricchi e poveri; e il suo appoggiare costantemente i poveri contro i ricchi. Gli speculatori e i profittatori di guerra detestava con sincera rivolta morale, e in Senato, rispondendo a un fiorito discorso di opposizione di uno di costoro, che più aveva dato scandalo con un lusso smodato, accennò con disprezzo a quelli che la voce pubblica ha denominato pescecani e le loro femmine”.

  Dura era la sua vita quotidiana anche al Ministero, all'epoca allogato all'ex convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, due passi dal Pantheon. Il personale riluttava a prestare servizio anche nel pomeriggio e, per polemica, non si levava il cappello quando lo incrociava, tanto che Croce ne licenziò uno in tronco “per educarne cento”. Non per sé, ma per la dignità dell'Istituzione e quindi dell'Italia e del personale stesso, che doveva esser compreso della sua missione e del suo privilegio di pubblico dipendente, con tutti i vantaggi che ne conseguivano in anni di grandi difficoltà per tutti.

   Come ha ricordato Nicola Matteucci nel profilo di Croce pubblicato nel volume IX di Il Parlamento Italiano, 1861-1992 (ed. Nuova Cei), prima della guerra il filosofo “non amò l'età giolittiana, ritenendola priva di valori e di ideali”. Chiamato al ministero della Pubblica istruzione comprese e condivise appieno i propositi del presidente del Consiglio: elevare l'obbligo scolastico dagli undici ai quattordici anni e promuovere l'istruzione tecnica per raccordare la formazione scolastica professionale con la dinamica economica postbellica.

   I suoi trentasei discorsi parlamentari, pubblicati a cura di Emilia Campochiaro e saggio introduttivo di Michele Maggi (il Mulino, 2002), illuminano l'impegno del filosofo chiamato a servire lo Stato. Il 17 marzo 1921 Croce si dichiarò convinto che gli insegnanti italiani avevano “chiara coscienza della loro dignità” e si sarebbero opposti agli appelli a scioperare lanciati da singoli individui o da particolari gruppi. Se mai fosse accaduto, il ministero avrebbe assunto i necessari provvedimenti, in linea con la ventennale politica di Giolitti: libertà degli scioperi “economici”, ma non nei pubblici servizi e nelle “aziende di Stato”, quali ferrovie, poste e telegrafi. Era l'Italia che varò la legge sulla cittadinanza e l'obbligo dell'istruzione, indispensabile corollario del diritto di voto, che deve essere “bene informato”.

In difesa dalla dignità dell'Italia

Nella Storia d'Italia dal 1871 al 1915, conclusa nel novembre 1927 e pubblicata l'anno seguente dal “suo” editore e amico Giuseppe Laterza (in tempo per farla leggere dall'ottantaseienne Giolitti ormai volgente al trapasso), Croce ritrasse vividamente il cammino compiuto dalla Patria in meno di mezzo secolo di unità politica all'insegna della libertà, grazie a una classe dirigente nel suo insieme animata da alto senso dello Stato. Non era affatto l'“Italietta” poi irrisa dal fascismo. All'opposto, essa promosse l'incivilimento e avviò l'integrazione tra le diverse aree del Paese: un programma che poteva proseguire nel tempo solo contenendo le spese militari. Non per caso, come Giolitti fece notare, a chiedere guerra erano “ragazzini in pantaloni corti” e repubblicani.

  Di quell'Italia Croce difese l'opera in discorsi memorabili. Almeno tre meritano di essere rievocati. Anzitutto quello del 20 novembre 1925. Anche a nome di alcuni colleghi annunciò la sua astensione (che valeva voto contrario) sul progetto di legge sulla “Regolarizzazione delle Attività delle Associazioni, Enti ed Istituti”, meglio noto come “legge contro la massoneria”. Lo bocciò perché era “parte integrante di un unico tutto di leggi antiliberali”. Pur senza rinnegare le sue posizioni pregresse, sentì “l'alto dovere di non venir meno alla propria coscienza, che avverte che il presente non è qual era il passato”, come già aveva ampiamente chiarito nella risposta al “Manifesto degli intellettuali fascisti” (nota erroneamente come “Manifesto degli intellettuali antifascisti”: “intellettuali”, infatti, era vocabolo per lui urticante, come già per Carducci). Il secondo fu il suo netto “no” all'approvazione del Trattato e del Concordato tra la Santa Sede e l'Italia” (24 maggio 1929). Lo concluse con la frase famosa: “Accanto o di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri pei quali l'ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza. Guai alla società, alla storia umana, se uomini che così diversamente sentono, le fossero mancati o le mancassero”. Fu il suo ultimo discorso in Senato. Era sempre più solo. Lo era ancor di più il Re, privo di interlocutori nelle Aule parlamentari e nelle “accademie”.

  Nominato membro della Consulta Nazionale, il 27 settembre 1945 Crice respinse l'affermazione di Ferruccio Parri, del presidente del Consiglio,  secondo il quale non potevano essere definiti democratici i governi prefascisti. Dichiarò “la coscienza vivissima del debito che tutta l'Italia presente ha verso quel passato”. Del pari mostrò apprezzamento di storico e di cittadino verso monarchia di Savoia che aveva condotto l'Italia a indipendenza, unità e libertà e per la cui conservazione, come Luigi Einaudi, si pronunciò nel referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946. La sua ventilata elezione a presidente provvisorio della neonata Repubblica ebbe il veto della Santa Sede. Prevalse il trinomio De Nicola-De Gasperi-Togliatti, suggellato dall'inclusione dei Patti Lateranensi nell'articolo 7 della Costituzione.

  Angosciato dalle prospettive aperte dal secondo conflitto mondiale e dal lancio delle due bombe atomiche sul Giappone (che per lui non fu un “fatto d'armi” ma un lancinante interrogativo morale sul confine tra scienza e destini dell'umanità) il 24 luglio 1947 votò contro l'approvazione del Trattato di pace imposto all'Italia il 10 febbraio 1947, con un un discorso che fu anche testamento di “figlio dell'Italia che non muore”. “Noi siamo stati vinti, ma noi siamo pari, nel sentire e nel volere, a qualsiasi più intransigente popolo della terra”.

   Nel 70° della sua morte Benedetto Croce non va “rievocato” con un francobollo e qualche discorsetto di circostanza. Va riletto, studiato e compreso nella sua complessità. Insegnò che la “alta politica” è radicata nella “alta cultura” e che quanti la coltivano non devono aver paura della solitudine come non l'hanno della morte.

 

Aldo A. Mola

 

 

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CONTRO LA RATIFICA DEL TRATTATO DI PACE

DEL 10 FEBBRAIO 1947

 

Dal 23 al 31 luglio 1947 l'Assemblea Costituente discusse il disegno di legge recante “Approvazione del Trattato di pace fra le potenze Alleate ed Associate e l'Italia firmato a Parigi il 10 febbraio 1947”. Il presidente del Consiglio dei ministri, Alcide De Gasperi, e il ministro degli Esteri, Carlo Sforza, ne propugnarono l'approvazione di concerto con i deputati dei partiti al governo: democristiani, socialdemocratici, repubblicani e liberali. I più autorevoli esponenti del pre-fascismo (Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti, Meuccio Ruini...) pur con riserve votarono a favore. Votò a favore anche Einaudi, secondo il quale la pace, per quanto amara, apriva la strada alla federazione europea, da lui auspicata sin dalla Grande Guerra. I comunisti uscirono dall'Aula senza votare. Il Trattato fu approvato da una minoranza: 262 “si”contro 68 “no” e 80 astenuti (i socialisti) su 555 “costituenti”.

 

  Il discorso pronunciato nell’occasione da Benedetto Croce merita di essere letto per intero. Qui ne riproduciamo alcuni brevi passaggi:

“Io non pensavo che la sorte mi avrebbe, negli ultimi miei anni, riserbato un così trafiggente dolore come questo che provo nel vedermi dinanzi il documento che siamo chiamati ad esaminare. [...] Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l'abbiamo perduta tutti, anche coloro che l'hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime. [...] Il documento che ci viene presentato non è solo la notificazione di quanto il vincitore, nella sua discrezione o indiscrezione, chiede e prende da noi, ma un giudizio morale e giuridico sull'Italia, e la pronunzia di un castigo che essa deve espiare per redimersi e innalzarsi e tornare a quella sfera superiore in cui, a quanto sembra, si trovano con gli altri popoli, anche quelli del Continente nero. E qui mi duole di dover rammentare cosa troppo ovvia, cioè che la guerra è legge eterna del mondo. [...] Un'infrazione della morale qui indubbiamente accade, ma non dalla parte dei vinti, sì piuttosto dei vincitori, non dei giudicati ma degli illegittimi giudici. [...] Noi italiani, che non possiamo accettare questo documento, perché contrario alla verità, e direi alla nostra più alta coscienza, non possiamo accettarlo né come italiani curanti dell'onore della Patria né come europei, due sentimenti che confluiscono in uno perché l'Italia è tra i popoli che più hanno contribuito a formare la civiltà europea e per oltre un secolo ha combattuto per la libertà e l'indipendenza sua. [...]  Non vi dirò che coloro che questi tempi chiameranno antichi, le generazioni future dell'Italia che non muore, i nipoti e pronipoti ci terranno responsabili e rimprovereranno la nostra di aver lasciato vituperare, avvilire e inginocchiare la nostra comune Madre a ricevere mestamente un iniquo castigo. [...] Occorre un atto di volontà, un esplicito No.”

 

Quella di Benedetto Croce, applaudita in Aula, bocciata al voto e infine dimenticata, suonò quale “vox clamantis in deserto”.

 

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