Al
1923, Vittorio Emanuele aveva contato tutti gli uomini politici ch'erano stati
al Governo, lui regnante, erano 365, di cui 190 sottosegretari. Li aveva
osservati tutti, cavandone idee generali. Era rimasto colpito dalla loro quasi
generalizzata mancanza di naturalezza. La spiegava con l'influenza esterna: «il
vasto palazzo, quei lacchè scarlatti e gallonati, quelle scalee maestose, quei
tappeti profondi, quelle grandi piante, quei saloni tutti pitture, arazzi,
specchi e lumi e quell'aria ambiente di silenzio di serenità di maestà. Non
appena si è alla presenza dei Personaggio, la preoccupazione di mostrarsi
all'altezza del momento, l'ansia di dire tutto nel tempo ristretto e l'intima
disposizione di trovare nelle parole del grande uomo un senso meraviglioso e
nascosto, il desiderio di compiacerlo esagerando quello eh'egli dice, tolgono
all'interlocutore parte del senso accennato, amplificando. 'Non appena detta
una cosa spiritata l'interlocutore ride troppo, non appena accenna una notizia
triste l'interlocutore mostra un dolore infinito. I due non si svelano come
sono; quello che è sopra, preoccupato di non dire di più di un certo punto,
quello di sotto spinto ad allargare il numero e l'estensione di ciò che sente e
a farmi capire che è in tutto degno della grande fiducia». (Ma questo tratto di
psicologia, il Re può averlo anche pensato e detto come indiretta critica
all'osannante mandi che montava, senza limiti di altezza e di fragore, verso la
Dittatura e il dittatore. Son parole del 1923).
Egli
non ebbe amicizia per gli uomini dei suoi governi: non ne ebbe per
Giolitti,
per Orlando o per Mussolini e questo spiegava con un altro aneddoto. «In
Russia, il principe Dolgorucki essendo colonnello della Guardia Imperiale,
avendo ucciso in duello un altro ufficiale, fu retrocesso a sergente. Lo
mandarono nel Caucaso e si distinse alla presa di Schamyl, talmente, che lo
rinominarono colonnello. Fu addetto al comando del reggimento di cui era stato
sergente, ma con grande stupore dovette osservare che tutti i sergenti di quel
suo reggimento chiedevano di essere trasferiti. E che egli da sergente sapeva
troppo le magagne commesse dai sottufficiali. Si trovava in condizioni
specialissime per conoscere colpe che altrimenti avrebbe ignorate. Dovette
promettere di dimenticare quello che sapeva e gli ci volle del bello e del
buono per rassicurare i suoi dipendenti».
Il Re
non voleva avere «troppi legami da spezzare»: lo si vide in due grandi
occasioni, quando congedò Cadorna e quando dimise Mussolini.
Altra
massima aurea del mestiere di Re, Vittorio Emanuele III praticò conservando una
calma gelida in circostanze eccezionali. A Caporetto fu il solo a non perdere
la testa e a Brindisi, malgrado la povertà e la squallida decadenza della sua
sovranità, ristretta al piccolo territorio non ancora invaso e che, poi, presto
fu invaso, fu il solo come a Peschiera a tener testa agli stranieri vittoriosi
e punitori. Di quel che allora il Re fece non s'è ancora scritto con
documentata ampiezza, anche perché dei Re si preferisce non vedere la
disgrazia. Anche a Brindisi, come durante la guerra fortunata, egli si
svegliava alle 4 del mattino e partiva alla volta di qualche caserma, villaggio
o sconosciuta chiesa normanna o rovina romanica o chiostro barocco o selciato
famoso o tomba rinomata o prezioso affresco. Visitava, spiegava le
particolarità, i riferimenti, le sovrapposizioni di stile — lui che sapeva
tutto — agli aiutanti che sapevano molto poco. Erano frigide mattinate, come
quelle del Carso, del Friuli, del Trentino, della Carnia. Presso a poco
disponeva della medesima automobile, della stessa frugale colazione da
consumare in campagna, degli autisti, dei generali, degli aiutanti. Gli
mancavano i soldati, dispersi in Europa, perduti in Russia e nei campi di
concentramento tedeschi, sbandati sugli Appennini.
Assistette
l'Il novembre del '43 ad una rivista di truppe in partenza per il Monte Lungo,
sul fronte di Cassino, all'aeroporto di Brindisi spazzato dal libeccio; gli
colava il naso e se l'asciugava continuamente in un fazzolettone di ordinanza
della Marina di tela dura e inamidata, lottava con le pieghe, mentre con
l'altra mano salutava, col gesto meccanico quasi nato con lui.
Quelle
truppe raccogliticce, in uniformi spaiate, appartenenti ad armi dissimili,
avanzavano su colonne disordinate e sghembe, malgrado le urla degli ufficiali.
Molti
di quei soldati si erano arruolati nell'esercito del Re per passare al di là
alla prima occasione, per ritornare presso la famiglia nel troncone
settentrionale dell'Italia spezzata in due. Nessun altro avrebbe resistito a
quello sfacelo e agli errori propri e altrui, come Vittorio Emanuele. Egli era
convinto però che non esistessero disastri irreparabili e che l'ultimo dovere
di un Sovrano fosse quello di non farsi mai scoraggiare dal momento presente
come ultimo e definitivo. Un Re incarna il principio di continuità e per
obbedirvi egli il Re di Vittorio Veneto era rimasto Re a Brindisi. Gli ci
volle, certo, una gran forza a non morire.
Nessun commento:
Posta un commento