Il Gen Badoglio, a fianco del Gen Taylor legge la dichiarazione di guerra alla Germania |
di Aldo A. Mola
La lunga via della resa
Alle 11 del 3 settembre
1943 il capo del governo Pietro Badoglio autorizzò il generale Giuseppe
Castellano a firmare alle 17 “l'accettazione delle condizioni d'armistizio”.
Come il generale scrisse il 15 dicembre nella relazione all'“ispettore generale
dell'Esercito” (la si legge nel vol. X della IX serie dei Documenti Diplomatici
Italiani, DDI), nelle ore seguenti si svolse al Fairfield anglo-americano
presso Cassibile «la prima riunione di carattere militare» presieduta dal
generale Harold Alexander. Durò tutta la notte. Il generale statunitense Walter
Bedell Smith, che aveva firmato per conto di Dwight Eisenhower, dette «in
visione» a Castellano le «clausole aggiuntive alle condizioni di armistizio, di
carattere militare, politico ed economico», redatte ancor prima dell'incontro
di Lisbona del 19 agosto. Su un biglietto allegato al documento gli confermò
che ad esse doveva estendersi «l’effetto della Carta di Quebec»: l'Italia
avrebbe ottenuto un miglioramento delle durissime condizioni di resa (surrender)
in misura del suo apporto alla lotta contro la Germania. Castellano ne fu rinfrancato,
ma, trattenuto in Sicilia, non poté informarne il governo. Due giorni dopo il
maggiore Luigi Marchesi, presente alla firma della resa, volò a Roma con lo
scottante testo delle “clausole aggiuntive” e il biglietto di Smith. In una
lettera per Ambrosio, Castellano precisò di non conoscere la data e il luogo
dello «sbarco principale» programmato dagli anglo-americani ma di presumere che
avrebbe avuto luogo «intorno al 12». Lo scenario prospettato nelle
conversazioni tra lui e gli anglo-americani era però del tutto diverso da
quanto effettivamente programmato dagli Alleati. Molto prima di arrivare alla
firma, gli italiani avevano chiesto che in coincidenza con l'“armistizio” essi
sbarcassero quindici divisioni molto a nord di Roma, per costringere i tedeschi
a rapida ritirata dal Mezzogiorno. Gli alleati risposero che se fossero
sbarcati con quella forza non avrebbero avuto motivo di concedere la resa:
avrebbero occupato e debellato l'Italia, privandola di ogni riconoscimento. Tra
il 4 e il 5 settembre gli anglo-americani ventilarono a Castellano l'aviolancio
di una divisione di paracadutisti negli aeroporti di Cerveteri e di Furbara, a
nord di Roma. Chiesero anche informazioni sulla navigabilità del Tevere per
portare artiglierie e mezzi corazzati a tutela della capitale. Per accertarsi
che tutto fosse predisposto il generale Maxwell Taylor si sarebbe recato in
incognito a Roma.
Mentre Castellano colloquiava con gli
Alleati «su un’infinità di questioni» (propaganda, guerriglia, politica,
impiego della flotta) Vittorio Emanuele III e Badoglio miravano a scongiurare
che filtrasse qualunque indizio della resa. I tedeschi, che dal 6 agosto
chiedevano al ministro degli Esteri Raffaele Guariglia informazioni sulla sorte
di Mussolini, dal 24 agosto sospettavano che gli italiani avessero avviato
trattative a Lisbona. A loro volta furono sospettati di aver ordito un
complotto per rovesciare Badoglio, se non tramite la Wehrmacht per mezzo delle
SS, uno “Stato nello Stato”. In quei frangenti Badoglio ordinò l'arresto del
maresciallo Ugo Cavallero, senatore del regno, rilasciato per intervento del
Re, e di Ettore Muti, ucciso durante la traduzione in carcere.
Il 19 agosto a Lisbona Smith aveva spiegato
“con cura” a Castellano che il loro “colloquio” aveva per tema la capitolazione
militare, non un accordo per la partecipazione dell'Italia nella guerra con gli
alleati. Aggiunse che il Re avrebbe potuto sottrarsi alla possibile cattura
lasciando l'Italia «su una nave da guerra italiana» e che senza dubbio sarebbe
stato necessario «un governo militare alleato su parte del territorio
italiano». Il 30 agosto, poco prima che Castellano volasse a Termini Imerese
per iniziare il triduo preparatorio alla resa, Badoglio gli dette le ultime
istruzioni per ottenere lo sbarco delle famose quindici divisioni «tra
Civitavecchia e Spezia» e la protezione del Vaticano. Precisò che sarebbero
rimasti a Roma il Re, la Regina, il principe ereditario, il governo e il corpo
diplomatico e chiese di «sapere l'epoca pressapoco allo scopo di prepararsi».
Le delusioni dei vinti
A resa firmata Badoglio non ebbe risposta a
nessuna delle sue domande. Rimase nella convinzione che tra la firma e il suo
annuncio sarebbero trascorsi almeno dieci giorni, se non le due settimane
ripetutamente sollecitate. Il 31 agosto Smith aveva proposto a Castellano che
Vittorio Emanuele III si trasferisse su una nave italiana a Palermo. Gli
Alleati l'avrebbero evacuata. Lì quindi poteva essere stabilita «una certa
misura di sovranità italiana». Però l'isola era ormai sotto il pieno controllo
anglo-americano; pertanto agli occhi del mondo sarebbe risultato che il Re
cercava rifugio sotto l'ala del vincitore. Alternando toni ruvidi a quelli
concilianti, Smith aggiunse che gli Alleati avrebbero comunque ignorato la
pretesa unilaterale del governo italiano di considerare Roma “città aperta”.
Benché cattolico, precisò che sarebbe stata bombardata «a seconda della
situazione». Badoglio predispose pertanto il trasferimento dei Reali in
Sardegna. Scartato per molti motivi l'impiego dell'aereo, ipotizzò il viaggio
in nave da Civitavecchia. Sennonché la città fu occupata dai tedeschi, che
ormai dilagavano ovunque da padroni, indifferenti alle proteste del comando
supremo e dei comandanti locali.
“Sic stantibus rebus” Badoglio percepì che
gli anglo-americani non sarebbero giunti in forze sulla linea Livorno-Rimini
dove, sia con la Dichiarazione di Quebec sia nei colloqui successivi, avevano
fatto intendere di voler arrivare, oltre che a ridosso di Roma per metterla al
sicuro dalla minaccia germanica. Perciò non dette credito alla missione di
Maxwell Taylor che la sera del 7 settembre si presentò a Roma con il colonnello
William Gardiner per verificare la fattibilità dell'aviolancio di paracadutisti
alleati: una quota irrilevante rispetto alle forze tedesche attestate attorno
alla città. Gli italiani avevano sopravvalutato gli Alleati; e questi a loro
volta sopravvalutavano la reattività degli italiani contro i germanici. In
assenza di ormai improbabili aiuti anglo-americani una battaglia in Roma si
sarebbe risolta in una catastrofe per la Città Eterna, che racchiudeva al suo
interno lo Stato della Città del Vaticano.
La situazione fu sul punto di sfuggire
completamente di mano.
Alle 2 dell'8 settembre Badoglio scrisse ad
Eisenhower che « dati cambiamenti e precipitare situazione esistenza forze
tedesche in zona di Roma non è più possibile accettare l'armistizio immediato
(DDI) ». Alle 11.30 il comandante delle forze anglo-americane, da Algeri (in
realtà era a Biserta) rispose che avrebbe svergognato l'Italia agli occhi del
modo pubblicando «full records of this affair». E aggiunse lapidario: «Today is
X day, and I expect you to do your part». Se Badoglio si fosse tirato indietro
– egli intimò – sarebbe stata la fine per il governo e per l'Italia. Era anche
pronto a ordinare un massiccio bombardamento su Roma.
Alle 18:25 il segretario generale agli
Esteri informò il ministro Raffaele Guariglia che la radio di New York aveva
comunicato che l'Italia aveva firmato l'armistizio e che tutte le truppe
italiane avevano deposto le armi. In quei minuti era in corso un consulto
(erroneamente narrato come “Consiglio della Corona”, organo mai esistito) tra
Badoglio, Ambrosio, Guariglia, il generale Carboni, i ministri militari, quello
della Real Casa duca d'Acquarone, l'aiutante di campo del Re Paolo Puntoni, il
maggiore Marchesi, bene informato sull'orientamento degli Alleati, e il sovrano
in persona. Carboni propose di sconfessare la resa e di continuare la guerra a
fianco della Germania. Ottenne consensi. Fu il maggiore Marchesi a ricondurre
alla ragione. Informò che gli Alleati avevano fotografato e filmato la firma di
Cassibile e quindi l'Italia avrebbe perso ogni credibilità. Il Re decise che la
resa andava annunciata. Alle 19:30 Badoglio comunicò ad Eisenhower che «la
proclamazione [della resa] avrebbe avuto luogo come richiesto anche senza il
vostro messaggio [intimidatorio, NdA], essendo per noi sufficiente l'impegno
preso». Un'ora dopo l'Eiar emanò l'annuncio dell'“armistizio” per bocca di
Badoglio e lo ripeté più volte. Alle 20:20 il maresciallo indirizzò a Hitler
una lunga informativa che così concludeva: «Non si può esigere da un popolo di
continuare a combattere quando qualsiasi legittima speranza, non dico di
vittoria, ma financo di difesa si è esaurita. L'Italia ad evitare la sua totale
rovina è pertanto obbligata a rivolgere al nemico una richiesta di armistizio.»
Da tempo in sospetto ma sino a poche ore prima rassicurati che l'Italia avrebbe
continuato la guerra al loro fianco, i comandi tedeschi in Italia vennero colti
di sorpresa e non furono in grado di assumere subito una linea di condotta.
Invece in poche ore Badoglio organizzò il
trasferimento dei Reali, del principe ereditario, di Ambrosio, di alcuni
ministri (il Re riteneva che fossero tutti avvertiti: farlo non era compito
suo) e del loro seguito da Roma alla volta di Pescara. Dal ministero della
Guerra, più sicuro rispetto al Quirinale, alle 5:10 del mattino del 9 la Fiat
2800 del Re uscì dal Palazzo e imboccò la via Tiburtina in direzione di
Pescara, seguita da altre vetture, con le insegne bene in vista, come
documentano le fotografie pubblicate da Angelo Squarti Perla in “Le menzogne di
chi scrive la storia” (BastogiLibri). Il troppo celebrato Peter Tompkins in
“Dalle carte segrete del Duce” asserisce che «il re e l'intero stato maggiore,
macchiandosi di uno dei più vergognosi tradimenti della storia, fuggivano a
Brindisi per mettersi sotto la protezione degli Alleati». In «Tagliare la
corda. 9 settembre 1943. Storia di una fuga» (ed. Solferino) Marco Patricelli
rincara la dose: «Fu una fuga, un abbandono, non fu un allontanamento e neppure
un trasferimento […] Tagliando la corda, venne reciso senza gloria e nel
peggiore dei modi immaginabili il nodo che aveva legato una dinastia e un
intero sistema ai destini dell’Italia.» La realtà dei fatti è ben diversa. Il
Re e Badoglio decisero di trasferirsi nella Puglia meridionale poiché lì non vi
erano ancora Alleati e i militari italiani stavano cacciando i tedeschi, come a
Bari, ove presero il controllo del porto guidati dal valoroso generale Nicola
Bellomo. A Roma i Granatieri di Sardegna dalla notte dell'8 settembre si
batterono contro i tedeschi per alto senso del dovere verso la Patria, come
ricorda Luigi Franceschini in “50 anni dopo” (ed. fuori commercio, 1993).
Altrettanto avvenne altrove. Risulta altresì destituita di fondamento l'insinuazione
di un accordo segreto tra Badoglio e il maresciallo Kesselring che avrebbe
lasciato sfilare il convoglio reale in cambio del “via libera” sulla capitale.
La posta in gioco non era Roma ma lo Stato. Con la partenza da Roma per la
Puglia il Re salvò la continuità dello Stato, riconosciuto dalle Nazioni Unite.
In coincidenza con la proclamazione della
resa, gli Alleati iniziarono lo “sbarco principale” nella piana di Salerno con
forze inadeguate e rischiarono di essere rigettati in mare. Quarant'anni or
sono lo documentò Massimo Mazzetti. Il pomeriggio del 9 il Re presiedette a
Pescara la breve riunione dei vertici militari che decise la partenza per la
Puglia, con imbarco la sera. Alle 21:50 il comando supremo italiano informò
quello alleato: «We are moving to Taranto. We shall re-establish communications
tomorrow 10 September, we repeat 10 September. Greetings». Alle 16:57 del 10
Eisenhower ripose a Badoglio: «L’intero futuro ed onore dell'Italia dipendono
da ciò che le sue forze armate sono ora pronte a fare. Se l'Italia, dal primo
all'ultimo uomo, si alza ora prenderemo ogni tedesco per la gola. Vi propongo
con urgenza a fare perciò un richiamo squillante a tutti gli italiani amanti
della Patria.» Il presidente degli USA e il premier britannico Churchill lo
stesso giorno si congratularono con Badoglio che l'11 assicurò da Brindisi
«tutto quello che è possibile è, e sarà fatto con quello stesso spirito e con
quella stessa tenacia che esplicammo insieme sui campi di battaglia d'Italia e
di Francia durante la grande ultima guerra». Il 15 esortò il capo della Missione
militare alleata in Italia, Mason MacFarlane, a far sapere al mondo «che gli
Alleati considerano ormai l'Italia come uno Stato che collabora spontaneamente
sul piano militare».
In margine
all'“armistizio lungo”
Risalire la china era però un cammino ancora irto di ostacoli. Proprio
perché ebbe cognizione diretta e gli venivano documentate le angherie degli
Alleati ai danni degli italiani, il 21 settembre Vittorio Emanuele III scrisse
a Roosevelt e a Giorgio VI di Gran Bretagna invitandoli ad affrettare il suo
ritorno suo in Roma: «L’esercizio del potere civile su di una notevole parte
del territorio nazionale consentirebbe, fornendo una maggior scelta di uomini
politici, la ricostruzione politica del Paese da completarsi col ritorno al
regime parlamentare da me sempre auspicato.» A quel modo sarebbe stato
contrastato efficacemente «il nuovo governo fascista, sia pure illegalmente
costituito».
Da pochi giorni, infatti, prelevato il 12
settembre a Campo Imperatore sul Gran Sasso da un “commando” tedesco,
trasferito in Germania e riportato in Italia sotto controllo di Hitler,
Mussolini aveva proclamato lo Stato fascista repubblicano, poi Repubblica
sociale italiana. Rimane senza risposta l'interrogativo sulla mancata custodia
dell'ex dittatore da parte di Badoglio. È possibile che questi fosse sicuro
della sua innocuità sulla base della lettera scrittagli il 26 luglio da
Mussolini stesso, desideroso di trasferirsi in qualsiasi momento a Rocca delle
Caminate. Mentre gli dichiarò «da parte mia non solo non gli verranno create
difficoltà di sorta, ma sarà data ogni possibile collaborazione», l'ex duce gli
augurò il successo del grave compito al quale si accingeva «per ordine ed in
nome di S.M. il Re, del quale durante 21 anni sono stato leale servitore, e
tale rimango».
Alle 10:50 del 29 settembre nel quadrato
della nave britannica “Nelson” ancorata a Malta Eisenhower e Badoglio
sottoscrissero i 44 articoli del cosiddetto armistizio lungo, scritto in agosto
contemporaneamente a quello corto e immutabile. In 65 minuti, comprensivi di
una pausa per sorbire bibite, Badoglio, Ambrosio, Roatta, Sandalli e De Courten
per l'Italia, Eisenhower, l'ammiraglio Cunningham e i generali Alexander,
MacFarlane e Gort per gli anglo-americani, a margine della firma si
confrontarono sulle prospettive. Il comandante in capo degli Alleati esortò
Badoglio a dichiarare guerra alla Germania per tutelare i militari altrimenti
passibili di fucilazione come “partigiani”. Il maresciallo assicurò che ne
avrebbe riferito al Re, poiché la dichiarazione di guerra era sua prerogativa
esclusiva e propose il rientro in Italia di Dino Grandi, suscitando perplessità
dell'interlocutore, che a sua volte esortò a ricevere e a valorizzare Carlo
Sforza, poco gradito al Re per le sue dichiarazioni antimonarchiche (ancorché
fosse Collare della SS. Annunziata e senatore). Di concerto con Alexander
aggiunse «di poter ritenere che la liberazione di Roma sarà abbastanza presto».
Avvenne il 5 giugno1944. Badoglio chiese anche di far parlare da Londra il
maresciallo Giovanni Messe, già aiutante di campo del Re (e massone, anche se
nessuno lo disse). Eisenhower assentì malgrado gli inglesi.
Nelle settimane seguenti gli Alleati
ostacolarono in molti modi la riscossa del regno d'Italia, lesinando gli aiuti
per la riorganizzazione dell'esercito. Il 13 ottobre Vittorio Emanuele III
dichiarò guerra alla Germania. Come l'indomani scrisse Badoglio, così si chiuse
«il periodo di armistizio e quello di cooperazione, durato complessivamente
trentacinque giorni, per entrare nel terzo periodo, quello della
co-belligeranza». Il maresciallo sintetizzò il quadro nel campo militare,
alternanza di pagine negative («difesa sfortunata di Corfù e Cefalonia») e
positive, e in quello politico con «il concorso alla causa dei vari partiti di
patrioti nelle Nazioni invase». Nessun cenno alla situazione interna. Agli
occhi dei più questa risultava deludente. E non solo perché il Comitato
centrale di liberazione presieduto da Ivanoe Bonomi gli negava ogni
collaborazione ma soprattutto perché, come il 4 ottobre scrisse il primo
segretario di legazione, Antonio Venturini, «la grande maggioranza della gente
(militari, funzionari, uomini di governo, intellettuali, privati di ogni
genere, ecc.) ha l'impressione – e questa impressione va sempre più
estendendosi – che il Governo sta seguendo una politica dilatoria e che, per
ora, preferisca non affrontare numerosi problemi che assillano la vita del
paese».
Aveva veduto lungo Vittorio Emanuele III
quando il 7 settembre confidò all'aiutante di campo che l'azione di Badoglio
era «indecisa e poco sincera. Non è certamente un uomo all'altezza del
momento». Paolo Puntoni ne ebbe conferma la sera dell'8 allorché il re
osservò: «l’armistizio è accettato, ma Badoglio che rappresenta il governo
non impartisce alcuna disposizione per fronteggiare gli avvenimenti che
incalzano».
Anche in regime di cobelligeranza il futuro,
dunque, rimaneva fosco.
Perché per anni gli
italiani avevano plaudito “Lui”?
Ma la “responsabilità” non era solo di chi
governava e meno ancora del Capo dello Stato, re costituzionale. Investiva
tutti i cittadini. Dal 1913 i maschi erano titolari del diritto di voto.
Eleggevano la Camera, che a sua volta conferiva o negava la fiducia ai governi.
Non erano “innocenti”, come non lo erano i partiti nei quali si riconoscevano.
Tutti avevano avuto le loro responsabilità, anche nell'avvento e nella durata
del regime mussoliniano dal 3 gennaio 1925 alla catastrofe dell'estate 1943. Ci
rifletté Benedetto Croce confidando al Diario le sue riflessioni su Mussolini,
«di corta intelligenza», privo di sensibilità morale, vanitosissimo, sempre fra
il pacchiano e l'arrogante. «Ma egli – aggiunse – chiamato a rispondere del
danno e dell'onta in cui ha gettato l'Italia, con le sue parole e la sua azione
come con tutte le sue arti di sopraffazione e di corruzione, potrebbe
rispondere agli italiani come quello sciagurato capopopolo di Firenze, di cui
parla Giuseppe Villani, il qual rispose ai suoi compagni d'esilio che gli rinfacciavano
di averli condotti al disastro di Montaperti: “E voi, perché mi avete
creduto?”» Le piazze stracolme di folla plaudente al duce sono motivo perenne
di riflessione e un monito sempre attuale.
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