NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 18 dicembre 2022

Il Re, i Soldati, il Generale che vinse, VII parte

 


Era una democrazia, se ci si passa il paragone, non distorta e rimodellata, al modo dei piedi, cinesi, negli stampi di ferro dei grandi partiti. Lo stesso socialismo che presto mostrerà le sue tare scismatiche non riuscirà mai a raggiungere la stabilità di grande partito e solo nel periodo della direzione di Mussolini l’Avanti! raggiungerà le sessantamila copie di tiratura.

Quella democrazia del quindicennio conservava, così, tutta l'agilità necessaria al gioco del proprio attuarsi. Anche se corrotti o dalle umane ambizioni e vanità o dalle loro passioni e dall'affigliazione all'idolo Giolitti (il «sinistro della malavita») gli italiani serbarono intatto il principio della fedeltà al loro paese, ch'era tutt'uno con altri principi comuni a repubblicani e monarchici, a Mazzini e Cavour, a Gioberti e a Garibaldi e, persino, alla vigilia dell'Internazionale, ai marxisti e sindacalisti che videro la guerra come un prolungamento della lotta di classe (Italia proletaria contro Imperialismo tedesco e austriaco), in cui le armi venivano fornite agli operai e ai contadini dal governo del Re. Il rivoluzionario Giuseppe Di Vittorio baciò la bandiera sabauda sulla piazza di Cerignola prima di partire bersagliere e il rivoluzionario Mussolini strinse la mano del Re in un ospedaletto da campo. Quella guerra faceva gli italiani e completava l'Italia: era un ideale (se possiamo ancora adoperare questa logora parola) pertinente al senso comune: tutti lo afferravano, in altri termini. Anche se l'eloquenza e le tragedie di d'Annunzio contribuivano a imbrogliare, accendendole, le fantasie degli italiani, gli italiani capivano all'ingrosso, che si trattava di una faccenda seria: completare la loro indipendenza e aprirsi ad una più libera vita economica europea.

Negli atti, nei pensieri, nelle parole degli uomini — di quasi tutti gli uomini eminenti di «quella democrazia» — si scopre una rigorosa coerenza. L'unità morale degli italiani offri resistenze insospettate in occasione del disastro di Caporetto in cui sì volle, per amore di polemica, ricercare le responsabilità assai più nell'ambito della politica interna che in quella della mera condotta tecnica e psicologica della guerra Un più freddo esame, come è mostrato nel testo, indica il vero 'valore (che non contrasta o spezza l'omogeneità della democrazia di quel tempo) di taluni deprecatissimi giudizi e discorsi, come quello del Treves, nell'estate del 1917. Della lettera circolare di Benedetto XV ai capi dei belligeranti si vedrà quale giudizio, anche se non tenero delle influenze vaticane, lo stesso Vittorio Emanuele dette a Lloyd George e ai ministri e generali alleati a Peschiera.

La vita dello stato e la nostra storia si svolgevano secondo ragione: si continuava la drammatica lotta per l'indipendenza, il processo formativo del Risorgimento confluiva nel lavorio di trasformazione della società italiana, già tratta dalla rivoluzione liberale dai suoi stati» economici medioevali e avviata per vigorosi e, a volte, tragici, impulsi delle correnti socialistiche a conquiste sempre più larghe.

Questa «trasformazione» fu il motivo dominante del lungo regno di Vittorio Emanuele III. Per accelerarla i suoi governi favorirono il sorgere è l'affermarsi di una borghesia industriale nel settentrione, arbitra traverso il pilotaggio delle masse, della vita economica del Paese; per offrirle lavoro e spazio, si imbarcarono nelle imprese coloniali e per allargare (« il sacro egoismo ») le possibilità di espansione economica di fronte alla gigantesca incombente industria germanica., l'Italia entrò nella coalizione occidentale, destinata (nelle sue ultime finalità) a ridurre il potenziale produttivo tedesco e a dissolvere l'impero austro ungarico in unità nazionali, facili, ulteriori mercati per le potenze vincitrici.

Il Patto di Londra e i compensi in Africa allargavano le possibilità di una colonizzazione «interna», che poi, il Fascismo effettuò razionalmente; i diritti di prelazione dell'Italia sull'Etiopia restavano intatti. Il complesso di queste finalità non mutò nel periodo di «sospensione» della democrazia, nel ventennio 1922-1943. Mussolini riassunse i motivi delineati nella politica estera italiana dall'avvento all'intervento e li svolse. Appare sempre più ovvio il sarcasmo dell'imperialismo» di quella politica che sebbene dell'imperialismo recasse i segni esteriori usciva dal Patto di Londra e persino, indirettamente, dal «parecchio» giolittiano. Sulla via di quell'u imperialismo» non ci spingevano, come denuncia Miti, le stesse potenze occidentali, democratiche e liberali, suggerendo una spedizione nientemeno che in Georgia, alla quale — eterni illusi — ci preparammo, persino, e vi profondemmo inutilmente il denaro pubblico?

Come non condivise e non approvò, probabilmente, le idee di suo Padre, Vittorio Emanuele III non mostrò simpatie per la Triplice e una volta Re cominciò a demolirla lentamente.

Il trattato, in effetti, aveva apportato all'Europa e all'Italia un trentennio di pace e di prosperità. Ma prendeva in termini di libertà quanto offriva in termini di sicurezza e di benessere.

All'ombra della Triplice l'Italia compì la conversione della rendita e l'assodamento di una struttura statale che il regno di Umberto I, tra moti sociali e guerra d'Africa, aveva notevolmente indebolita. Probabilmente, però, le forze rivoluzionarie che tendevano a disgregare la Triplice ripetevano i loro caratteri storici dall'anno 1848. Sotto questo punto di vista Re Vittorio interpretava nel senso più genuino la funzione e le origini del suo potere nato dalla rivoluzione liberale. I due Imperatori associati non s'illusero mai molto sui suoi sentimenti, sebbene Guglielmo abbia sperato sino agli estremi aneliti dell'Alleanza, telegrafando al re d'Italia: «Ho la più completa fiducia in Te» e l'altro, evadendo abilmente, a riaffermargli essere l'Italia intenzionata a rimanere in pace e in amicizia con «tutti ».

Erano le parole con le quali iniziò la politica estera del suo Regno (11 agosto 1900) nella constatazione dell'unanimità di cordoglio fattasi sulla salma di suo padre. Era già una dichiarazione di neutralità quel proporre l'Italia come «efficace strumento di concordia» tra le nazioni. Dopo meno di un anno un ingegnere e commerciante milanese, il Prinetti, va a ministro degli esteri. Il programma del Governo (Zanardelli presidente e Giolitti agli Interni) conteneva la dichiarazione concordata col Re: «serbare fede ai trattati e intrattenere rapporti di amicizia cordiale con tutte le Potenze». Era quella politica che venne detta dei due ferri al fuoco » o, con minore eleganza, del «cane del giardiniere»; solo più tardi Bulow la dirà del «giro di valzer» e Giolitti, impagabilmente, del «ballo sulle uova»; in definitiva la politica di un paese a limitata indipendenza.

Vittorio Emanuele favorì in ogni modo chi potesse aiutarlo a rendere sempre più larga quest'indipendenza. Il suo intervento personale e costituzionale nelle decisioni maggiori non è più da provarsi. Il Re regnava e crisi di poteri sino alla «sospensione» del ventennio non se ne verificarono più. Il «torniamo allo Statuto» del Sonnino aveva ridato colore e corpo alla figura piuttosto pallida del Capo dello Stato; la personalità forte e dura, pratica e precisa di Re Vittorio quei poteri rendeva più efficaci ed effettivi con l'esercizio di una sovranità dinamica non soltanto nell'esteriore ma nel significato e nelle conseguenze politiche di certe azioni.

Nessun commento:

Posta un commento