I due bambini arrivati nella mia famiglia si
ad
attarono subito alla nuova casa. La sofferenza che avevano patito negli
ultimi tempi venne in qualche modo lenita dal calore e dall’accoglienza di
tutti noi. Essendo aumentati di numero, bisognava mangiare a turno. Elena non
si era preoccupata della nuova situazione che si era creata: bisognava solo
cucinare delle porzioni in più e rivolgere delle particolari attenzioni ai due
nuovi arrivati. Alcuni vicini avevano portato dei vestiti per i bambini, e in
tutto il paese s’era creata una gara di solidarietà per aiutarli. Il vecchio parroco era venuto a salutarli
dopo l’arrivo nella nuova casa. I bambini ricevettero anche dei giocattoli da
una mamma che ne aveva in sovrannumero. La questione della scuola era stata
subito risolta dalla maestra Silvana che li aveva inseriti nella sua classe. Si
trattava ora di portarli alla stessa preparazione dei loro coetanei: negli
ultimi mesi non avevano potuto frequentare le lezioni. Nella nuova classe i
bambini fraternizzarono facilmente, si sentirono subito accolti; doveva essere
il loro primo gradino da scalare per raggiungere una felicità che era mancata
loro da troppo tempo. Per restaurare la casa del colono, Vittorio aveva chiesto
l’aiuto di un muratore e di alcuni dei suoi operai. La ristrutturazione non
doveva dilungarsi molto, era necessario completarla entro un mese. Vittorio e
il colono Eusebio avevano trovato subito un’intesa sul da farsi. Aveva molto
gradito anche la sua richiesta di porre una statua della Madonna nella nicchia
posizionata sulla facciata della casa, ora vuota e che prima ospitava un
Santo. La nicchia fu sistemata, venne
dipinto il suo interno; il precedente proprietario non era stato così accorto,
e tutto era stato compromesso, ma nulla ci era parso impossibile. La statuetta
della Madonna fu donata dal parroco che fu ben lieto di aiutare la nuova
famiglia di Eusebio. Il curato aveva la statua in soffitta che era appartenuta
a un parrocchiano che se ne era andato dal paese e che, prima di partire, aveva
voluto donarla al parroco. Davanti a quella Madonna il donatore aveva sempre
tenuto acceso un cero e il separarsene fu un momento di dolore perché la
Vergine era stata come un faro che illuminava il suo percorso. Quando venne
collocata nella nicchia Vittorio si ricordò delle parole che aveva detto il parroco:
“Una nicchia che ospiterà per sempre una Madonna è come una luce che non si
spegnerà mai. Quando la sorte non va come vorremmo è proprio il momento a cui affidarsi
alla nostra Madre celeste”. Vittorio spesso pensava alla fortuna che aveva
avuto nel credere in Dio, e quanta forza gli aveva dato. Eusebio era felice che
la prima cosa ad essere restaurata fosse stata la nicchia, osservava la statua
come un bambino e si sentiva protetto. Nella vita aveva avuto momenti difficili
da superare, ma ora sembrava che tutto stesse per sistemarsi al meglio. Nei
giorni che seguirono Vittorio era sempre presente, e non si stancava mai di
lavorare sulla casa. Alcune stanze, fortunatamente, erano ancora in buone condizioni
anche se da tempo erano rimaste nell’incuria. Nella cucina arrivava l’acqua
limpida e fresca, grazie ad una pompa collegata con il pozzo del cortile. La
moglie del colono, Sonia, si sentiva felice perché i lavori della cucina erano
prossimi ad essere ultimati. Il camino e una stufa erano stati puliti e
preparati per l’uso. Nella cucina
vennero sistemati alcuni mobili, tra cui una vecchia tavola che Vittorio aveva
provveduto ad aggiustare con degli innesti di legno perché durante la grande
Guerra alcuni soldati nemici l’avevano danneggiata in un angolo. Sonia aveva
tolto da una cassa le vettovaglie: delle pentole, dei piatti, dei bicchieri e
una gavetta militare che non poteva essere stata usata da Eusebio perché era
troppo giovane per aver combattuto nella Grande Guerra. Eusebio mostrandogli con orgoglio la gavetta
in alluminio gli disse che un giorno gli avrebbe raccontato la sua storia,
accennò solo che una persona importante vi aveva mangiato. Nei giorni che
seguirono Eusebio ricevette da un suo parente una mucca da latte, era stata
comprata a credito. Con il tempo l’avrebbe pagata, l’uomo che gliela aveva
ceduta era un suo zio che si era sposato ma non aveva figli. Quella mucca per
ora era la cosa più importante che possedesse, gli avrebbe dato del latte per
tutta la famiglia ed anche una parte per essere venduta. La stalla che era posizionata accanto alla
casa non era molto distrutta, un tempo aveva contenuto una decina di
animali. Vittorio disse che quella mucca
non sarebbe stata a lungo sola, anche se lui non se ne intendeva di animali,
gli sembrava che aspettasse un vitellino: lo disse quasi per scherzo, come una
battuta ben augurale. Eusebio, una volta uscito dalla stalla, guardò
istintivamente verso la direzione della Madonnina, quasi a chiederLe un
miracolo. Nel frattempo Vittorio aveva riparato una trave del tetto della
stalla, rendendola più sicura. In quella stalla si respirava già un’aria di
vita, l’animale appena entrato andò subito verso la mangiatoia ed iniziò a
sfamarsi come se in quella stalla fosse stato sempre presente. Subito dopo fu
portato un secchio d’acqua del pozzo.
Nelle giornate successive Vittorio alternava la pesca con i lavori di
ristrutturazione della casa di Eusebio. La casa a poco a poco assunse un
aspetto gradevole ed accogliente. Sonia era instancabile, non vedeva l’ora che
i suoi bambini potessero ritornare a casa. Elena era stata a trovarla con i
suoi figli che avevano tanta nostalgia dei genitori. La prima cosa che i
ragazzi chiesero alla mamma, dopo averle buttato le braccia al collo, fu di
poter rientrare in famiglia al più presto, anche se erano molto riconoscenti
dell’ospitalità ricevuta fino ad allora. La casa si poteva dire che era quasi
pronta e, seppur con qualche disagio, volle che i ragazzi rimanessero già
quella sera. La curiosità dei bambini era tanta, vollero andare a vedere la
loro stanza da letto. Non c’erano tanti mobili, ma un letto a una piazza e
mezzo li avrebbe accolti. Nella stanza erano già collocati un vecchio comò e un
tavolino che in quel momento contava solo tre gambe, e Vittorio si era
impegnato a sistemarlo al più presto. Vi era, inoltre, una mensola per
collocarvi i libri. Sopra il letto era stato messo un crocifisso fatto da due
pezzetti di legno, lo avevano trovato nella stanza, e apparteneva al precedente
proprietario. Avevano tolto il Cristo, lasciando la croce. Eusebio disse che bastava pensarlo
intensamente affinché Lui fosse presente. I ragazzi furono felici perché quella
notte avrebbero dormito con la famiglia. Vittorio si sentiva contento che ai
figli fosse piaciuta la casa ristrutturata. Quello che fece impazzire i bambini
fu il vedere la mucca, che si trovava nella stalla. Una gioia davvero immensa,
e il più grande volle darle un nome: Bruna. Subito i bambini vollero incidere
il suo nome in una tavoletta di legno posta su una parete della stalla. Quella
sera si salutarono, e Eusebio e Sonia accettarono di vedersi tra qualche giorno
per una cena da Vittorio, per consolidare la loro amicizia. Il curato, assieme
al sacrestano, furono invitati alla cena in cui vennero servite delle anguille
che Vittorio aveva preso nei giorni precedenti. Quando faceva una pesca
abbonante di anguille, le metteva in una gabbia di ferro immerse nella Livenza,
e le vendeva su richiesta dei clienti. Quello era il suo tesoro, perché le
anguille avevano un buon mercato: lo considerava come un deposito bancario. Il
posto segreto dove aveva calato la gabbia era irraggiungibile da quelli che se
ne volessero impossessare. Essendo in
molti a quella cena, i ragazzi dovettero sistemarsi in una stanza accanto alla
cucina, per loro un posto che li rendeva felici, perché potevano stare lontani
dai grandi. Alla cena i più festosi era la nuova famiglia. Il sacrestano e il sacerdote dimostrarono di
gradire la polenta e le anguille, e quel vino generoso che non mancava mai
sulla tavola. Dopo aver mangiato e discusso sul futuro, venne il momento in cui
Vittorio chiese a Eusebio che gli raccontasse la storia di quella gavetta che
teneva come una reliquia. Eusebio non si fece ripetere due volte la richiesta e
disse: “Nel 1916 durante la Grande Guerra, ero un ragazzo di tredici anni. Mio
padre era partito per la guerra e si trovava al fronte, ogni tanto arrivavano
delle sue notizie e ogni volta mia madre nel vedere il postino si sentiva
felice. Amava mio padre intensamente. Un giorno venni a conoscenza che
cercavano delle persone per fare dei lavori vicino al fronte: si trattava di
scavare delle trincee, di rendersi utili per la patria. Non me lo feci ripetere
due volte e una mattina contro la volontà di madre, partii per la zona,
indicatami da un amico. Dopo un viaggio difficile finalmente arrivai a
destinazione. Venni assegnato a una
baracca assieme ad altre persone. Quel posto era raggiunto anche da delle
truppe che tornavano dal fronte. La vita che mi si era prospettata non era
facile, il lavoro era duro ma avevo un fisico forte ed allenato, nonostante la
mia giovane età. Non mi ero mai mosso dal paese e tutto quello che vedevo era davvero
interessante e nuovo. Il momento più bello della giornata consisteva nel rancio
che mangiavamo nelle gavette. Il cibo era sufficiente. Un giorno, mentre
stavamo in fila per ricevere la nostra razione di cibo, fummo attirati da un
vociare. Ci era giunta la notizia che era arrivato il Re Vittorio Emanuele III, per ispezionare
le truppe al fronte e per porgere gli auguri di Buona Pasqua. Accadde in quel
momento un fatto che non avrei mai dimenticato per tutta la vita. Nel passare
in rassegna le persone che si trovavano lì per lavorare, si fermò davanti a me,
che avevo appena ricevuto la mia gavetta con il rancio e mi chiese se il cibo era
buono. Balbettai di sì, allora il Re sorridendo mi chiese se glielo avessi
fatto assaggiare e pertanto gli porsi la gavetta. Il Re ne assaggiò alcune
cucchiaiate e disse che era ottimo. Riconsegnandomi la gavetta mi diede una
pacca sulla spalla, e mi chiese da dove venissi. Quel giorno era stato così
emozionante che sembravo una persona diversa. Quella gavetta e quel cucchiaio
li portai a casa. Qualche anno dopo fui arruolato in un reparto di cavalleria e
mi mandarono a Pinerolo. In quella caserma avevamo come comandante il genero
del Re Vittorio Emanuele III, Giorgio Calvi di Bergolo, una persona molto
gentile, un vero signore. Una sera mentre stavo con i miei amici nella
camerata, raccontai l’episodio che mi era capitato durante la Grande Guerra, ma
i miei commilitoni non volevano credere che il re avesse mangiato nella mia
gavetta. Non so come il comandante avesse sentito il mio racconto e lo espose
al re in persona che sorrise e non ricordava dove fosse avvenuto il fatto. Un
giorno stavamo schierati in attesa che il re, venuto a vistare la caserma, ci
passasse in rassegna e quando arrivò davanti a me, si fermò e mi chiese se lo
conoscessi. Lo avevo visto anni prima e mi parve uguale, e gli risposi che
nella mia casa avevo una gavetta e un cucchiaio dove egli aveva mangiato.
Davanti a tutto il reggimento schierato mi chiese dove fosse accaduto questo, e
avuta risposta, continuò la sua rassegna. Dall’emozione mi tremavano persino le
gambe. Quella stessa sera il mio comandante mi disse che il re mi assegnava una
licenza di qualche settimana e una medaglia”. Alla fine del racconto venne
aperta una bottiglia di vino e tutti brindammo
a casa Savoia.
sabato 3 dicembre 2022
Capitolo XXVIII: La famiglia di Vittorio si ingrandisce
di Emilio Del Bel Belluz
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento