di Aldo A. Mola
Quando l'Italia era uno Stato indipendente...
Il Vicino e il Medio
Oriente destano preoccupazioni crescenti. Dal Mar Rosso al Mediterraneo un'area
vitale per i traffici planetari e quindi per l'Italia, si infittisce di punti
interrogativi senza risposte dirette e sicure. Giustamente in allarme, il governo,
subordina le decisioni ultime al “passaggio parlamentare” se dovessero
travalicare gli impegni vincolanti per Trattati già sottoscritti. Una volta di più il grande assente è l'Unione
Europea. Afona come Istituzione, un coro stonato quando parla. Forse ha ragione
Francesco Maselli, autore di “L'Italia ha paura del mare. Reportage dai confini
della penisola”. (NR edizioni). Già patria di eroi, santi, poeti e navigatori
al servizio di sovrani più lungimiranti dei principi locali, il Paese che ha
dato i natali di esploratori e di grandi ammiragli si ripiega su se
stesso?
Certo
sconcerta il silenzio assoluto da mesi dominante nei “media” sulla Libia, quasi
non sia, con la Tunisia, l'“altra sponda”, riferimento obbligato per la
geografia, che impone la storia.
Motivo
in più per allungare lo sguardo a un passato neppure tanto remoto, ma del tutto
dimenticato.
L'ultima
dimostrazione di piena sovranità dell'Italia risale a 122 anni addietro con
l'“impresa di Libia” iniziata il 29 settembre 1911 e conclusa con la pace di
Losanna il 18 ottobre 1912. Il Re Vittorio Emanuele III e il governo,
presieduto dallo statista piemontese Giovanni Giolitti affiancato agli Esteri
dal siciliano Antonino Paternò Castello marchese di San Giuliano, decisero in
piena autonomia tempi e modi della guerra contro l'impero turco-ottomano, da
secoli nominalmente sovrano su Tripolitania e Cirenaica. Nel corso del
conflitto, per costringere il nemico ad arrendersi, il 4 maggio 1912, il
generale Giovanni Ameglio (Palermo, 1854 - Roma, 1921), massone, intraprese la
liberazione di Rodi e del Dodecaneso dal secolare dominio turco. Quell’operazione
speciale, deliberata dal governo senza avallo preventivo di alcuno Stato, fu
tra i più importanti successi dell'Italia e ne fece, a tutti gli effetti, una
potenza nel Mediterraneo.
La
guerra venne decisa da Vittorio Emanuele III in un incontro segreto con
Giolitti nel Castello di Racconigi (Cuneo) il 16 settembre 1911. Alla partenza
da Roma per il Piemonte, per garantire la massima riservatezza alla colloquio, Giolitti fece credere alla moglie,
Rosa Sobrero, che sarebbe andato a Bardonecchia, ove da anni affittava un
villino per le vacanze estive (ne ha scritto Antonella Filippi in Giolitti a
Bardonecchia, 2021). Invece da Torino si recò in incognito a Cavour, ove venne
riservatamente prelevato in auto dal generale Ugo Brusati, aiutante di campo
del Re, e recato a Racconigi per definire le“cose da fare”, a cominciare dalla
dichiarazione di guerra, a Camere chiuse.
Fu un
azzardo?
Gli
studi di storia coloniale costituiscono una sorta di orto separato dalla storia
politico-militare generale e risultano spesso ispirati da pregiudizi e/o
“principi” giuridici, ideali e morali maturati dopo la sconfitta dell'Italia
nella seconda guerra mondiale e l'azzeramento del suo impero coloniale,
risalente in massima parte all'età pre-fascista. In molti casi si sostanziano
nella deplorazione della colonizzazione e in narrazioni anacronistiche,
culturalmente più dannose che inutili. Il centenario dell'impresa di Libia
coincise con il crollo e l'orrendo linciaggio di Gheddafi (20 ottobre 1911),
con l'emarginazione dell'Italia dall'“altra sponda” e la ripresa della tratta di “migranti” tuttora in corso:
ingredienti che sconsigliarono la sua rivisitazione storiografica. Lo osservò
anche Nicola Labanca in “La guerra italiana per la Libia, 1911-1931” (il
Mulino, 2012, p. 7). Nel 2022, il 75° del trattato di pace che il 10 febbraio
1947 calò la saracinesca sulle aspirazioni dell'Italia a continuare la sua
“missione civile” nelle colonie ha registrato pochi studi innovatori sulle
colonie italiane. Tra le eccezioni vanno menzionati il saggio di Roberto
Alpozzi “Bugie coloniali. Leggende, fantasie e fake news sul colonialismo
italiano” (ed. Eclettica) e “Mogadiscio 1938. Un eccidio di italiani fra
decolonizzazione e guerra fredda” di Annalisa Urbano e Antonio Varsori (ed. il
Mulino). Motivo in più per tornare a riflettere sulla lunga lotta dell'Italia
“per” e “nella” Quarta Sponda, come emblematicamente fu detta la Libia.
L'espansione coloniale è parte integrante della storia generale dell'Italia, al
pari di quella degli altri Stati europei, anche territorialmente minuscoli come
il Belgio e l'Olanda, che ebbero vasti imperi, ne trassero immense ricchezze e
trattarono gli “indigeni” con metodi infami.
La “missione” dell'Italia tra errori e successi
Tre
lustri dopo la sua proclamazione (1861), con l'ascesa della Sinistra storica al
governo (1876) il regno d'Italia imboccò la via delle conquiste coloniali,
comune a tutti gli Stati rivieraschi europei, con la sola eccezione dell'impero
d'Austria-Ungheria, forte di porti bene attrezzati (Trieste e Fiume) e di una
politica commerciale tra le più solide del Vecchio Continente. Sin dagli albori
del Risorgimento il teologo neoguelfo Vincenzo Gioberti e il repubblicano
Giuseppe Mazzini rivendicarono la missione civile dell'Italia “oltremare”.
Profondamente delusa e allarmata dall'imposizione del protettorato francese su
Tunisi (1881), il giovane regno cercò nel Mar Rosso “le chiavi del
Mediterraneo”, come argomentato da Pasquale Stanislao Mancini: dall'acquisto
della baia di Assab allo sbarco a Massaua (1882-1885), dall'annessione
dell'Eritrea alla prima guerra contro l'Etiopia di Menelik (1894-1896), chiusa
con la sconfitta degli italiani presso Adua. A parte l'elevazione della Somalia
a colonia (1907), di espansione non si parlò più. Però con gli accordi
italo-francesi del 1902 Roma si premurò di ottenere la prelazione sulla costa
libica: un progetto accelerato dopo la conferenza di Algeciras e il trattato
italo-russo di Racconigi (1909). A cospetto del protagonismo coloniale
dell'impero di Germania e dell'accordo franco-spagnolo per la spartizione del
Marocco, a prescindere dalle pressioni dei nascenti nazionalisti italiani e
delle mene del vaticanesco Banco di Roma, il re ritenne che la monarchia sarebbe
stata screditata se la Libia fosse stata occupata da un'altra potenza.
Bisognava dunque averla, per quanto povera fosse.
Benché
San Giuliano temesse che la sconfitta dei Giovani Turchi al potere a Istanbul
potesse scatenare conflitti nei Balcani, Giolitti volle la rottura diplomatica
con l'impero turco per dichiarare guerra (29 settembre) e ordinare lo sbarco a
Tripoli (5 ottobre, cui seguirono Bengasi, Derna, ecc.). Come poi spiegò, fu
una “fatalità”, che comportò la “necessità” di ricorrere alle armi. La
“mobilitazione speciale” (sic!) e l'invio di un corpo di 35.000 uomini risultò
inferiore al bisogno. Malgrado le informazioni fornite da Enrico Insabato, a
contatto con gli islamisti ortodossi della Senussia, Roma compì due errori
clamorosi. Contò sulla precipitosa fuga della guarnigione nemica (appena 5.000
militari) e, peggio ancora, sulla solidarietà degli arabi contro i turchi.
Invece molti libici aderirono alla “guerra santa” indetta dal Sultano turco
contro gli invasori, “infedeli”. Il 23 ottobre truppe turche e volontari libici
assalirono gli italiani a Sciara Sciat e massacrarono 370 soldati e 8
ufficiali. Una noticina a pagina 161 della relazione in cinque volumi sulla
“Campagna di Libia” pubblicata dal Ministero della Guerra nel 1922 sintetizza i
«supplizi inenarrabili cui furono sottoposti i nostri soldati caduti nelle loro
mani: mutilazioni, acciecamenti, crocifissioni, evirazioni, sepolture di vivi,
strazio di cadaveri». Atrocità di cui «rimase vittima anche personale sanitario
intento alla sua pietosa missione». La risposta fu violentissima: in pochi
giorni si susseguirono fucilazioni e impiccagioni (almeno 2.000 persone,
compresi donne e ragazzi) e la deportazione di “ribelli” in isole italiane
(Tremiti, Favignana, Ponza, Ustica...). La proclamazione della sovranità
italiana su Tripolitania e Cirenaica venne bollata come nuova crociata, anche
per la confusione tra la croce dello scudo sabaudo e l'Italia, Stato non solo
laico ma all'epoca persino “scomunicato”.
Gli
“Alleati” (Germania e Austria-Ungheria) non osteggiarono scopertamente l'Italia
ma non la aiutarono affatto; la Francia tramò ai danni di Roma; Londra “prese
atto”, come gli USA, già intenti a studiare le risorse della Libia. I turchi
organizzarono la guerriglia con ufficiali di elevate capacità, come Enver Bey e
Mustafà Kemal, futuro Ataturk. Per prevalere gli italiani spostarono la guerra
dalla costa libica a quella della Turchia stessa. Dopo l'occupazione di Rodi e
del Dodecaneso arrivarono a tranciare i cavi telegrafici sottomarini (ne venne
mandato uno spezzone a Giolitti) e si spinsero nei Dardanelli. Memore delle
osservazioni compiute di persona in navigazione nell'Egeo, nell'ottobre 1912
Vittorio Emanuele III dettò a Giolitti i punti della Turchia europea da
bombardare.
In un
anno l'Italia destinò alla Libia circa 200.000 uomini. Lamentò 2.000 morti e
4.200 feriti. Al termine di lunghi preliminari a Ouchy (per parte italiana ai
ministri Pietro Bertolini e Guido Fusinato si aggiunsero Giuseppe Volpi e
Bernardino Nogara) la pace di Losanna riconobbe l'autorità califfale del
Sultano dell'impero turco in Tripolitania e Cirenaica: un equivoco perché per
gli islamici non vi è separazione tra potere religioso e politico-militare. La
Libia ebbe governatori militari. I propositi di conciliazione con la
popolazione araba coltivati da generali lungimiranti come Ameglio cozzarono con
errori marchiani, come il cannoneggiamento della tomba di Sidi Rafi, venerato
come santo dagli islamici.
I
progetti di valorizzazione economica dello “scatolone di sabbia” (come la Libia
venne polemicamente detta da Gaetano Salvemini) vennero vanificati dalla
sproporzione tra investimenti e profitti. Anche il geografo Arcangelo Ghisleri,
massone, nell'imponente opera “Tripolitania e Cirenaica dal Mediterraneo al
Sahara” (dicembre 1911) convenne che i requisiti geofisici e climatici non
facevano bene sperare nel futuro. Altrettanto concluse la Commissione
presieduta da Leopoldo Franchetti.
L'impresa
ebbe un costo esorbitante per l'erario, ma risultò vincente sotto il profilo
politico internazionale e interno. Il governo ebbe il sostegno di cattolici,
socialisti riformisti, parte dei repubblicani e persino di Teodoro Moneta,
premio Nobel per la pace. Per valorizzare la Quarta Sponda, in massima parte
ignota, l'Italia aveva bisogno di tempo, denaro e investimenti internazionali.
Ma due anni dopo, a fine luglio 1914, la Grande Guerra sconvolse tutti i piani.
Durante
la Grande Guerra
L' arrangement (= accomodamento, non trattato
né “patto”) di Londra del 26 aprile 1915 promise all’Italia sovranità piena e
definitiva su Rodi e il Dodecaneso. Messa all’incasso l’adesione dell’Italia
all’intervento, appena dieci giorni dopo il presidente del governo francese
offrì segretamente lo stesso “bottino” al principe Giorgio di Grecia in cambio
dell’intervento ellenico a fianco dell’Intesa. L’Italia aveva firmato in gran
segreto. E in gran segreto la si poteva defraudare. I franco-britannici violavano
i patti poco prima sottoscritti. Lo stesso però fece il governo italiano che
dichiarò guerra alla Germania solo il 28 agosto 1916 anziché il 24 maggio 1915,
come chiesto dall'accordo di Londra. Con la sua firma il governo italiano,
presieduto da Antonio Salandra con Sidney Sonnino agli Esteri, si ritenne
libero dai vincoli contemplati dalla pace di Losanna.
Le colonie posero gravi problemi ancor prima
della conflagrazione europea vera e propria. Sin dal novembre 1914 il nuovo
ministro delle colonie Ferdinando Martini presentò al collega degli Esteri,
Sidney Sonnino, le “memorie” approntate da Giacomo Agnesa, che premeva per
l’acquisizione di Gibuti e della costa somala francese per rendere sicura la
presenza italiana in quella regione. Sonnino non se ne occupò minimamente.
Puntava a una base in Albania per controllare l'Adriatico.
Il 12 novembre il califfo di Istanbul ordinò
la guerra santa per la liberazione di tutte le terre islamiche dagli infedeli.
Le ripercussioni non si fecero attendere. In Somalia la guerriglia contro gli
italiani venne guidata dal mullah in armi da quasi vent’anni. Quel conflitto
terminò solo nel 1919 per intervento
convergente italo-britannico, che costrinse il mullah ad arroccarsi in un’ansa
del fiume Uebi-Scebeli, ove morì nel 1921.
In Eritrea gl’italiani dovettero fare i
conti con l’irrequietezza dell’Impero d’Etiopia dopo la morte di Menelik:
teatro della contrapposizione fra Ligg Jasu, figlio del ras Michael,
tardivamente convertitosi dall’islamismo al cristianesimo, e l’abuna Matteo.
Caduto sotto l’influenza turco-tedesca, Ligg Jasu alimentò l’odio dei musulmani
contro gl’italiani, puntando ad assalire Somalia ed Eritrea con l’aiuto di
Berlino e Istanbul. A sua volta nel febbraio 1915 il negus Michael ammassò
150.000 uomini sul confine con l’Eritrea, senza però assalirla. Il 27 settembre
1916 un colpo di stato acclamò imperatrice la uizero Zeuiditù, terzogenita di
Menelik, mise al bando Ligg Jasu e proclamò erede al trono e capo del governo
il ventiseienne degiacc Tafari (futuro Hailé Selassié) , figlio di ras
Maconnen. L’anno seguente, costretto Ligg Jasu a riparare in Dancalia e vinto
sul campo il deposto Michael, Tafari si liberò dalle interferenze
turco-germaniche. Il commercio dall’interno alla costa eritrea favorì gli
approvvigionamenti per l’Italia.
Le conseguenze più gravi della “guerra
santa” proclamata dal califfo di Istanbul si registrarono in Libia. Alla
vigilia della Grande Guerra la presenza italiana rimaneva circoscritta alle
principali città costiere e a centri dell’entroterra comunicanti con una rete
di carovaniere sempre insidiate dalla guerriglia turco-ottomana. Su impulso del
Sultano turco,nil Gran Senusso Sidi Ahmed esh Sherif chiamò alla guerra contro
l’occupazione italiana. Il colonnello Giovanni Miani ritenne pertanto
necessario colpirlo nel suo stesso territorio, il Fezzan, occupando Nufilia, a
150 km dalla costa. Cozzò tuttavia contro una resistenza invincibile e dovette
lasciare in mano avversaria l’intera Sirte orientale, dalla Cirenaica al
Fezzan. Quel successo indusse quasi tutti i capi tribù a schierarsi contro
l’“occupazione” italiana. Una seconda offensiva di Miani nel novembre 1914 non
ebbe maggior successo. Nei mesi seguenti Gadames venne più volte occupata e
perduta. Il comando generale di Tripoli deliberò quindi un’offensiva generale
per riprendere il controllo delle vie carovaniere. Allo scopo furono lanciate
due colonne, una agli ordini del tenente colonnello Gianninazzi, l’altra di
Miani. La prima fu costretta a ripiegare, dopo ripetuti attacchi di forze
preponderanti. Gianninazzi stesso rimase ferito. Peggio andò a Miani, che si
diresse su Kasr (o Gasr) bu Adi. Quando iniziò il combattimento, Ramadan
Sceteui, già nemico aperto degl’italiani, poi loro fiancheggiatore nella
spedizione, volse le armi contro la colonna di Miani, che rimase annientata e
lasciò in preda al nemico 5.000 fucili, milioni di cartucce, mitragliatrici,
artiglieria da campagna, copiosi viveri e la cassa militare. A differenza di
quanto scrisse Angelo Del Boca, non costituì «il più grande disastro dell’Italia coloniale». Nondimeno fu una
sconfitta che indusse il governatore generale Giulio Cesare Tassone a tirare i
remi in barca. Archiviate le speranze di rapida vittoria sull’Austria-Ungheria,
il comandante supremo Luigi Cadorna chiese che tutte le risorse belliche
fossero destinate “alla fronte”, come poi scrisse nelle “Memorie” recentemente
ristampate (BastogiLibri, 2019). A suo meditato giudizio, l'Italia avrebbe
riconquistato la Libia vincendo sul Carso. Le colonie facessero da sé. Anche in
Libia molte basi e distaccamenti furono abbandonati a sé stessi. Fu il caso di
Tahruna, ove nel maggio 1915, poco prima dell’intervento dell’Italia in guerra,
si distinsero il tenente colonnello Cesare Billia (ferito continuò a dirigere
la difesa sino a quando morì) e Maria Brighenti, moglie del maggiore Costantino
Brighenti, assediato a Beni Ulid. Nel corso dell’estrema sortita anche ella
venne martirizzata. Fu la prima donna insignita di Medaglia d’Oro al Valor
Militare. La notizia della sua morte fu data dagli assassini stessi al marito
che, dopo altri giorni di vana resistenza in Beni Ulid, si tolse la vita.
Nei mesi seguenti, sotto l’incalzare della
guerra condotta con mezzi crescenti dai libici foraggiati da turchi e tedeschi,
la presenza italiana in Libia si restrinse a pochi lembi costieri. L’ex
deputato di Tripoli, Suleiman el Barhuni, sbarcò infine da un sottomarino
tedesco e si proclamò governatore della Tripolitania. Anche Misurata divenne
base della guerra sottomarina germanica nel Mediterraneo. Quando dovettero
arrendersi gl’Imperi ottomano e germanico passarono la mano a una pretesa
“repubblica della Tripolitania”, con due reggenze militari e quattro capi, fra
i quali il sempre infido Ramadan Sceteui, forte del bottino sottratto
agl’italiani.
Dopo la Grande Guerra la riaffermazione
della sovranità italiana sulla Libia fu lunga e sofferta. Il primo a ottenere
risultati sicuri fu Giolitti nel corso del suo quinto governo (1920-1921), nel
quale ministro delle colonie fu Giovanni Amendola. A beneficiarne fu comunque
una parte della popolazione indigena che apprese che cos’è lo Stato, fondato
sull'uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi, senza interferenze delle
religioni nella loro vita pubblica, nei diritti civili e nelle libertà
personali.
Il cammino della“ Libia italiana” era però
ancora impervio. Dopo la riconquista, che conobbe pagine drammatiche, si
concluse con la sconfitta del 1942-1943 degli italo-germanici da parte degli
inglesi di Montgomery nella seconda guerra mondiale: un percorso che merita
narrazione apposita.
Aldo
A. Mola
DIDASCALIA:
Cirene, rovine della città cristiana.Acquerello di Ernesto Heyn (da
Arcangelo Ghisleri,”Tripolitania e
Cirenaica” (1912).
Le direttive che Vittorio Emanuele III, il
“Re Soldato”, inviò costantemente a Giolitti e ai comandanti sul campo vengono
del tutto ignorate da Claudio Pavone nel vol. III di “Quarant'anni di politica
italiana”; esse sono invece ampiamente documentate nei 2 volumi del Carteggio giolittiano
curato da Aldo A. Mola e Aldo G Ricci di concerto con Giovanni Rabbia,
all'epoca presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo (Ed.
Bastogi, Foggia, 2010).
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