NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 20 novembre 2022

Il Re, i Soldati, il Generale che vinse, IV parte

 


Anche quel suo vagare, così strano e poco noto, per mari e contrade lontane da solo e poi con la giovane moglie, quell'apprendere l'assassinio del padre sul mare, mediante i segnali del semaforo di Capo dell'Armi, quel passare subito nella poesia di d'Annunzio — la più evidente delle personalità romantiche nata sotto il cielo d'Italia —l'essere stato il Re del futurismo, del nazionalismo, dell'interventismo e poi di altri «ismi» più romantici ancora come l' «arditismo» e il «fascismo»: se non si conoscessero di lui altri tratti della persona e del pensiero, si potrebbe farne facilmente una immagine di protagonista schilleriano. Un certo gusto degli uomini e avvenimenti dell'ultima età romantica, una inclinazione curiosa a persone ed episodi di guerre e rivoluzioni gli facevano, lui così riservato, chiedere con insistenza al Crispi, sospetto di essere stato complice di Felice Orsini nell'attentato di Parigi, se davvero avesse lanciata la quarta bomba contro Napoleone III, Di Saracco, curiosa saturnina figura di altri tempi, vedeva le somiglianze con tenebrosi eroi della rivoluzione francese e gli interessavano, degli uomini che gli passavano accanto, gli ardimenti dell'intelligenza e dell'azione.

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Tuttavia non bisogna troppo insistere su quest'aspetto della personalità di Re Vittorio. Esso era pur sempre re-presso dalla fredda ragione e corretto dalla rigorosa osservanza « tecnica » delle norme del suo mestiere di Re.

Di questo mestiere conosceva i limiti e le trappole, ma anche le idee-basi che glielo avevano fatto accettare. Le quali idee non partivano — probabilmente — da un concetto della Monarchia per diritto, sia pure costituzionale, ma piuttosto della Monarchia come un principio cosmico di continuità. Questa continuità si fondava sull'equilibrio instabile del gioco costituzionale democratico; né il Re, che a questo gioco credeva come al dogma primo dell'esistenza dello Stato, poteva prevederne la distruzione o la « sospensione » per effetto dell'avvento fascista. Qui, senza volerlo si scivola nel mare dell'analisi delle origini del fascismo e della -fine della Monarchia.

S'è detto e scritto che il Re aveva promesso a Soleri di non apporre mai la sua firma a decreti di nomina di un Governo fascista. Circostanze mutate suggerirono invece la convocazione di Mussolini e il governo fascista.

Il Soleri stesso potette giustificare l'operato di Vittorio Emanuele III: «Un Re — disse — può fare questo perché non ha bisogno di essere coerente come gli altri uomini, bisogna che decida secondo i momenti, conforme alla superiore necessità. Si capisce quindi che dopo di aver sostenuto che non avrebbe mai avallato il fascismo, obbedendo al sentimento del paese abbia mutato consiglio».

Giolitti disse che il Re non può, né deve essere grato a nessuno: la gratitudine non è opera di Re. E, guarda caso, giustificava la decisione di Vittorio Emanuele di chiamare Mussolini al Governo proprio «per convinzione democratica», cioè osservando e applicando il sentimento della maggioranza.

Egli non firmò lo stato d'assedio, quando seppe il numero dei fascisti in marcia. su Roma (più di centomila), gli effettivi dell'Esercito (in disgregazione per i decreti di smobilitazione del Nitti) disponibili nei diversi corpi di armata (dodicimila) e l'opinione favorevole di quasi tutto il Corpo degli ufficiali. Dovette probabilmente chiedersi se fosse quella una rivolta o una rivoluzione e se convenisse sparare su quei giovani che gridavano «Viva l'Italia » per non offendere il sentimento di quelli che gridavano «Viva Lenin».

L'opinione intermedia, liberale, democratica, riformista, cattolica, partecipava delle sue idee. Giolitti voleva fare il Governo con Mussolini, Facta, come è noto, aveva lungamente meditato di «dividere la torta» con i fascisti. Lui lo sapeva e quando il 28 ottobre mattina il Presidente del Consiglio gli portò il decreto di Stato d'assedio, lui gli raccontò quest'aneddoto: «Il segretario comunale di Mona-sterolo, che è un paese vicino a Racconigi, un anno aveva ricevuto i manifesti per la mobilitazione che i comuni debbono tenere in serbo per il caso di una chiamata alle armi: per ignoranza quando arrivarono li fece affiggere e a Monasterolo fu dichiarata la guerra. Corsero a Racconigi, al Castello, da tutte le parti. Erano state chiamate dieci classi; la gente ritornando in fretta dalla campagna era sconvolta. Bisognò acchiappare il segretario e obbligarlo a staccare, subito, personalmente, tutti i manifesti. Così farà lei col suo decreto».


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