di Aldo A. Mola
La voce del Milite Ignoto
“Vox clamantis in deserto...”. È la Voce del Milite Ignoto, sintesi ed emblema dell'unità degli italiani, del sacrificio sopportato dalle “popolazioni” lungo quarantun mesi di una guerra originariamente voluta da un'esigua minoranza e divenuta nazionale quando il 24 ottobre 1917 gli austro-germanici sfondarono il fronte a Caporetto e dilagarono sino a Udine. Nell'ora più difficile, quando molti dubitarono, la stragrande maggioranza voltò le spalle alle sirene dei disfattisti. In pochi giorni il Paese rispose. Compatto. Il 14 novembre alla Camera dei deputati intervennero gli ex presidenti del Consiglio, a cominciare da Giolitti. Ingiustamente sospettato di umori “neutralisti”, lo statista fu lapidario: guidati dal Re gli italiani avrebbero combattuto fino alla vittoria. Filippo Turati dichiarò che anche per i socialisti “la Patria” era sul Piave. Cancellò il monito del suo compagno di partito che mesi priva aveva ammonito: “Non un altro inverno in trincea.”
L'Italia intera divenne retroterra della
trincea. Il nemico non avrebbe portato né pace né giustizia né libertà.
Avanzava facendo terra bruciata. La documentazione delle infamie perpetrate ai
danni della popolazione civile sono agghiaccianti. Così imbarazzanti che se ne
è parlato pochissimo nel centenario della Grande Guerra, improntato da una vena
di oblio che non aiuta affatto a capire la storia. Vittorio Emanuele III raccolse
documentazione fotografica pubblicata su concessione della Principessa Maria
Gabriella di Savoia in “Il Parlamento italiano”, edito sotto l'alto patronato
del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, cattolico liberale fedele al
Risorgimento.
Resistere, resistere, resistere
La riscossa costò risorse e vite umane. Al di
là di circoscritti cedimenti per viltà, deplorati nel “Bollettino” del 28
ottobre, di circa 300.000 militari caduti prigionieri, 400.000 sbandati e
l'abbandono forzato di copioso materiale bellico, la ritirata dall'Isonzo al
Piave fu attuata secondo piani da tempo predisposti dal Comandante Supremo,
Luigi Cadorna. La difesa, imperniata sul Monte Grappa (“Tu sei la mia
Patria...” fu tra i canti di guerra più popolari), debitamente fortificato sino
a risultare un’imprendibile Rocca di Gibilterra affacciata in posizione
strategica sulla pianura, resse grazie al sacrificio consapevole di singoli
reparti e di intere brigate (tra le altre spiccò la “Bologna” : ne ha scritto
Carlo Felice Prencipe, ed. Mursia), che accettarono di battersi sino all'ultimo
uomo. La parola d'ordine era “Resistere, resistere, resistere”. L'Italia ce la
fece. Le bocche da fuoco perdute durante l'arretramento del fronte dall'Isonzo
al Piave, in massima parte vetuste, furono sostituite con cannoni e
mitragliatrici efficienti. L'aviazione, nata come “cavalleria volante”, con
incursioni nel territorio occupato dal nemico e inseguimento in caso di
successo, compì un balzo prima inimmaginabile, anche grazie alla dedizione di
campioni quale Francesco Baracca. Ma l'industria bellica si era messa all'opera
con larghissimo anticipo rispetto alla “politica” e a spese proprie, quando sin
dal 1913 il groviglio delle “guerre balcaniche” fece percepire che il conflitto
generale era sull'orizzonte e non si sarebbe chiuso con un paio di battaglie, a
differenza di quanto era accaduto nel 1866 e nel 1870-1871. Tra i migliori
“tecnici” la Ansaldo di Genova annoverò Federico Giolitti, figlio dello
statista, uno scienziato da premio Nobel. Lo scontro non era tra “eserciti” ma
tra interi popoli, forti delle loro risorse interne e di quelle degli imperi
coloniali. L'Italia aveva poche colonie, tutte povere di materie prime (del
petrolio libico in Italia nessuno sapeva nulla) e dipendenti dagli aiuti di
Roma, senza contropartite positive. Come spiegò Cadorna, l'Italia avrebbe
“riconquistato la Libia sul Carso”. Ai più avveduti era chiaro che cosa sarebbe
accaduto in caso di una seconda battaglia perduta: gli Austriaci a Milano e i
francesi sul Ticino, come ai tempi delle guerre tra Carlo V d'Asburgo e
Francesco I di Francia. La lotta per la salvezza contò sullo sforzo gigantesco
della macchina produttiva, sul “fronte interno”, sui prestiti nazionali e
sull'indebitamento galoppante: il debito pubblico schizzò da 13 miliardi
(contratti dal 1861 al 1913) a oltre 90 miliardi. In quelle condizioni, vincere
sul campo era indispensabile ma non sarebbe bastato ad assicurare la piena e
durevole sovranità, che è una variabile dell'indipendenza economica e
finanziaria.
Altrettanto determinante fu l'impegno bellico
nella “città militare”, estesa dalle retrovie alle trincee, alle vette alpine,
teatro di guerra nel durissimo inverno 1917-1918, condotta senza quartiere come
documenta, tra altri, Diego Leoni in La guerra verticale (ed. Einaudi).
Contrariamente a quanto asserito da una diffusa leggenda, durante la “battaglia
di arresto” chiusa a dicembre con la definitiva rinuncia degli “austriaci” a
proseguire l'offensiva oltre il Piave, Armando Diaz, nominato Comandante
Supremo il 9 novembre e fiancheggiato da Gaetano Giardino e da Pietro Badoglio,
operò nel solco del predecessore, anche nell'applicazione dei codici militari,
come documentano le statistiche sulle punizioni, pubblicate dall'Inchiesta
sugli avvenimenti dall'Isonzo al Piave, 24 ottobre-9 novembre 1917,
ristampata in edizione anastatica nel 2014 con prefazioni di Antonino Zarcone e
di un collaboratore dell'US-SME, nota come “Inchiesta su Caporetto”.
Il Re, gli italiani, la Vittoria
Perno della resistenza fu Vittorio Emanuele
III. Accettata la sostituzione di Cadorna, chiesta da Vittorio Emanuele Orlando
quale condizione per assumere la presidenza del Consiglio in successione al
vetusto Paolo Boselli, il Re mostrò il suo primato alla guida dell'Italia l'8 novembre 1917 nell'incontro di Peschiera
con i plenipotenziari degli Stati alleati: Francia, Gran Bretagna e Stati
Uniti. La Russia era ormai travolta dalle Rivoluzioni che vi si susseguivano
sino a quella bolscevica, capitanata da Lenin, che consentirono ai tedeschi di
spostare le loro armate dal fronte orientale a quello occidentale e in soccorso
all'Austria, anche con reparti di élite come i Cacciatori alpini tra le
cui fila emerse il giovane Erwin Rommel.
Pur con la riduzione del fronte di centinaia di
chilometri e il potenziamento della difesa, i caduti italiani rimasero
elevatissimi, come ricorda Oreste Bovio nella sua esemplare Storia dell'Esercito
italiano. Fermata l'ultima offensiva nemica nella “Battaglia del
Solstizio” (giugno 1918), Diaz preparò accuratamente la riscossa. Pressato
dagli Alleati che premevano per un 'offensiva italiana in funzione di
alleggerimento sul loro fronte, Orlando si spinse a intimare a Diaz di
attaccare, perché la stasi era peggio di una sconfitta. A differenza di Vittorio
Emanuele III e di Diaz, il facondo presidente non capiva che una seconda
batosta sarebbe stata definitiva. Quando il 26 ottobre l'esercito italiano
iniziò l'avanzata lo fece per vincere. In una settimana gli austriaci volsero
le spalle e si rassegnarono a chiedere l'armistizio. L'impero era nel caos.
Malgrado gli estremi tentativi di Carlo d'Asburgo di salvare la corona con
concessioni alle nazionalità per secoli ignorate, si stava sfarinando. Alla
fame si aggiunsero le insorgenze. Come nella biografia di Diaz documentò il
generale Gratton, nello strumento di resa l'Italia fece inserire il diritto di
attraversare in armi il territorio nemico, in direzione della Germania, il cui
nuovo governo, dopo la fuga del kaiser Guglielmo II in Olanda, si piegò
firmando l'armistizio a Compiègne. In qualunque altro Paese una battaglia come
quella vinta dagli italiani a Vittorio Veneto verrebbe ricordata perpetuamente
nella toponomastica, come Roma e il Venti Settembre…
Eclissi d'Europa
La Grande Guerra (da europea divenuta mondiale
con l'intervento degli Stati Uniti d'America, scesi frettolosamente in campo
tre settimane dopo il crollo dello zar Nicola II) lasciò sul terreno i quattro
imperi di Russia, Austria-Ungheria, Germania e turco-ottomano. La
moltiplicazione degli Stati, talora minuscoli (come quelli baltici) o
artificiosi (la Ceco-Slovacchia e il regno serbo-croato-sloveno), gettò le
premesse per l'instabilità dell'Europa. Le lunghe e aggrovigliate trattative di
pace posero le basi del revisionismo, del neo-nazionalismo fanatico,
intossicato dal mito del “complotto” e del “tradimento” ispiratore del
delirante Mein Kampf di Adolfo Hitler. Seguì la ripresa delle
ostilità tra i popoli sino alla seconda fase della nuova Guerra dei Trent'anni
che tra il 1914 e il 1945 con suggestiva coincidenza ripeté quella di tre
secoli prima (1618-1648), causando la tuttora perdurante eclissi dell'Europa
nel quadro planetario.
La “repubblicanizzazione” dell'Europa
centro-orientale, acutamente descritta da François Fejto nell'insuperato Requiem
per un'Europa defunta, segnò una svolta, le cui conseguenze
graveranno a tempo indeterminato perché il vuoto lasciato dal marx-leninismo,
dallo stalinismo e dal crollo del predominio russo sull'Europa centro-orientale
è stato riempito da nuove ideologie, compresa la pseudocultura “verde”,
impastata di visioni anti-scientifiche e da fanciullesche fiabe
paleonaturalistiche.
Anche i governi degli Stati vincitori uscirono
indeboliti dal conflitto. La Gran Bretagna fu a lungo teatro di scioperi al cui
confronto impallidiscono quelli susseguitisi in Italia nel “biennio rosso”.
Altrettanto avvenne in Francia. Gli Stati Uniti invece si ritrassero,
rifiutando di far parte della Lega delle Nazioni (modesta invenzione del
presidente Wilson, scopiazzata dalla ben più lungimirante Società delle Nazioni
prospettata dal congresso delle massonerie a Parigi il 28-30 giugno 1917),
benché lo statuto della Lega (comprendente la “dottrina Monroe”) fosse stato
bizzarramente imposto quale premessa al testo delle cinque paci dettate ai
vinti (Versailles, Saint-Germain, Neuilly, Trianon, Sèvres) tra il 28 giugno
1919 e il 10 agosto 1920 (non in quella di Losanna che il 24 luglio 1923
ratificò la dissoluzione dell'impero turco a beneficio di Francia e Gran
Bretagna).
Il Patto tra Istituzioni e cittadini...
Il riconoscimento del sacrificio sofferto dai
popoli nel corso della guerra non fu retorica ma necessità filosofica e
storica. Certa “politica” però intralciò e rischiò di oscurare
l'orizzonte.
Per motivi diversi e calcoli opportunistici di
notabili che misero le proprie ambizioni al di sopra del Paese venne lasciata
libera stura a campagne di opinione contro i vertici militari, il servizio di
leva e, “salendo per li rami”, le istituzioni supreme, in un crescendo di
tensioni e disordini che infine divennero guerra civile a bassa intensità tra
opposte fazioni in gran parte eterodirette. Pesò l'assuefazione alla violenza
inoculata dall'esperienza di guerra di molti ex combattenti spaesati.
La rivendicazione della vera Italia fu opera
del Re e del settantottenne Giolitti, tornato presidente del Consiglio e deciso
a ripristinare l’ordine e a riequilibrare il bilancio con l'eliminazione degli
sperperi. Il risanamento della pubblica amministrazione, a ogni livello, si accompagnò
a quello della “coscienza nazionale”, con Benedetto Croce alla Pubblica
istruzione. Di lì la valorizzazione della partecipazione delle “popolazioni
italiane” alla Vittoria. Come in altri Stati, venne decisa la tumulazione in
Roma della Salma del Soldato Ignoto, simbolo della miriade di caduti non
identificati: non per contrapposizione del “fante” alle gerarchie (come altri
avevano polemicamente proposto) ma quale conferma dell'unità nazionale nell'ora
del bisogno, del Patto tra Corona e cittadini. La Festa delle bandiere del
novembre 1920 precorse la Tumulazione del Milite Ignoto il 4 novembre 1921,
terzo anniversario della Vittoria.
Da Aquileja all'Altare della Patria: Silenzio e
rullo funebre di tamburi
L'“Operazione” fu complessa e studiata in ogni
particolare. Quando si passò dalle ipotesi alla realtà, i suoi primi passi
furono compiuti nel più rigoroso segreto. Tra la miriade di cadaveri occorreva
sceglierne undici dagli altrettanti teatri di battaglie ove si fossero battuti
fanti (dei quali facevano parte gli aviatori) e marinai. Perché quel riserbo
assoluto? A distanza di tempo non tutti lo comprendono di primo acchito, come
non l’hanno compreso per altre circostanze, quasi cent'anni dopo, come ricorda
il prestigioso Annuario della Nobiltà Italiana curato da Andrea Borella.
In un Paese lacerato com’era allora l'Italia, anche un solo grido, un fischio,
un insulto nel corso dei Rituali avrebbe deturpato la memoria di tutti i
caduti, noti o ignoti, dei loro famigliari, amici e conoscenti, dell'Italia
intera. Le Salme andavano accolte nel Silenzio. Non è facile capirlo oggi
giorno, quando ai funerali si applaude. Ricalcando l'età di Roma, gli statuti
medievali vietavano persino di piangere alle esequie. Chi non se la sentiva,
doveva astenersi dal parteciparvi. In quell'Italia avvenne il “miracolo”.
Undici Salme furono raccolte dinnanzi all'altare della Basilica Patriarcale di
Aquileja, presenti il ministro della Guerra, Luigi Gasparotto, e l'ex
comandante della III Armata, Emanuele Filiberto duca di Aosta.
Scelta da Maria Bergamas, madre di un patriota
accorso in difesa dell'Italia comprendente la sua terra irredenta, la Salma
venne recata a Roma in treno appositamente allestito. Il seguito è noto. Con
rare eccezioni polemiche strumentali di accalappiavoti, l'Italia partecipò
unanime, emotivamente coinvolta.
Il Milite Ignoto era la “vox clamantis in
deserto”: un appello alla concordia e all'unità in un'Europa dilaniata,
necessario allora come oggi. Quale messaggio manda in questo Equinozio
d'Autunno 2021? Chi lo ascolta? Chi lo traduce?
La Voce del Re Sacerdote
Manca l'altra voce: quella di Vittorio Emanuele
III, che fu il regista non occulto della più grande sacra rappresentazione
dell'Italia dal 1861 a oggi: la Tumulazione dell'“Ignoto Soldato” dinnanzi al
Sacello della Dea Roma all'Altare della Patria, originariamente concepito quale
sepolcro dei Re d'Italia provvisoriamente deposti al Pantheon.
Fu il Re a celebrare il Rito. La mattina del 2
novembre precedette solitario il corteo funebre che seguì il Feretro dalla
Stazione Termini alla Basilica di Santa Maria degli Angeli. Il 4 attese
all'Altare della Patria l'arrivo del Milite, decorato di Medaglia d'Oro al
Valor Militare, e gli rese gli onori militari, mentre i tamburi rullavano con i
cordoni abbassati su sua disposizione, in segno di lutto come per i funerali
della Casa. Il Capo dello Stato e il Milite
Ignoto erano tutt'uno.
Non si può ricordare il 4 novembre di cent'anni
orsono dimenticando Vittorio Emanuele III. Quel giorno la quasi totalità degli
italiani lo sentì Pater Familias della Nuova Italia, degli ideali
universali di indipendenza, unità e libertà che avevano ispirato il
Risorgimento, senza il quale gli italiani sarebbero rimasti “volgo disperso che
nome non ha”. Come tanti dall'estero volevano e vorrebbero fosse.
Aldo A. Mola
A Vicoforte memoria del Milite Ignoto
Non mancano iniziative memoriali per riproporre
all'attenzione il significato profondo della Tumulazione del Milite Ignoto
all'Altare della Patria il 4 novembre di cent'anni orsono. Il 26 settembre è
tornato ad Aquileja il Tricolore che il 28 ottobre 1921 avvolse la sua bara nel
lungo, lento viaggio sino alla Città Eterna. Molti Comuni gli hanno tributato
la Cittadinanza onoraria.
Fresco di stampa è in libreria il volume “Il
Milite Ignoto alle radici dell'identità italiana”, curato da Silvio
Bolognini, direttore CE.DI.S. Università eCampus (ed. Mimesis). Comprende venti
saggi che sottolineano la valenza simbolica del sacrificio quale archetipo
della carducciana “itala gente da le molte vite”. Gli autori conducono
dall'Oriente Antico all'attualità e coprono l'assordante silenzio
dell'“accademia” per ora poco sensibile alla rievocazione di un momento
fondamentale della storia d'Italia.
Sabato 9 ottobre si svolge a Vicoforte (Cuneo)
il convegno su “Il re Soldato per il Milite Ignoto. La riscossa della monarchia
statutaria (1919-1921)”. Si apre alle 10 con la visita alle Tombe di Vittorio
Emanuele III e della Regina Elena. Intervengono, tra altri, Giuseppe Catenacci,
presidente dell'Associazione Nazionale ex Allievi della Nunziatella, Carlo
Cadorna, GianPaolo Ferraioli, Dario Fertilio, Luca G. Manenti, Tito Lucrezio
Rizzo, Aldo G. Ricci, Giorgio Sangiorgi, i generali Antonio Zerrillo e Giorgio
Blais, Carlo M. Braghero e Alessandro Mella. I lavori del convegno, promosso
dall'Associazione di studi storici Giovanni Giolitti e dalla Consulta dei
Senatori del Regno, con l'egida del Comando Regionale Esercito Piemonte e di
altre Istituzioni, proseguono nell'Aula Beata Paola della Casa Regina Montis
Regalis (attigua al Santuario).
Il 13-14 ottobre l'Ufficio Storico dello Stato
Maggiore dell'Esercito organizza a Roma (Scuola Ufficiali Carabinieri) il
convegno su “Il Milite Ignoto: sacrificio del cittadino in armi per il bene
superiore della nazione”.
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