Complotti leggendari per rovesciare Mussolini
di Aldo A. Mola
Da un valico alpino a una missione planetaria
Nel 1938 Vittorio Emanuele III aveva 69 anni.
Erano passati più di nove secoli da quando Umberto Biancamano aveva iniziato le
fortune della Casa. Sul trono da 38 anni, era Re d'Italia, imperatore d'Etiopia
e, nominalmente, di Cipro, Gerusalemme... L'Italia possedeva un impero
coloniale che andava dall'Africa Orientale (Etiopia, Eritrea e Somalia) alla
Libia. Aveva Rodi e il Dodecanneso. Agnostico, Vittorio Emanuele III conosceva
ogni dettaglio della “storia di famiglia” e di quella generale. Aveva motivo di
ritenere che al di sopra di ogni sovrano della Casa vi fosse una Volontà.
Quella dei Capi Famiglia che si erano succeduti di maschio in maschio per tante
generazioni. La loro ascesa da conti di un valico alpino a sovrani di un impero
trenta volte più grande dell'Italia non era solo frutto di indistricabili
intrighi. Avevano svolto un “missione”?
Sotto il segno di Satana
“Veritas vos liberat” si diceva una volta. Ma
adesso dov'è la “veritas”? La bulimia di “notizie” genera dis-informazione.
Succubi di una valanga di “messaggi”, tanti brancolano nel buio della ragione,
che, come noto, genera mostri. Suscita sospetti e inocula il virus del
complottismo, malattia infantile dell'irrazionalità. Malgrado le diffuse
illusioni, che sono l'altra faccia della stessa medaglia, la storia non è
affatto un percorso rettilineo che da chissà quale abisso conduce verso chissà
quale meta luminosa e sublime. Procede a strappi. Alcuni hanno il privilegio di
credere che dopotutto gli uomini siano liberi, sia di fare il bene sia il male.
Altri corrono dietro al primo pifferaio che li induce in tentazione. Un’esigua
minoranza si conforta ripetendo “Ordo ab chao”. Quasi nessuno si rassegna a non
cercare spiegazioni, pago di vivere e lasciar vivere. Perché sono appena una
manciata? La loro ricetta andava bene nei secoli di Epicuro e di Lucrezio o del
cinico Diogene. Ad Alessandro Magno, che gli domandò che cosa potesse fare per
lui, il filosofo gli rispose che si scansasse perché gli faceva ombra.
L'osservazione pacata del “flusso della storia”
(espressione cara all'insuperato e oggi pressoché dimenticato Riccardo
Bacchelli) era possibile nei secoli andati: pochi abitanti, molte guerre di
sterminio e pestilenze, cittadine e castella murate e di dimensioni ridotte,
cavalli (pochi e costosi), asini, carrette, navigli fragili e audaci per
trasporto di uomini e cose. Nel mondo odierno, ove tutto è a portata di mano in
un battibaleno, a tanti pare ovvio che la storia non sia troppo diversa dal
“pacco” che arriva a casa poche ore dopo l'ordinazione: tutto sotto controllo,
“tracciato”, dall'ordine alla consegna. Se tutto è così agevole e razionale
perché non dovrebbe esserlo anche la storia? E se non va per il verso diritto
di chi sarà la colpa? Del complotto, di una congrega di perfidi cospiratori,
che intralciano, avvelenano, corrompono. Sono gli adoratori di Satana.
Giobbe: portare pazienza...
Il sospetto che le cose non siano così facili
venne già all'autore del “Giobbe”, primo dei libri poetici e sapienziali
dell'Antico Testamento. Se non fossimo in silenzio elettorale raccomanderemmo
di leggere e rileggere nella Bibbia i versetti 10,1-2 dell'“Ecclesiaste”. Recitano:
“Il cuore del saggio va a destra/ma il cuore dello stolto va a sinistra./
Qualunque direzione lo stolto prenda/ il suo cuore viene meno e ognuno dice di
lui: È matto”. Ma torniamo a Giobbe, che viveva nella terra di Uz. Uomo
integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male, aveva sette figli e tre
figlie, settemila pecore, tremila cammelli, cinquecento paia di buoi,
altrettanti asine, servitù molto numerosa e una vasta famiglia che viveva in
perfetta armonia. Ma...
“Accadde un giorno che i figli di Dio vennero a
presentarsi a Jahve (cioè a Dio) e tra di loro andò anche Satana”, reduce da
una “passeggiata sulla terra” nella quale aveva notato Giobbe, l'uomo più
facoltoso di tutti i figli d'Oriente. Jahve ordinò a Satana di stendere la sua
mano su tutte le cose di Giobbe tranne che sulla sua persona. Dopo innumerevoli
disgrazie e altre missioni da Jahve affidate a Satana per piegarne l'integrità,
Giobbe concluse che: “L'uomo, nato da donna,/ ha vita breve e piena di
affanni./ Come un fiore sboccia e appassisce...”. Ci arrivò millenni prima di
Giacomo Leopardi. Dopo una geremiade di sofferenze e strazi, mostrata la sua
totale fede in Jahve (“Io so che tu puoi tutto/ e niente per te è
difficile...”) il paziente Giobbe venne ricompensato. Ebbe il doppio degli
animali perduti, altri quattordici figli e tre figlie bellissime, visse ancora
140 anni, pari a quattro generazioni, e morì vecchio e sazio di giorni.
Non maledire il Re e non cospirare, perché Ciano prende nota
La storiografia? È anni luce lontana dalla
forza poetica e sapienziale condensata nell'Antico Testamento che, fra altro,
insegna: “Non maledire il re nemmeno con il pensiero/ e nel segreto della tua
stanza non maledire un potente,/ perché gli uccelli del cielo portano la voce/
e un alato riferirà le parole”: senza bisogno di intercettazioni telefoniche,
controllo delle chat e altri sortilegi da Grande Fratello, del tutto ovvi in
Italia ove l'“ascolto” dei telefoni venne introdotto da Giolitti, presidente
del Consiglio e ministro dell'Interno, non appena, a inizio Novecento, il
“filo” prese piede, come documentò Ugo Guspini. Perciò nella sua casa a Cavour
non lo fece mai installare. Meglio incontri a quattr'occhi e biglietti inviati
in buste anonime.
Ma non sempre le “confidenze” fanno davvero
storia, né si traducono in “colpi di Stato”, di cui è pieno l'Antico
Testamento. Tra le molte, assai enfatizzate, figurano i “complotti” orditi per
rovesciare Benito Mussolini tra il 1938 e il 1940. Li ha richiamati Paolo Mieli
in un articolo estivo ora riproposto in Il tribunale della storia. Processo
alle falsificazioni (Rizzoli). Vi rievoca un mai veramente documentato
incontro nel Castello di Racconigi tra la principessa Maria José, consorte di
Umberto di Piemonte, principe ereditario, con il maresciallo d'Italia Pietro
Badoglio. Secondo una narrazione la Principessa propose “un bizzarro colpo di
Stato” (parole di Mieli): arresto di Mussolini, forzata abdicazione di Vittorio
Emanuele III e rinunzia al trono di Umberto a favore del figlio, Vittorio
Emanuele principe di Napoli, di appena un anno, con lei come Reggente. Poiché
v'era bisogno di un capo di governo, venne preconizzato l'ignoto avvocato
milanese Carlo Aphel, uno dei legali del cofondatore e proprietario della Fiat,
Giovanni Agnelli. Il racconto non è affatto nuovo. Ne scrisse Luciano Regolo in
Così combattevamo il duce. L'impegno antifascista di Maria José di Savoia
nell'archivio inedito dell'amica Sofia Jaccarino (ed. 2013), dal quale ha
attinto anche Paolo Cacace nel recente Come muore un regime. Il fascismo
verso il 25 luglio (il Mulino).
Che il principe ereditario e la consorte non
fossero affatto proni al regime era notorio ed è stato ampiamente documentato.
Tra le molteplici fonti rimane fondamentale il ghiotto Diario (1937-1943) di
Galeazzo Ciano, genero di Mussolini (ne aveva sposato la figlia Edda) e
all'epoca ministro degli Esteri. Sotto la data del 4 maggio 1938 annotò il
proprio fastidio perché in occasione della visita di Stato di Hitler in Italia
la Corte reale non aveva abdicato al suo ruolo primaziale e si era rivelata “di
ingombrante inutilità agli occhi del popolo”, deluso perché Mussolini,
“fondatore della potenza politica italiana”, non era a fianco del capo di Stato
germanico. Lo avevano percepito anche i tedeschi. Secondo Ciano “tutto
l'ambiente è ammuffito: una dinastia che è vecchia di mille anni non ama
l'espressione di un regime rivoluzionario. Ad un Hitler, che per loro non è
altro che il parvenu, preferiscono un qualsiasi reuccio, magari di
Danimarca o di Grecia”. Al ministro degli Esteri tedesco, Joachim von
Ribbentrop, che lamentò alcuni sgarbi sofferti da Hitler, il duce fece
rispondere che avesse pazienza perché da sedici anni anch'egli pazientava.
Giobbe in camicia nera, attorniato da repubblicani scalpitanti, lo era egli stesso;
ma riteneva che la monarchia fosse “a scadenza”, come aveva fatto intendere dal
1919 alla nomina a capo del governo nel 1922.
Quando Mussolini sperava che “la natura” lo liberasse dal Re
Il 20 giugno 1938 Ciano annotò che la
Principessa Maria José “cercava notizie circa la questione monarchica”, cioè
sulla legge che aveva conferito al Gran Consiglio il potere di esprimere il
parere sulle norme di successione al trono. “Ha detto che se non fosse che è
quella che è, sarebbe contraria alle dinastie. A suo figlio insegnerà molti
mestieri, perché pensa che un giorno il ragazzino dovrà lavorare e vivere del
suo lavoro. I Savoia credono nel diritto divino. Lei no”. Due giorni dopo la
pubblicazione del famigerato Manifesto della razza (14 luglio 1938)
Mussolini scalpitò perché Vittorio Emanuele III si opponeva all'introduzione
del saluto romano nelle forze armate: “C'è voluta la mia pazienza con questa
monarchia rimorchiata. Non ha mai fatto un gesto impegnativo verso il regime.
Aspetto ancora perché il Re ha settant'anni e spero che la natura mi aiuti”.
Ciano aggiunse: “. È sempre più deciso a sbarazzarsi dei Savoia alla prima
possibilità”.
A separare il sovrano da Mussolini era la
“questione ebraica”, le leggi razziste volute dal duce anche per suscitare l'ostilità
di Francia e Gran Bretagna ma avversate dal Re come da Pio XI, contro il quale
il duce si riservava di “scatenare tutto l'anticlericalismo di questo popolo
(italiano), il quale ha dovuto faticare non poco per ingurcitare un Dio ebreo”.
A ore alterne tornava a esser l'antico socialmassimalista, con venature
paleocarducciane e vagamente anarcoidi. Di lì anche la sua crescente avversione
nei confronti del sovrano, che il 20 ottobre gli ripeté “il suo scetticismo sui
tedeschi che giudica infidi e pericolosi e la sua simpatia per gli inglesi che
sanno stare ai patti come sapeva fare la Vienna degli Asburgo”. Da metà marzo
l'Austria era stata annessa alla Germania, con plebiscito confermativo
pressoché unanime. Al Brennero l'Italia non confinava con la piccola e innocua
repubblica austriaca sorta dallo smembramento dell'impero astro-ungarico ma
direttamente con il Terzo Reich. La minaccia era incombente. Motivo in più per
coltivare l'amicizia con la Gran Bretagna e smussare ogni “incomprensione” con
la Francia, tanto più che questi due “campioni della democrazia” ormai
riconoscevano la vittoria di Francisco Franco in Spagna e guardavano con
preoccupazione agli equilibri nel Mediterraneo, mentre l'Europa centrale era
squassata dal movimentismo revisionistico hitleriano. Se ne ebbe conferma alla
Conferenza di Monaco di Baviera a fine settembre, quando Berlino ottenne
l'annessione dei Sudeti, sottratti alla repubblica cecoslovacca.
Il 4 novembre 1938 Mussolini convocò il genero a Palazzo Venezia e gli parlò delle “difficoltà che presenta sempre più la 'diarchia' del fascismo e della monarchia”. Il giorno precedente nella rituale cerimonia all'Altare della Patria “le cose si erano messe male” tra lui e Vittorio Emanuele III perché la folla (debitamente suggestionata) aveva inneggiato esclusivamente al duce e non era stata eseguita la Marcia Reale. Mussolini disse al re che era “una dimenticanza occasionale”. Il sovrano replicò “in tono secco, che in otto secoli erano sempre stati resi gli onori ai Sovrani di Casa Savoia”. A Ciano il duce fece capire che non si sarebbe lasciata sfuggire l'occasione di “liquidare questo stato di cose”.
I poteri effettivi del Gran Consiglio?
Esprimere “pareri”
Il conflitto tra Corona e Mussolini era dunque
netto, anche se la resa dei conti veniva rinviata per le nubi che si
addensavano sull'orizzonte. La questione ebraica era tra i motivi di insanabile
dissenso. Il 28 novembre Ciano annotò che “il Duce era indignato col Re” perché
Vittorio Emanuele III per tre volte aveva ripetuto a Mussolini di provare
“infinita pietà per gli ebrei” e tra le persone perseguitate aveva citato il
generale Emanuele Pugliese che “vecchio di ottant'anni e carico di medaglie e
ferite doveva rimanere senza domestica”. All'obiezione che 20.000 italiani “con
la schiena debole” si commuovevano sulla sorte degli ebrei, il Re replicò che
egli era tra quelli. Il generale Pugliese, autore del fondamentale volume Io
difendo l'Esercito aveva il comando della Divisione militare di Roma a fine
ottobre 1922 e aveva assicurato l'ordine pubblico nella capitale fermando le
“squadre” a decine di chilometri da Roma. Lo stesso Mussolini nel viaggio in
vagone letto da Milano verso Roma a Civitavecchia era stato costretto a
cambiare treno perché i binari erano stati divelti e un convoglio colmo di
sabbia bloccava la circolazione. Emanuele Pugliese non era un caporale. Fu in
quella tratta che, su pressione dei nazionalisti, Mussolini aggiornò la lista
dei ministri da proporre al Re: sostituì Luigi Einaudi con Alberto De Stefani e
cancellò il socialista Gino Baldesi, assolutamente pronto a partecipare al
governo, come il duce ricordò alla Camera il 16 novembre 1922.
Ma la legge istitutiva del Gran Consiglio era
davvero una sorta di spada di Damocle sulla Corona? Mussolini affermò al genero
che la Principessa di Piemonte aveva “un sacrosanto timore di lui” e andava
spesso a chiedergli istruzioni. “Una volta tirò fuori un libriccino e segnando
con un dito il capoverso domandò al duce che cosa significasse il fatto che il
Gran Consiglio doveva pronunciarsi in materia di successione della Corona.
Mussolini rispose che ciò avverrebbe in mancanza di continuità della linea
diretta o per vicende eccezionali. Lei parve soddisfatta. Ma la domanda prova
che la preoccupazione del futuro alberga nel petto dei membri di Casa Reale”.
Chi non se ne dava pensiero era invece Vittorio
Emanuele III perché, a differenza di tanti “storici”, sapeva leggere e
distinguere tra norme e leggende. La legge istitutiva del Gran Consiglio è di
chiarezza cristallina. Recita che doveva essere “sentito” il suo “parere” su
“tutte le questioni aventi carattere istituzionale”, quali le proposte di legge
su “la successione al trono, le attribuzioni e le prerogative della Corona”. Il
Gran Consiglio non aveva alcun potere sulla successione, chiarita una volta per
tutte dallo Statuto del 4 marzo 1848 e in vigore sino al 31 dicembre 1947. Era
chiamato a esprimere un “parere” (non necessariamente vincolante, perché quel
che il legislatore vuole lo dice) su “proposte di leggi”: neppure dunque sulle
leggi approvate dalle Camere ma sui relativi disegni. Dal 1928 al 1943 non fu
presentata alcuna proposta di legge di quel genere.
Una cosa sono i vagheggiamenti cospirativi,
un'altra la decisone di voltar pagina. La narrazione dei complotti orditi in
colloqui non avallati da alcun potere certificato intorbida le acque e spaccia
i sogni come fossero realtà.
Su quegli anni difficili vi è un'unica
certezza: Vittorio Emanuele III tentò invano di trovare una personalità decisa a sostituire Mussolini. Il duca Pietro d'Acquarone “tastò” anche Galeazzo Ciano,
che però si ritrasse. Di buon temperamento, parlava moltissimo, scriveva
parecchio, faceva meno. Purtroppo per lui, fu tra i firmatari dell'ordine del
giorno Grandi -Federzoni che chiese al Re di esercitare tutti i poteri statutari
temporaneamente assunti da Mussolini. Giudicato complottista e traditore venne
fucilato al Poligono di Verona sulla base di una sentenza iniqua pronunciata
dal solito tribunale straordinario fascista repubblicano.
Quando venne l'ora, il 25 luglio 1943 il Re
mise a segno la revoca e la sostituzione di Mussolini da capo del governo. Non
fu un petardo, a differenza dei vari “complotti” qui e là ventilati da altri, e
neppure un “colpo di Stato” ma l'applicazione delle norme statutarie, come
acutamente scrisse Luigi Einaudi.
Al pari di Giobbe, anche Vittorio Emanuele III fu assediato più e più volte dai Satana del tempo suo. Però, a differenza del paziente biblico, non ebbe riscatto. Né in vita né in morte. La sua lunga e drammatica biografia, tutt'uno con la storia d'Italia della prima metà del secolo scorso, rimane in attesa di essere meglio conosciuta.
Aldo A. Mola
Articolo mediocre.
RispondiEliminaArticolo che non rende Giustizia a S M Maria Jose '
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