Riesce difficile a noi, oggi, dopo Mussolini, renderci conto dell'efficacia e della presenza del Re nella vita politica del Paese. La dittatura fascista ha trasmesso molte cattive, se non le peggiori, sue qualità alla vigente democrazia e tra queste anche il gusto del governo personale, del pratico annullamento della figura e funzione del Capo dello Stato. Drammatici particolari si apprenderanno da chi vorrà narrarli, sui conflitti tra Enrico de Nicola «capo provvisorio» e il presidente del consiglio Alcide de Gasperi, nel periodo seguente al a referendum del 2 giugno 1946: né si esclude che quel malessere costituzionale non si sia perpetuato con l'insediamento al Quirinale di un Presidente della Repubblica. La trascorsa democrazia non si faceva un problema dei rapporti tra il Capo dello Stato e il Presidente del Consiglio: essi erano regolati dallo Statuto, oltre che dalla fedeltà al Paese; non dall'osservanza agli interessi del proprio Partito. Nei peggiori momenti (si parla della crisi insorta attorno al dilemma sulla neutralità e l'intervento, nel 1911-15) tra il «dittatore» Giolitti e il Re, fu solo questione di «come» portare in buon porto la pericolante barca. Voglio dire che altre forze non interferivano a colorire di «europeismo» o di «universalismo cattolico» o di «internazionalismo», dei due tipi, gli interessi reali e permanenti dell'Italia. Noi abbiamo visto e vediamo scorrere sotto i nostri occhi una politica estera alla quale sono assai più interessati i paesi stranieri che il popolo italiano. Vediamo gli italiani esortati ad accettare uno stato di fatto assai simile a quello del «particulare» guicciardiniano; la morale del «Franza o Spagna... » con quel che segue sostituisce, poiché tutti i tentativi di risvegliarlo sono anche per legge puniti severamente, «quello spirito nazionale», non sinonimo di nazionalismo ma di qualche cosa di più e di meglio. Vittorio Emanuele attribuiva alla Triplice e alla politica estera «occidentale» dei suoi governi dei valori pratici e, a volte, immediatamente pratici. Bisognerebbe studiare con le statistiche alla mano i rapporti tra le esportazioni in Austria e in Germania dei vini pugliesi, toscani e piemontesi e l'Alleanza con gli Imperi centrali.
La ricostituzione dei vigneti ungheresi e la produzione su scala mondiale dei Tokaj influirono molto sulla discesa in guerra dell'Italia accanto all'Intesa. Così per la politica francofila di Prinetti e di Visconti Venosta: l'apertura del mercato borsistico di Parigi alla manovra della conversione della rendita aiutò potentemente, come dicono i rapporti di Barrère, la politica di «ralliément» di Palazzo Farnese, suggerita dallo Stato Maggiore. Anche il mercato delle vacche sui territori africani, dopo che esclusi dal Marocco ed esclusi dall'Egitto dovemmo accettare lo «scatolone di sabbia», non era più imperialismo di quel che fosse la spedizione d'Etiopia del 1935; non era altro che il proseguimento della politica dell'emigrazione adottata dal Re Vittorio e dai suoi governi, anche controvoglia, come Giolitti che dovrà pure condurre a buon fine la spedizione di Tripoli.
Ad aiutare il Re concorrevano in parte le istanze irredentistiche. I due imperatori associati e le loro cancellerie non ignoravano le simpatie franco russe di Vittorio e di Elena: anzi quel matrimonio con la principessa del Montenegro voleva dire più che non dicesse e giornali come osservatori austriaci ne avevano già parlato con diffidenza.
Un acuto risentimento personale per la mancata restituzione della visita di Francesco Giuseppe a Umberto I, impronterà poi tutta l'influenza che Re Vittorio eserciterà sulle relazioni con Vienna. Viaggi e brindisi di capi di Stato nell'Europa prima del luglio '14 descrivevano agli occhi del mondo lo stato d'animo delle nazioni. È interessante osservare nel carteggio diplomatico quanta importanza si attribuisse allora ad un aggettivo o ad un'allusione; tenendosi in gran conto, allora, le parole.
Il giro delle capitali iniziato da Vittorio Emanuele il 10 luglio 1902 (l'accompagnava il francofilo Prinetti, ministro degli esteri), da Pietroburgo passò per Berlino senza toccare Vienna. Alla stazione di Trento, in territorio austriaco il treno reale venne acclamato dalla popolazione. Era un primo contatto con l'irredentismo attivo; il secondo, agosto del 1903, avvenne al confine goriziano dove il Re aveva ordinato di effettuare le grandi manovre dell'Esercito e le folle, accorse da Gorizia e da Trieste, salutarono il «loro» Re. «Non si può andare avanti» disse Golucowsky; e Francesco Giuseppe a Bulow: «Le dimostrazioni dei goriziani a Vittorio Emanuele sono una sfida alla mia pazienza». I dispiaceri di Francesco Giuseppe non dispiacevano del tutto a Guglielmo II che nel maggio 1903 venne in Italia a restituire la visita. Con Nicola II andò diversamente. Le manifestazioni dell'estrema sinistra e delle masse operaie contro il «boia russo» e qualche pettegolezzo attorno alle dichiarazioni di Vittorio Emanuele sull'atmosfera carica di terrore poliziesco delle città zariste raffreddarono per un po' la relazione, sostanzialmente antitriplicista, che andava stabilendosi con la Russia, sotto l'occhio amichevole di Barrère. Indubbiamente l'irredentismo avrebbe potuto offrire a Vittorio Emanuele mille pretesti per denunciare la Triplice. Ma era votarsi ad un disprezzato e irreparabile isolamento. Riconfermare i principii e la vitalità di quell'Alleanza era necessario, di volta in volta. Così Tittoni, accusato dalle sinistre di piegarsi al ruolo di testa di legno della politica estera del Quirinale parlò di «dilettantismo irredentista universitario e parlamentare» a proposito dei moti di Innsbruck (maggio e novembre 1903) durante i quali, tra gli altri, venne ferito Cesare Battisti.
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