NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 18 gennaio 2024

3 SETTEMBRE-13 OTTOBRE 1943 RISALIRE LA CHINA

 

Il Gen Badoglio, a fianco del Gen Taylor legge la dichiarazione di guerra alla Germania


 

di Aldo A. Mola

 

La lunga via della resa

Alle 11 del 3 settembre 1943 il capo del governo Pietro Badoglio autorizzò il generale Giuseppe Castellano a firmare alle 17 “l'accettazione delle condizioni d'armistizio”. Come il generale scrisse il 15 dicembre nella relazione all'“ispettore generale dell'Esercito” (la si legge nel vol. X della IX serie dei Documenti Diplomatici Italiani, DDI), nelle ore seguenti si svolse al Fairfield anglo-americano presso Cassibile «la prima riunione di carattere militare» presieduta dal generale Harold Alexander. Durò tutta la notte. Il generale statunitense Walter Bedell Smith, che aveva firmato per conto di Dwight Eisenhower, dette «in visione» a Castellano le «clausole aggiuntive alle condizioni di armistizio, di carattere militare, politico ed economico», redatte ancor prima dell'incontro di Lisbona del 19 agosto. Su un biglietto allegato al documento gli confermò che ad esse doveva estendersi «l’effetto della Carta di Quebec»: l'Italia avrebbe ottenuto un miglioramento delle durissime condizioni di resa (surrender) in misura del suo apporto alla lotta contro la Germania. Castellano ne fu rinfrancato, ma, trattenuto in Sicilia, non poté informarne il governo. Due giorni dopo il maggiore Luigi Marchesi, presente alla firma della resa, volò a Roma con lo scottante testo delle “clausole aggiuntive” e il biglietto di Smith. In una lettera per Ambrosio, Castellano precisò di non conoscere la data e il luogo dello «sbarco principale» programmato dagli anglo-americani ma di presumere che avrebbe avuto luogo «intorno al 12». Lo scenario prospettato nelle conversazioni tra lui e gli anglo-americani era però del tutto diverso da quanto effettivamente programmato dagli Alleati. Molto prima di arrivare alla firma, gli italiani avevano chiesto che in coincidenza con l'“armistizio” essi sbarcassero quindici divisioni molto a nord di Roma, per costringere i tedeschi a rapida ritirata dal Mezzogiorno. Gli alleati risposero che se fossero sbarcati con quella forza non avrebbero avuto motivo di concedere la resa: avrebbero occupato e debellato l'Italia, privandola di ogni riconoscimento. Tra il 4 e il 5 settembre gli anglo-americani ventilarono a Castellano l'aviolancio di una divisione di paracadutisti negli aeroporti di Cerveteri e di Furbara, a nord di Roma. Chiesero anche informazioni sulla navigabilità del Tevere per portare artiglierie e mezzi corazzati a tutela della capitale. Per accertarsi che tutto fosse predisposto il generale Maxwell Taylor si sarebbe recato in incognito a Roma.

   Mentre Castellano colloquiava con gli Alleati «su un’infinità di questioni» (propaganda, guerriglia, politica, impiego della flotta) Vittorio Emanuele III e Badoglio miravano a scongiurare che filtrasse qualunque indizio della resa. I tedeschi, che dal 6 agosto chiedevano al ministro degli Esteri Raffaele Guariglia informazioni sulla sorte di Mussolini, dal 24 agosto sospettavano che gli italiani avessero avviato trattative a Lisbona. A loro volta furono sospettati di aver ordito un complotto per rovesciare Badoglio, se non tramite la Wehrmacht per mezzo delle SS, uno “Stato nello Stato”. In quei frangenti Badoglio ordinò l'arresto del maresciallo Ugo Cavallero, senatore del regno, rilasciato per intervento del Re, e di Ettore Muti, ucciso durante la traduzione in carcere.

   Il 19 agosto a Lisbona Smith aveva spiegato “con cura” a Castellano che il loro “colloquio” aveva per tema la capitolazione militare, non un accordo per la partecipazione dell'Italia nella guerra con gli alleati. Aggiunse che il Re avrebbe potuto sottrarsi alla possibile cattura lasciando l'Italia «su una nave da guerra italiana» e che senza dubbio sarebbe stato necessario «un governo militare alleato su parte del territorio italiano». Il 30 agosto, poco prima che Castellano volasse a Termini Imerese per iniziare il triduo preparatorio alla resa, Badoglio gli dette le ultime istruzioni per ottenere lo sbarco delle famose quindici divisioni «tra Civitavecchia e Spezia» e la protezione del Vaticano. Precisò che sarebbero rimasti a Roma il Re, la Regina, il principe ereditario, il governo e il corpo diplomatico e chiese di «sapere l'epoca pressapoco allo scopo di prepararsi».

 

Le delusioni dei vinti

   A resa firmata Badoglio non ebbe risposta a nessuna delle sue domande. Rimase nella convinzione che tra la firma e il suo annuncio sarebbero trascorsi almeno dieci giorni, se non le due settimane ripetutamente sollecitate. Il 31 agosto Smith aveva proposto a Castellano che Vittorio Emanuele III si trasferisse su una nave italiana a Palermo. Gli Alleati l'avrebbero evacuata. Lì quindi poteva essere stabilita «una certa misura di sovranità italiana». Però l'isola era ormai sotto il pieno controllo anglo-americano; pertanto agli occhi del mondo sarebbe risultato che il Re cercava rifugio sotto l'ala del vincitore. Alternando toni ruvidi a quelli concilianti, Smith aggiunse che gli Alleati avrebbero comunque ignorato la pretesa unilaterale del governo italiano di considerare Roma “città aperta”. Benché cattolico, precisò che sarebbe stata bombardata «a seconda della situazione». Badoglio predispose pertanto il trasferimento dei Reali in Sardegna. Scartato per molti motivi l'impiego dell'aereo, ipotizzò il viaggio in nave da Civitavecchia. Sennonché la città fu occupata dai tedeschi, che ormai dilagavano ovunque da padroni, indifferenti alle proteste del comando supremo e dei comandanti locali.

   “Sic stantibus rebus” Badoglio percepì che gli anglo-americani non sarebbero giunti in forze sulla linea Livorno-Rimini dove, sia con la Dichiarazione di Quebec sia nei colloqui successivi, avevano fatto intendere di voler arrivare, oltre che a ridosso di Roma per metterla al sicuro dalla minaccia germanica. Perciò non dette credito alla missione di Maxwell Taylor che la sera del 7 settembre si presentò a Roma con il colonnello William Gardiner per verificare la fattibilità dell'aviolancio di paracadutisti alleati: una quota irrilevante rispetto alle forze tedesche attestate attorno alla città. Gli italiani avevano sopravvalutato gli Alleati; e questi a loro volta sopravvalutavano la reattività degli italiani contro i germanici. In assenza di ormai improbabili aiuti anglo-americani una battaglia in Roma si sarebbe risolta in una catastrofe per la Città Eterna, che racchiudeva al suo interno lo Stato della Città del Vaticano.

   La situazione fu sul punto di sfuggire completamente di mano.

   Alle 2 dell'8 settembre Badoglio scrisse ad Eisenhower che « dati cambiamenti e precipitare situazione esistenza forze tedesche in zona di Roma non è più possibile accettare l'armistizio immediato (DDI) ». Alle 11.30 il comandante delle forze anglo-americane, da Algeri (in realtà era a Biserta) rispose che avrebbe svergognato l'Italia agli occhi del modo pubblicando «full records of this affair». E aggiunse lapidario: «Today is X day, and I expect you to do your part». Se Badoglio si fosse tirato indietro – egli intimò – sarebbe stata la fine per il governo e per l'Italia. Era anche pronto a ordinare un massiccio bombardamento su Roma.

   Alle 18:25 il segretario generale agli Esteri informò il ministro Raffaele Guariglia che la radio di New York aveva comunicato che l'Italia aveva firmato l'armistizio e che tutte le truppe italiane avevano deposto le armi. In quei minuti era in corso un consulto (erroneamente narrato come “Consiglio della Corona”, organo mai esistito) tra Badoglio, Ambrosio, Guariglia, il generale Carboni, i ministri militari, quello della Real Casa duca d'Acquarone, l'aiutante di campo del Re Paolo Puntoni, il maggiore Marchesi, bene informato sull'orientamento degli Alleati, e il sovrano in persona. Carboni propose di sconfessare la resa e di continuare la guerra a fianco della Germania. Ottenne consensi. Fu il maggiore Marchesi a ricondurre alla ragione. Informò che gli Alleati avevano fotografato e filmato la firma di Cassibile e quindi l'Italia avrebbe perso ogni credibilità. Il Re decise che la resa andava annunciata. Alle 19:30 Badoglio comunicò ad Eisenhower che «la proclamazione [della resa] avrebbe avuto luogo come richiesto anche senza il vostro messaggio [intimidatorio, NdA], essendo per noi sufficiente l'impegno preso». Un'ora dopo l'Eiar emanò l'annuncio dell'“armistizio” per bocca di Badoglio e lo ripeté più volte. Alle 20:20 il maresciallo indirizzò a Hitler una lunga informativa che così concludeva: «Non si può esigere da un popolo di continuare a combattere quando qualsiasi legittima speranza, non dico di vittoria, ma financo di difesa si è esaurita. L'Italia ad evitare la sua totale rovina è pertanto obbligata a rivolgere al nemico una richiesta di armistizio.» Da tempo in sospetto ma sino a poche ore prima rassicurati che l'Italia avrebbe continuato la guerra al loro fianco, i comandi tedeschi in Italia vennero colti di sorpresa e non furono in grado di assumere subito una linea di condotta.

   Invece in poche ore Badoglio organizzò il trasferimento dei Reali, del principe ereditario, di Ambrosio, di alcuni ministri (il Re riteneva che fossero tutti avvertiti: farlo non era compito suo) e del loro seguito da Roma alla volta di Pescara. Dal ministero della Guerra, più sicuro rispetto al Quirinale, alle 5:10 del mattino del 9 la Fiat 2800 del Re uscì dal Palazzo e imboccò la via Tiburtina in direzione di Pescara, seguita da altre vetture, con le insegne bene in vista, come documentano le fotografie pubblicate da Angelo Squarti Perla in “Le menzogne di chi scrive la storia” (BastogiLibri). Il troppo celebrato Peter Tompkins in “Dalle carte segrete del Duce” asserisce che «il re e l'intero stato maggiore, macchiandosi di uno dei più vergognosi tradimenti della storia, fuggivano a Brindisi per mettersi sotto la protezione degli Alleati». In «Tagliare la corda. 9 settembre 1943. Storia di una fuga» (ed. Solferino) Marco Patricelli rincara la dose: «Fu una fuga, un abbandono, non fu un allontanamento e neppure un trasferimento […] Tagliando la corda, venne reciso senza gloria e nel peggiore dei modi immaginabili il nodo che aveva legato una dinastia e un intero sistema ai destini dell’Italia.» La realtà dei fatti è ben diversa. Il Re e Badoglio decisero di trasferirsi nella Puglia meridionale poiché lì non vi erano ancora Alleati e i militari italiani stavano cacciando i tedeschi, come a Bari, ove presero il controllo del porto guidati dal valoroso generale Nicola Bellomo. A Roma i Granatieri di Sardegna dalla notte dell'8 settembre si batterono contro i tedeschi per alto senso del dovere verso la Patria, come ricorda Luigi Franceschini in “50 anni dopo” (ed. fuori commercio, 1993). Altrettanto avvenne altrove. Risulta altresì destituita di fondamento l'insinuazione di un accordo segreto tra Badoglio e il maresciallo Kesselring che avrebbe lasciato sfilare il convoglio reale in cambio del “via libera” sulla capitale. La posta in gioco non era Roma ma lo Stato. Con la partenza da Roma per la Puglia il Re salvò la continuità dello Stato, riconosciuto dalle Nazioni Unite.

   In coincidenza con la proclamazione della resa, gli Alleati iniziarono lo “sbarco principale” nella piana di Salerno con forze inadeguate e rischiarono di essere rigettati in mare. Quarant'anni or sono lo documentò Massimo Mazzetti. Il pomeriggio del 9 il Re presiedette a Pescara la breve riunione dei vertici militari che decise la partenza per la Puglia, con imbarco la sera. Alle 21:50 il comando supremo italiano informò quello alleato: «We are moving to Taranto. We shall re-establish communications tomorrow 10 September, we repeat 10 September. Greetings». Alle 16:57 del 10 Eisenhower ripose a Badoglio: «L’intero futuro ed onore dell'Italia dipendono da ciò che le sue forze armate sono ora pronte a fare. Se l'Italia, dal primo all'ultimo uomo, si alza ora prenderemo ogni tedesco per la gola. Vi propongo con urgenza a fare perciò un richiamo squillante a tutti gli italiani amanti della Patria.» Il presidente degli USA e il premier britannico Churchill lo stesso giorno si congratularono con Badoglio che l'11 assicurò da Brindisi «tutto quello che è possibile è, e sarà fatto con quello stesso spirito e con quella stessa tenacia che esplicammo insieme sui campi di battaglia d'Italia e di Francia durante la grande ultima guerra». Il 15 esortò il capo della Missione militare alleata in Italia, Mason MacFarlane, a far sapere al mondo «che gli Alleati considerano ormai l'Italia come uno Stato che collabora spontaneamente sul piano militare».

 

In margine all'“armistizio lungo”

   Risalire la china era però un cammino ancora irto di ostacoli. Proprio perché ebbe cognizione diretta e gli venivano documentate le angherie degli Alleati ai danni degli italiani, il 21 settembre Vittorio Emanuele III scrisse a Roosevelt e a Giorgio VI di Gran Bretagna invitandoli ad affrettare il suo ritorno suo in Roma: «L’esercizio del potere civile su di una notevole parte del territorio nazionale consentirebbe, fornendo una maggior scelta di uomini politici, la ricostruzione politica del Paese da completarsi col ritorno al regime parlamentare da me sempre auspicato.» A quel modo sarebbe stato contrastato efficacemente «il nuovo governo fascista, sia pure illegalmente costituito».

   Da pochi giorni, infatti, prelevato il 12 settembre a Campo Imperatore sul Gran Sasso da un “commando” tedesco, trasferito in Germania e riportato in Italia sotto controllo di Hitler, Mussolini aveva proclamato lo Stato fascista repubblicano, poi Repubblica sociale italiana. Rimane senza risposta l'interrogativo sulla mancata custodia dell'ex dittatore da parte di Badoglio. È possibile che questi fosse sicuro della sua innocuità sulla base della lettera scrittagli il 26 luglio da Mussolini stesso, desideroso di trasferirsi in qualsiasi momento a Rocca delle Caminate. Mentre gli dichiarò «da parte mia non solo non gli verranno create difficoltà di sorta, ma sarà data ogni possibile collaborazione», l'ex duce gli augurò il successo del grave compito al quale si accingeva «per ordine ed in nome di S.M. il Re, del quale durante 21 anni sono stato leale servitore, e tale rimango».

   Alle 10:50 del 29 settembre nel quadrato della nave britannica “Nelson” ancorata a Malta Eisenhower e Badoglio sottoscrissero i 44 articoli del cosiddetto armistizio lungo, scritto in agosto contemporaneamente a quello corto e immutabile. In 65 minuti, comprensivi di una pausa per sorbire bibite, Badoglio, Ambrosio, Roatta, Sandalli e De Courten per l'Italia, Eisenhower, l'ammiraglio Cunningham e i generali Alexander, MacFarlane e Gort per gli anglo-americani, a margine della firma si confrontarono sulle prospettive. Il comandante in capo degli Alleati esortò Badoglio a dichiarare guerra alla Germania per tutelare i militari altrimenti passibili di fucilazione come “partigiani”. Il maresciallo assicurò che ne avrebbe riferito al Re, poiché la dichiarazione di guerra era sua prerogativa esclusiva e propose il rientro in Italia di Dino Grandi, suscitando perplessità dell'interlocutore, che a sua volte esortò a ricevere e a valorizzare Carlo Sforza, poco gradito al Re per le sue dichiarazioni antimonarchiche (ancorché fosse Collare della SS. Annunziata e senatore). Di concerto con Alexander aggiunse «di poter ritenere che la liberazione di Roma sarà abbastanza presto». Avvenne il 5 giugno1944. Badoglio chiese anche di far parlare da Londra il maresciallo Giovanni Messe, già aiutante di campo del Re (e massone, anche se nessuno lo disse). Eisenhower assentì malgrado gli inglesi.

   Nelle settimane seguenti gli Alleati ostacolarono in molti modi la riscossa del regno d'Italia, lesinando gli aiuti per la riorganizzazione dell'esercito. Il 13 ottobre Vittorio Emanuele III dichiarò guerra alla Germania. Come l'indomani scrisse Badoglio, così si chiuse «il periodo di armistizio e quello di cooperazione, durato complessivamente trentacinque giorni, per entrare nel terzo periodo, quello della co-belligeranza». Il maresciallo sintetizzò il quadro nel campo militare, alternanza di pagine negative («difesa sfortunata di Corfù e Cefalonia») e positive, e in quello politico con «il concorso alla causa dei vari partiti di patrioti nelle Nazioni invase». Nessun cenno alla situazione interna. Agli occhi dei più questa risultava deludente. E non solo perché il Comitato centrale di liberazione presieduto da Ivanoe Bonomi gli negava ogni collaborazione ma soprattutto perché, come il 4 ottobre scrisse il primo segretario di legazione, Antonio Venturini, «la grande maggioranza della gente (militari, funzionari, uomini di governo, intellettuali, privati di ogni genere, ecc.) ha l'impressione – e questa impressione va sempre più estendendosi – che il Governo sta seguendo una politica dilatoria e che, per ora, preferisca non affrontare numerosi problemi che assillano la vita del paese».

   Aveva veduto lungo Vittorio Emanuele III quando il 7 settembre confidò all'aiutante di campo che l'azione di Badoglio era «indecisa e poco sincera. Non è certamente un uomo all'altezza del momento». Paolo Puntoni ne ebbe conferma la sera dell'8 allorché il re osservò: «l’armistizio è accettato, ma Badoglio che rappresenta il governo non impartisce alcuna disposizione per fronteggiare gli avvenimenti che incalzano».

   Anche in regime di cobelligeranza il futuro, dunque, rimaneva fosco.

 

Perché per anni gli italiani avevano plaudito “Lui”?

   Ma la “responsabilità” non era solo di chi governava e meno ancora del Capo dello Stato, re costituzionale. Investiva tutti i cittadini. Dal 1913 i maschi erano titolari del diritto di voto. Eleggevano la Camera, che a sua volta conferiva o negava la fiducia ai governi. Non erano “innocenti”, come non lo erano i partiti nei quali si riconoscevano. Tutti avevano avuto le loro responsabilità, anche nell'avvento e nella durata del regime mussoliniano dal 3 gennaio 1925 alla catastrofe dell'estate 1943. Ci rifletté Benedetto Croce confidando al Diario le sue riflessioni su Mussolini, «di corta intelligenza», privo di sensibilità morale, vanitosissimo, sempre fra il pacchiano e l'arrogante. «Ma egli – aggiunse – chiamato a rispondere del danno e dell'onta in cui ha gettato l'Italia, con le sue parole e la sua azione come con tutte le sue arti di sopraffazione e di corruzione, potrebbe rispondere agli italiani come quello sciagurato capopopolo di Firenze, di cui parla Giuseppe Villani, il qual rispose ai suoi compagni d'esilio che gli rinfacciavano di averli condotti al disastro di Montaperti: “E voi, perché mi avete creduto?”» Le piazze stracolme di folla plaudente al duce sono motivo perenne di riflessione e un monito sempre attuale.

 


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