NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 3 dicembre 2022

Capitolo XXVIII: La famiglia di Vittorio si ingrandisce

di Emilio Del Bel Belluz

 

 I due bambini arrivati nella mia famiglia si ad
attarono subito alla nuova casa. La sofferenza che avevano patito negli ultimi tempi venne in qualche modo lenita dal calore e dall’accoglienza di tutti noi. Essendo aumentati di numero, bisognava mangiare a turno. Elena non si era preoccupata della nuova situazione che si era creata: bisognava solo cucinare delle porzioni in più e rivolgere delle particolari attenzioni ai due nuovi arrivati. Alcuni vicini avevano portato dei vestiti per i bambini, e in tutto il paese s’era creata una gara di solidarietà per aiutarli.  Il vecchio parroco era venuto a salutarli dopo l’arrivo nella nuova casa. I bambini ricevettero anche dei giocattoli da una mamma che ne aveva in sovrannumero. La questione della scuola era stata subito risolta dalla maestra Silvana che li aveva inseriti nella sua classe. Si trattava ora di portarli alla stessa preparazione dei loro coetanei: negli ultimi mesi non avevano potuto frequentare le lezioni. Nella nuova classe i bambini fraternizzarono facilmente, si sentirono subito accolti; doveva essere il loro primo gradino da scalare per raggiungere una felicità che era mancata loro da troppo tempo. Per restaurare la casa del colono, Vittorio aveva chiesto l’aiuto di un muratore e di alcuni dei suoi operai. La ristrutturazione non doveva dilungarsi molto, era necessario completarla entro un mese. Vittorio e il colono Eusebio avevano trovato subito un’intesa sul da farsi. Aveva molto gradito anche la sua richiesta di porre una statua della Madonna nella nicchia posizionata sulla facciata della casa, ora vuota e che prima ospitava un Santo.  La nicchia fu sistemata, venne dipinto il suo interno; il precedente proprietario non era stato così accorto, e tutto era stato compromesso, ma nulla ci era parso impossibile. La statuetta della Madonna fu donata dal parroco che fu ben lieto di aiutare la nuova famiglia di Eusebio. Il curato aveva la statua in soffitta che era appartenuta a un parrocchiano che se ne era andato dal paese e che, prima di partire, aveva voluto donarla al parroco. Davanti a quella Madonna il donatore aveva sempre tenuto acceso un cero e il separarsene fu un momento di dolore perché la Vergine era stata come un faro che illuminava il suo percorso. Quando venne collocata nella nicchia Vittorio si ricordò delle parole che aveva detto il parroco: “Una nicchia che ospiterà per sempre una Madonna è come una luce che non si spegnerà mai. Quando la sorte non va come vorremmo è proprio il momento a cui affidarsi alla nostra Madre celeste”. Vittorio spesso pensava alla fortuna che aveva avuto nel credere in Dio, e quanta forza gli aveva dato. Eusebio era felice che la prima cosa ad essere restaurata fosse stata la nicchia, osservava la statua come un bambino e si sentiva protetto. Nella vita aveva avuto momenti difficili da superare, ma ora sembrava che tutto stesse per sistemarsi al meglio. Nei giorni che seguirono Vittorio era sempre presente, e non si stancava mai di lavorare sulla casa. Alcune stanze, fortunatamente, erano ancora in buone condizioni anche se da tempo erano rimaste nell’incuria. Nella cucina arrivava l’acqua limpida e fresca, grazie ad una pompa collegata con il pozzo del cortile. La moglie del colono, Sonia, si sentiva felice perché i lavori della cucina erano prossimi ad essere ultimati. Il camino e una stufa erano stati puliti e preparati per l’uso.  Nella cucina vennero sistemati alcuni mobili, tra cui una vecchia tavola che Vittorio aveva provveduto ad aggiustare con degli innesti di legno perché durante la grande Guerra alcuni soldati nemici l’avevano danneggiata in un angolo. Sonia aveva tolto da una cassa le vettovaglie: delle pentole, dei piatti, dei bicchieri e una gavetta militare che non poteva essere stata usata da Eusebio perché era troppo giovane per aver combattuto nella Grande Guerra.  Eusebio mostrandogli con orgoglio la gavetta in alluminio gli disse che un giorno gli avrebbe raccontato la sua storia, accennò solo che una persona importante vi aveva mangiato. Nei giorni che seguirono Eusebio ricevette da un suo parente una mucca da latte, era stata comprata a credito. Con il tempo l’avrebbe pagata, l’uomo che gliela aveva ceduta era un suo zio che si era sposato ma non aveva figli. Quella mucca per ora era la cosa più importante che possedesse, gli avrebbe dato del latte per tutta la famiglia ed anche una parte per essere venduta.  La stalla che era posizionata accanto alla casa non era molto distrutta, un tempo aveva contenuto una decina di animali.  Vittorio disse che quella mucca non sarebbe stata a lungo sola, anche se lui non se ne intendeva di animali, gli sembrava che aspettasse un vitellino: lo disse quasi per scherzo, come una battuta ben augurale. Eusebio, una volta uscito dalla stalla, guardò istintivamente verso la direzione della Madonnina, quasi a chiederLe un miracolo. Nel frattempo Vittorio aveva riparato una trave del tetto della stalla, rendendola più sicura. In quella stalla si respirava già un’aria di vita, l’animale appena entrato andò subito verso la mangiatoia ed iniziò a sfamarsi come se in quella stalla fosse stato sempre presente. Subito dopo fu portato un secchio d’acqua del pozzo.  Nelle giornate successive Vittorio alternava la pesca con i lavori di ristrutturazione della casa di Eusebio. La casa a poco a poco assunse un aspetto gradevole ed accogliente. Sonia era instancabile, non vedeva l’ora che i suoi bambini potessero ritornare a casa. Elena era stata a trovarla con i suoi figli che avevano tanta nostalgia dei genitori. La prima cosa che i ragazzi chiesero alla mamma, dopo averle buttato le braccia al collo, fu di poter rientrare in famiglia al più presto, anche se erano molto riconoscenti dell’ospitalità ricevuta fino ad allora. La casa si poteva dire che era quasi pronta e, seppur con qualche disagio, volle che i ragazzi rimanessero già quella sera. La curiosità dei bambini era tanta, vollero andare a vedere la loro stanza da letto. Non c’erano tanti mobili, ma un letto a una piazza e mezzo li avrebbe accolti. Nella stanza erano già collocati un vecchio comò e un tavolino che in quel momento contava solo tre gambe, e Vittorio si era impegnato a sistemarlo al più presto. Vi era, inoltre, una mensola per collocarvi i libri. Sopra il letto era stato messo un crocifisso fatto da due pezzetti di legno, lo avevano trovato nella stanza, e apparteneva al precedente proprietario. Avevano tolto il Cristo, lasciando la croce.  Eusebio disse che bastava pensarlo intensamente affinché Lui fosse presente. I ragazzi furono felici perché quella notte avrebbero dormito con la famiglia. Vittorio si sentiva contento che ai figli fosse piaciuta la casa ristrutturata. Quello che fece impazzire i bambini fu il vedere la mucca, che si trovava nella stalla. Una gioia davvero immensa, e il più grande volle darle un nome: Bruna. Subito i bambini vollero incidere il suo nome in una tavoletta di legno posta su una parete della stalla. Quella sera si salutarono, e Eusebio e Sonia accettarono di vedersi tra qualche giorno per una cena da Vittorio, per consolidare la loro amicizia. Il curato, assieme al sacrestano, furono invitati alla cena in cui vennero servite delle anguille che Vittorio aveva preso nei giorni precedenti. Quando faceva una pesca abbonante di anguille, le metteva in una gabbia di ferro immerse nella Livenza, e le vendeva su richiesta dei clienti. Quello era il suo tesoro, perché le anguille avevano un buon mercato: lo considerava come un deposito bancario. Il posto segreto dove aveva calato la gabbia era irraggiungibile da quelli che se ne volessero impossessare.  Essendo in molti a quella cena, i ragazzi dovettero sistemarsi in una stanza accanto alla cucina, per loro un posto che li rendeva felici, perché potevano stare lontani dai grandi. Alla cena i più festosi era la nuova famiglia.  Il sacrestano e il sacerdote dimostrarono di gradire la polenta e le anguille, e quel vino generoso che non mancava mai sulla tavola. Dopo aver mangiato e discusso sul futuro, venne il momento in cui Vittorio chiese a Eusebio che gli raccontasse la storia di quella gavetta che teneva come una reliquia. Eusebio non si fece ripetere due volte la richiesta e disse: “Nel 1916 durante la Grande Guerra, ero un ragazzo di tredici anni. Mio padre era partito per la guerra e si trovava al fronte, ogni tanto arrivavano delle sue notizie e ogni volta mia madre nel vedere il postino si sentiva felice. Amava mio padre intensamente. Un giorno venni a conoscenza che cercavano delle persone per fare dei lavori vicino al fronte: si trattava di scavare delle trincee, di rendersi utili per la patria. Non me lo feci ripetere due volte e una mattina contro la volontà di madre, partii per la zona, indicatami da un amico. Dopo un viaggio difficile finalmente arrivai a destinazione.  Venni assegnato a una baracca assieme ad altre persone. Quel posto era raggiunto anche da delle truppe che tornavano dal fronte. La vita che mi si era prospettata non era facile, il lavoro era duro ma avevo un fisico forte ed allenato, nonostante la mia giovane età. Non mi ero mai mosso dal paese e tutto quello che vedevo era davvero interessante e nuovo. Il momento più bello della giornata consisteva nel rancio che mangiavamo nelle gavette. Il cibo era sufficiente. Un giorno, mentre stavamo in fila per ricevere la nostra razione di cibo, fummo attirati da un vociare. Ci era giunta la notizia che era arrivato   il Re Vittorio Emanuele III, per ispezionare le truppe al fronte e per porgere gli auguri di Buona Pasqua. Accadde in quel momento un fatto che non avrei mai dimenticato per tutta la vita. Nel passare in rassegna le persone che si trovavano lì per lavorare, si fermò davanti a me, che avevo appena ricevuto la mia gavetta con il rancio e mi chiese se il cibo era buono. Balbettai di sì, allora il Re sorridendo mi chiese se glielo avessi fatto assaggiare e pertanto gli porsi la gavetta. Il Re ne assaggiò alcune cucchiaiate e disse che era ottimo. Riconsegnandomi la gavetta mi diede una pacca sulla spalla, e mi chiese da dove venissi. Quel giorno era stato così emozionante che sembravo una persona diversa. Quella gavetta e quel cucchiaio li portai a casa. Qualche anno dopo fui arruolato in un reparto di cavalleria e mi mandarono a Pinerolo. In quella caserma avevamo come comandante il genero del Re Vittorio Emanuele III, Giorgio Calvi di Bergolo, una persona molto gentile, un vero signore. Una sera mentre stavo con i miei amici nella camerata, raccontai l’episodio che mi era capitato durante la Grande Guerra, ma i miei commilitoni non volevano credere che il re avesse mangiato nella mia gavetta. Non so come il comandante avesse sentito il mio racconto e lo espose al re in persona che sorrise e non ricordava dove fosse avvenuto il fatto. Un giorno stavamo schierati in attesa che il re, venuto a vistare la caserma, ci passasse in rassegna e quando arrivò davanti a me, si fermò e mi chiese se lo conoscessi. Lo avevo visto anni prima e mi parve uguale, e gli risposi che nella mia casa avevo una gavetta e un cucchiaio dove egli aveva mangiato. Davanti a tutto il reggimento schierato mi chiese dove fosse accaduto questo, e avuta risposta, continuò la sua rassegna. Dall’emozione mi tremavano persino le gambe. Quella stessa sera il mio comandante mi disse che il re mi assegnava una licenza di qualche settimana e una medaglia”. Alla fine del racconto venne aperta una bottiglia di vino e tutti brindammo   a casa Savoia.

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