Era una democrazia, se ci si
passa il paragone, non distorta e rimodellata, al modo dei piedi, cinesi, negli
stampi di ferro dei grandi partiti. Lo stesso socialismo che presto mostrerà le
sue tare scismatiche non riuscirà mai a raggiungere la stabilità di grande
partito e solo nel periodo della direzione di Mussolini l’Avanti! raggiungerà
le sessantamila copie di tiratura.
Quella democrazia del
quindicennio conservava, così, tutta l'agilità necessaria al gioco del proprio
attuarsi. Anche se corrotti o dalle umane ambizioni e vanità o dalle loro
passioni e dall'affigliazione all'idolo Giolitti (il «sinistro della malavita»)
gli italiani serbarono intatto il principio della fedeltà al loro paese, ch'era
tutt'uno con altri principi comuni a repubblicani e monarchici, a Mazzini e
Cavour, a Gioberti e a Garibaldi e, persino, alla vigilia dell'Internazionale,
ai marxisti e sindacalisti che videro la guerra come un prolungamento della
lotta di classe (Italia proletaria contro Imperialismo tedesco e austriaco), in
cui le armi venivano fornite agli operai e ai contadini dal governo del Re. Il
rivoluzionario Giuseppe Di Vittorio baciò la bandiera sabauda sulla piazza di Cerignola
prima di partire bersagliere e il rivoluzionario Mussolini strinse la mano del
Re in un ospedaletto da campo. Quella guerra faceva gli italiani e completava
l'Italia: era un ideale (se possiamo ancora adoperare questa logora parola)
pertinente al senso comune: tutti lo afferravano, in altri termini. Anche se
l'eloquenza e le tragedie di d'Annunzio contribuivano a imbrogliare,
accendendole, le fantasie degli italiani, gli italiani capivano all'ingrosso,
che si trattava di una faccenda seria: completare la loro indipendenza e
aprirsi ad una più libera vita economica europea.
Negli atti, nei pensieri,
nelle parole degli uomini — di quasi tutti gli uomini eminenti di «quella
democrazia» — si scopre una rigorosa coerenza. L'unità morale degli italiani
offri resistenze insospettate in occasione del disastro di Caporetto in cui sì
volle, per amore di polemica, ricercare le responsabilità assai più nell'ambito
della politica interna che in quella della mera condotta tecnica e psicologica
della guerra Un più freddo esame, come è mostrato nel testo, indica il vero
'valore (che non contrasta o spezza l'omogeneità della democrazia di quel
tempo) di taluni deprecatissimi giudizi e discorsi, come quello del Treves,
nell'estate del 1917. Della lettera circolare di Benedetto XV ai capi dei
belligeranti si vedrà quale giudizio, anche se non tenero delle influenze
vaticane, lo stesso Vittorio Emanuele dette a Lloyd George e ai ministri e
generali alleati a Peschiera.
La vita dello stato e la
nostra storia si svolgevano secondo ragione: si continuava la drammatica lotta
per l'indipendenza, il processo formativo del Risorgimento confluiva nel
lavorio di trasformazione della società italiana, già tratta dalla rivoluzione
liberale dai suoi stati» economici medioevali e avviata per vigorosi e, a
volte, tragici, impulsi delle correnti socialistiche a conquiste sempre più
larghe.
Questa «trasformazione» fu il
motivo dominante del lungo regno di Vittorio Emanuele III. Per accelerarla i
suoi governi favorirono il sorgere è l'affermarsi di una borghesia industriale
nel settentrione, arbitra traverso il pilotaggio delle masse, della vita
economica del Paese; per offrirle lavoro e spazio, si imbarcarono nelle imprese
coloniali e per allargare (« il sacro egoismo ») le possibilità di espansione
economica di fronte alla gigantesca incombente industria germanica., l'Italia
entrò nella coalizione occidentale, destinata (nelle sue ultime finalità) a
ridurre il potenziale produttivo tedesco e a dissolvere l'impero austro
ungarico in unità nazionali, facili, ulteriori mercati per le potenze
vincitrici.
Il Patto di Londra e i
compensi in Africa allargavano le possibilità di una colonizzazione «interna»,
che poi, il Fascismo effettuò razionalmente; i diritti di prelazione dell'Italia
sull'Etiopia restavano intatti. Il complesso di queste finalità non mutò nel
periodo di «sospensione» della democrazia, nel ventennio 1922-1943. Mussolini
riassunse i motivi delineati nella politica estera italiana dall'avvento
all'intervento e li svolse. Appare sempre più ovvio il sarcasmo dell'imperialismo»
di quella politica che sebbene dell'imperialismo recasse i segni esteriori
usciva dal Patto di Londra e persino, indirettamente, dal «parecchio»
giolittiano. Sulla via di quell'u imperialismo» non ci spingevano, come
denuncia Miti, le stesse potenze occidentali, democratiche e liberali,
suggerendo una spedizione nientemeno che in Georgia, alla quale — eterni illusi
— ci preparammo, persino, e vi profondemmo inutilmente il denaro pubblico?
Come non condivise e non
approvò, probabilmente, le idee di suo Padre, Vittorio Emanuele III non mostrò
simpatie per la Triplice e una volta Re cominciò a demolirla lentamente.
Il trattato, in effetti, aveva
apportato all'Europa e all'Italia un trentennio di pace e di prosperità. Ma
prendeva in termini di libertà quanto offriva in termini di sicurezza e di
benessere.
All'ombra della Triplice
l'Italia compì la conversione della rendita e l'assodamento di una struttura
statale che il regno di Umberto I, tra moti sociali e guerra d'Africa, aveva
notevolmente indebolita. Probabilmente, però, le forze rivoluzionarie che
tendevano a disgregare la Triplice ripetevano i loro caratteri storici
dall'anno 1848. Sotto questo punto di vista Re Vittorio interpretava nel senso
più genuino la funzione e le origini del suo potere nato dalla rivoluzione
liberale. I due Imperatori associati non s'illusero mai molto sui suoi sentimenti,
sebbene Guglielmo abbia sperato sino agli estremi aneliti dell'Alleanza, telegrafando
al re d'Italia: «Ho la più completa fiducia in Te» e l'altro, evadendo
abilmente, a riaffermargli essere l'Italia intenzionata a rimanere in pace e in
amicizia con «tutti ».
Erano le parole con le quali
iniziò la politica estera del suo Regno (11 agosto 1900) nella constatazione
dell'unanimità di cordoglio fattasi sulla salma di suo padre. Era già una
dichiarazione di neutralità quel proporre l'Italia come «efficace strumento di
concordia» tra le nazioni. Dopo meno di un anno un ingegnere e commerciante
milanese, il Prinetti, va a ministro degli esteri. Il programma del Governo
(Zanardelli presidente e Giolitti agli Interni) conteneva la dichiarazione
concordata col Re: «serbare fede ai trattati e intrattenere rapporti di
amicizia cordiale con tutte le Potenze». Era quella politica che venne detta
dei due ferri al fuoco » o, con minore eleganza, del «cane del giardiniere»;
solo più tardi Bulow la dirà del «giro di valzer» e Giolitti, impagabilmente,
del «ballo sulle uova»; in definitiva la politica di un paese a limitata
indipendenza.
Vittorio Emanuele favorì in
ogni modo chi potesse aiutarlo a rendere sempre più larga quest'indipendenza.
Il suo intervento personale e costituzionale nelle decisioni maggiori non è più
da provarsi. Il Re regnava e crisi di poteri sino alla «sospensione» del
ventennio non se ne verificarono più. Il «torniamo allo Statuto» del Sonnino
aveva ridato colore e corpo alla figura piuttosto pallida del Capo dello Stato;
la personalità forte e dura, pratica e precisa di Re Vittorio quei poteri
rendeva più efficaci ed effettivi con l'esercizio di una sovranità dinamica non
soltanto nell'esteriore ma nel significato e nelle conseguenze politiche di
certe azioni.
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