Anche quel suo vagare, così strano e poco
noto, per mari e contrade lontane da solo e poi con la giovane moglie,
quell'apprendere l'assassinio del padre sul mare, mediante i segnali del
semaforo di Capo dell'Armi, quel passare subito nella poesia di d'Annunzio — la
più evidente delle personalità romantiche nata sotto il cielo d'Italia
—l'essere stato il Re del futurismo, del nazionalismo, dell'interventismo e poi
di altri «ismi» più romantici ancora come l' «arditismo» e il «fascismo»: se
non si conoscessero di lui altri tratti della persona e del pensiero, si
potrebbe farne facilmente una immagine di protagonista schilleriano. Un certo
gusto degli uomini e avvenimenti dell'ultima età romantica, una
inclinazione curiosa a persone ed episodi di guerre e rivoluzioni gli facevano,
lui così riservato, chiedere con insistenza al Crispi, sospetto di essere stato
complice di Felice Orsini nell'attentato di Parigi, se davvero avesse lanciata
la quarta bomba contro Napoleone III, Di Saracco, curiosa saturnina figura di
altri tempi, vedeva le somiglianze con tenebrosi eroi della rivoluzione
francese e gli interessavano, degli uomini che gli passavano accanto, gli
ardimenti dell'intelligenza e dell'azione.
***
Tuttavia non bisogna troppo insistere su
quest'aspetto della personalità di Re Vittorio. Esso era pur sempre re-presso
dalla fredda ragione e corretto dalla rigorosa osservanza « tecnica » delle
norme del suo mestiere di Re.
Di questo mestiere conosceva i limiti e le
trappole, ma anche le idee-basi che glielo avevano fatto accettare. Le quali
idee non partivano — probabilmente — da un concetto della Monarchia per
diritto, sia pure costituzionale, ma piuttosto della Monarchia come un
principio cosmico di continuità. Questa continuità si fondava sull'equilibrio
instabile del gioco costituzionale democratico; né il Re, che a questo gioco
credeva come al dogma primo dell'esistenza dello Stato, poteva prevederne la
distruzione o la « sospensione » per effetto dell'avvento fascista. Qui, senza
volerlo si scivola nel mare dell'analisi delle origini del fascismo e della
-fine della Monarchia.
S'è detto e scritto che il Re aveva
promesso a Soleri di non apporre mai la sua firma a decreti di nomina di
un Governo fascista. Circostanze mutate suggerirono invece la
convocazione di Mussolini e il governo fascista.
Il Soleri stesso potette giustificare
l'operato di Vittorio Emanuele III: «Un Re — disse — può fare questo perché non
ha bisogno di essere coerente come gli altri uomini, bisogna che decida secondo
i momenti, conforme alla superiore necessità. Si capisce quindi che dopo di
aver sostenuto che non avrebbe mai avallato il fascismo, obbedendo al
sentimento del paese abbia mutato consiglio».
Giolitti disse che il Re non può, né deve
essere grato a nessuno: la gratitudine non è opera di Re. E, guarda caso,
giustificava la decisione di Vittorio Emanuele di chiamare Mussolini al Governo
proprio «per convinzione democratica», cioè osservando e applicando il
sentimento della maggioranza.
Egli non firmò lo stato d'assedio, quando
seppe il numero dei fascisti in marcia. su Roma (più di centomila), gli
effettivi dell'Esercito (in disgregazione per i decreti di smobilitazione del
Nitti) disponibili nei diversi corpi di armata (dodicimila) e l'opinione
favorevole di quasi tutto il Corpo degli ufficiali. Dovette probabilmente
chiedersi se fosse quella una rivolta o una rivoluzione e se convenisse sparare
su quei giovani che gridavano «Viva l'Italia » per non offendere il sentimento
di quelli che gridavano «Viva Lenin».
L'opinione intermedia, liberale,
democratica, riformista, cattolica, partecipava delle sue idee. Giolitti voleva
fare il Governo con Mussolini, Facta, come è noto, aveva lungamente meditato
di «dividere la torta» con i fascisti. Lui lo sapeva e quando il 28 ottobre
mattina il Presidente del Consiglio gli portò il decreto di Stato d'assedio,
lui gli raccontò quest'aneddoto: «Il segretario comunale di Mona-sterolo, che
è un paese vicino a Racconigi, un anno aveva ricevuto i manifesti per la
mobilitazione che i comuni debbono tenere in serbo per il caso di una chiamata
alle armi: per ignoranza quando arrivarono li fece affiggere e a Monasterolo fu
dichiarata la guerra. Corsero a Racconigi, al Castello, da tutte le parti.
Erano state chiamate dieci classi; la gente ritornando in fretta dalla campagna
era sconvolta. Bisognò acchiappare il segretario e obbligarlo a staccare,
subito, personalmente, tutti i manifesti. Così farà lei col suo decreto».
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