Quest'Europa evidentemente
invecchiata, vivente sul «balance of powers» e la solidarietà dei Troni non gli
riusciva simpatica. In un certo senso la sua natura romantica in questo
continente ancora fermamente basato sul «diritto divino» lo spingeva dalla
parte dei rivoluzionari.
Le sue simpatie, ricambiate,
per Turati e Bissolati sono notorie, la sua risposta al Gianturco, che
eccedendo in zelo punitivo per la uccisione di Re Umberto, proponeva una
reazione più energica non è altrettanto nota: «Allora, - egli disse al Ministro
che proponeva la sospensione dei poteri delle due Camere - sarò io stesso a
guidare un battaglione per occupare Palazzo Madama».
La lunga collaborazione col
più rivoluzionario dei suoi ministri, il Giolitti, è altrettanto nota, sebbene
si sia voluto fare d quest'incontro un antagonismo, e di Giolitti il più fedele
dei servitori della monarchia costituzionale, un repubblicano in palamidone.
Non è vero che egli non
credesse a niente, fosse uno scettico al di là d'ogni fede, un ateo incapace
di palpiti e di commozioni, egli credeva prima di tutto nell'Italia e negli
italiani: senza retorica, in base ad una valutazione obiettiva e, per questo
punto, rimandiamo alle parole dette a Peschiera per scagionare il Soldato,
l'umile proletario trincerista, dell'accusa che lo, gravava.
Credeva nelle loro virtù
numerose e grandi, sapeva che non sempre essi erano diretti bene; sbagli, anche
grandi e pericolosi se ne commettevano ma — come ebbe a dire —«non mai per
tradimento o per bassezza di passioni». Il suo, nel complesso, gli appariva un
popolo superiore. D'altra parte rimeditando la storia della sua piccola Casa,
diventata a mano a mano, traverso i secoli e le audacie, una delle più
importanti dinastie regnanti nel mondo, gli pareva giusto e logico attribuire
agli italiani e all'Italia un destino di «crescenza», non foss'altro perché
nel poco spazio e sulla magra terra della Penisola questo popolo viveva assai
poveramente.
Non fosse, stato un romantico
non avrebbe «tentato» la via delle guerre: la sola offerta alle Nazioni che
non trovano nel loro suolo materie prime da ,trasformare ed esportare. Egli disse
anche il perché delle guerre combattute, malgrado che personalmente amasse la
pace e la tranquillità degli studi.
La guerra di Libia la iniziò
perché là opinione pubblica la voleva e la contingenza internazionale (come si
vedrà più oltre) non offriva altra scelta. A determinarlo intervenne una causa «debole»
ma potente: il ministro degli esteri di San Giuliano, parente di Hassuna pascià
di Tripoli, per via di un suo nonno che avendo ucciso un rivale durante la
rivoluzione siciliana del '48 era fuggito a Tripoli e qui aveva sposato la
figliuola di un Caramanli, garantiva il
successo assoluto dell'Impresa alla quale Giolitti riluttante in principio si
decise.
L'entrata nella guerra mondiale risaliva a cause assai più profonde. Dall'avvento al trono in poi Re Vittorio si era dedicato alla difficilissima opera di demolire la Triplice. Nella seconda parte di quest'Introduzione il lavorio incessante del Re è seguito da vicino. Egli obbediva con questo alla sua natura romantica, «rivoluzionaria», per così dire; ma anche ad una tradizione della sua casa e lo disse esplicitamente al generale Angelo Gatti nell'anno 1923: «Da secoli i Savoja tentavano l'impresa, nel 1915 si presentava l'occasione opportuna». Inoltre, era convinto che dalla parte dell'Inghilterra e della Russia non si potesse perdere. «Noi ora abbiamo visto come sia la Russia — disse al Gatti — ma allora sembrava un colosso; del resto anche l'Inghilterra benché abbia vinto la guerra,- ha perduto grandezza e importanza. Con tanta roba presa è meno forte di prima. L'areoplano e il sommergibile hanno rovinata la sua potenza; qualche altra Nazione, forse, l'America prenderà il suo posto».
Era un Savoja che misurava la
sua sorte. Sapeva come per un Re non fosse mai buon tempo e s'era fatta persino
una teoria sulla «relatività storica» dei tempi in cui vive un Re. Son tutti
tempestosi o agitati i giorni, le settimane, i mesi e gli anni di un Regno.
Visti dall'esterno possono apparire idilliaci, visti dalle finestre della
Reggia cambiano volto. Se si considerano gli anni 1908, 9, 10, 11, mostrano una
faccia ridente, florida, pacifica e un'altra percorsa dalle rughe e dalle
nuvole di avvenimenti o di avvisaglie gravissime. Tutto il suo regno è agitato
dalla lotta sociale, dalle insurrezioni, dagli attentati anarchici. Egli
ravvisa per primo il mutare delle condizioni di equilibrio tra capitale e
lavoro, accetta (che per un Re era un gran bel sacrificio) il suffragio
universale, accetta Giolitti e l'associa al periodo più glorioso del suo Regno.
Vittorio Emanuele non ebbe
amici e stimò pochissime persone, tra queste sommamente di San Giuliano, del
quale disse a giusto titolo, che se fosse stato vivo e presente a Versaglia la
storia d'Italia sarebbe andata per altro verso; e Giolitti. Presso questo Re
non era possibile e non fu possibile un «Partito di Corte », i suoi Presidenti
del Consiglio, della Camera e del Senato rappresentavano gli strumenti del
regno («Io non ho altre orecchie che il Senato e la Camera» disse, più tardi,
ai deputati aventiniani Giolitti, lo definì lui stesso «il più fedele
servitore di Casa Savoja»; forse avrebbe fatto meglio a indicarlo come il più
preciso interprete della sua particolare concezione del Regno. Giolitti aveva
servito fedelmente Umberto I e continuò con lui, avendolo consenziente
nell'opera piuttosto ardita di dare una base al sentimento e al pensiero
democratico del paese, secondo il movimento di idee, iniziatosi attorno ai
primi anni del secolo. Al Giolitti, Re Vittorio disse di «concedere al popolo
il centoventi per cento, anziché il cento » e si vide nella legislazione
sociale di quell'epoca, tra le più ardite d'Europa, cosa volesse dire un Re
democratico. Tutto ciò non evitava i grandi scioperi del 1901, ne gli risparmiò
la revolverata del muratore d'Alba.
Incerti del mestiere di Re ai
quali sarebbe temerario attribuire significati trascendenti il mutare dei
rapporti tra Re Vittorio e il suo più intimo collaboratore, Giolitti. Di questi
egli vide, però, anche taluni lati criticabili. «Poteva sopportare una somma
enorme di lavoro e sotto questo aspetto, egli fece insieme male e bene al
Paese. Conservò, infatti, la macchina dello Stato così pesante e ingombrante
come l'aveva trovata, per quanto fosse stato l'uomo più adatto a semplificarla
e più volte dicesse: Se tutti gli impiegati lavorassero tre ore .al giorno
potrebbero essere ridotti della metà. Perché, dunque non obbligò quegli impiegati,
tolte onorevoli eccezioni, a lavorare le tre ore? Perché, ed era qui il suo
lato debole, in fondo mancava anche lui di coraggio: 'non di coraggio fisico
che aveva, ma di coraggio morale. Quel coraggio e quella padronanza egli dimostrò
costantemente in Parlamento ma non sempre di fronte alla folla che cercò
piuttosto di capire e di accontentare. Quando le cose giungevano a'non poter
essere risolte tranquillamente, quasi sempre egli si ritirava per tornare a
bonaccia ristabilita. Era per natura e per educazione contrario alla guerra;
aveva in fondo la convinzione che gli italiani si mettessero poco volentieri
nell'avventura di un conflitto».
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