Il nome del generale Armando Diaz, tratto dalla oscurità di un comando di corpo d'armata, apparve all'improvviso in primo piano.
Si vedrà nel testo, per quali
vie si concretasse quella decisione, sebbene non tutte le circostanze siano
chiare. Vittorio Emanuele si vantò della scelta come di un personale successo
(ed effettivamente lo era), ma la natura di questa scelta e i criteri che la
dettarono rimasero imprecisati. In distanza possiamo dire ch'essa partecipava
tanto di una ispirazione improvvisa quanto di una meditata riserva mentale. Il
«Re fotografo», dimostrò di essere effettivamente il «Re vittorioso».
L'episodio in sé, contribuisce
a chiarire ancora una volta l'interventismo risolutivo del carattere di Re
Vittorio. Egli, quasi sempre scarsamente fiducioso negli altri, impiegava —
alla fine — i poteri a sua disposizione per «muovere» la storia del suo Regno.
In questo senso non si capisce come possa attribuirglisi un «partito di corte»,
simile a quello che Umberto I tollerò ed ebbe. Vittorio Emanuele III « regnò»,
ma in talune circostanze emergenti «governò» poiché toccava a lui. Nessuno
penserà che la crisi di Caporetto sia stata superata dall'on. Orlando o la
liquidazione del fascismo determinata dal duca d' Acquarone che eseguiva, non
si sa ancora se bene o male, ordini precisi.
Né la cosiddetta «dittatura»
di Giolitti può considerarsi e capirsi «fuori» della diretta influenza del Re
Vittorio, che per un lungo decennio e più controllò Mussolini direttamente e,
dobbiamo crederlo, in termini non blandi se il dramma della Diarchia (al quale
era sfuggito Giolitti) si annunciò tanto presto e così virulento.
Dalle righe seguenti si vedrà come
si pervenne alla demolizione della Triplice alleanza e si potrà osservare,
sebbene di volata ed esposto con inevitabile aridità, quel quindicennio della
politica estera in cui non si saprebbe ignorare il costante, attentissimo e,
direi, esclusivo contributo del Re.
Difficilissima politica quella
delle «alleanze» e delle «amicizie»: alleanze con le Potenze centrali e
amicizie con l'Intesa occidentale. Si trattava di resistere alla lusinga sempre
più perentoria dell'«invincibilità» tedesca e austroungarica e a non «credere»
a quella, troppo interessata ai fatti compiuti, della Francia. Tutto ciò mentre
crisi sociali (ch'erano crisi di crescenza) non contribuivano al «prestigio»
così detto dell'Italia e gli ambasciatori stranieri (compreso lo stesso
Barrère, pur così assiduo corteggiatore delle simpatie italiane) tenevano nei
nostri confronti un linguaggio da sprezzanti ospiti di colonie tropicali.
In qualche modo il Re che
capiva di dover avviare alla vita statale le masse contadine e quelle operaie,
di più complessa composizione, non si preoccupò del «prestigio».
I termini della politica
estera italiana nel quindicennio tra l'avvento al trono e l'intervento,
recavano nomi assai più concreti e sostanziosi: si chiamavano «conversione
della rendita», a risoluzione di massima dei problemi operai», a «posto al sole»,
in Africa, identificazione di finalità pratiche che troviamo, quasi tutte,
nelle scarne linee delle memorie di Giovanni Giolitti.
Quelle finalità non cesseranno
con la sospensione degli ordinamenti liberali del ventennio fascista: verranno
perseguite dal Mussolini al quale, effettivamente, nell'animo di molti in
Italia si prestò sin quasi allo spirare del primo decennio fascista,
l'intenzione di adottare come uniforme, sebbene di taglio aggiornato, il
palamidone di Giolitti. Preferì, ahinoi, i gradi di caporale di onore.
Quella indifferenza al «prestigio»,
in un mondo in cui la corsa agli armamenti era cominciata il giorno della
presentazione a Napoleone III del primo cannone Krupp a tiro rapido, veniva
compensata dalla crescente forza militare e specialmente navale dell'Italia. La
guerra dì Tripoli, inizio del ciclo di guerre continentali non ancora chiuso,
controllata dalla diplomazia franco inglese da un lato, austro tedesca
dall'altro (a il ballo sulle uova» di cui parla il Giolitti) servì a porre in
allarme l'Inghilterra per quello, che, sul mare, gli italiani, se non allora,
avrebbero più tardi dimostrato di saper fare.
L'amicizia dell'Italia in un
eventuale conflitto contro le Potenze centrali o qualsiasi altro avversario a
oriente fu ricercata e dettata da circostanze strategiche immutabili: per la
Francia la necessità di sguarnire la frontiera sudorientale delle Alpi, e per
l'Inghilterra quella di non trovare nel bel mezzo della strada per le Indie un
avversario temibile. S'era già lontani dalla cinica e piuttosto orgogliosa
dichiarazione di chi disse, a proposito della nascita nel Mediterraneo di una
Italia unitaria e indipendente: «Tanti più porti avrete tanto più sarete
vulnerabili dalla squadra inglese»,
Anche tra i due fronti di
questa politica estera, insomma, una forza reale, indiscutibile, crescente,
sosteneva e coronava l'opera del Re e della democrazia traverso la quale egli
governava.
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