NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 9 dicembre 2022

Il Re, i Soldati, il Generale che vinse, VI parte

 


Il nome del generale Armando Diaz, tratto dalla oscurità di un comando di corpo d'armata, apparve all'improvviso in primo piano.

Si vedrà nel testo, per quali vie si concretasse quella decisione, sebbene non tutte le circostanze siano chiare. Vittorio Emanuele si vantò della scelta come di un personale successo (ed effettivamente lo era), ma la natura di questa scelta e i criteri che la dettarono rimasero imprecisati. In distanza possiamo dire ch'essa partecipava tanto di una ispirazione improvvisa quanto di una meditata riserva mentale. Il «Re fotografo», dimostrò di essere effettivamente il «Re vittorioso».

L'episodio in sé, contribuisce a chiarire ancora una volta l'interventismo risolutivo del carattere di Re Vittorio. Egli, quasi sempre scarsamente fiducioso negli altri, impiegava — alla fine — i poteri a sua disposizione per «muovere» la storia del suo Regno. In questo senso non si capisce come possa attribuirglisi un «partito di corte», simile a quello che Umberto I tollerò ed ebbe. Vittorio Emanuele III « regnò», ma in talune circostanze emergenti «governò» poiché toccava a lui. Nessuno penserà che la crisi di Caporetto sia stata superata dall'on. Orlando o la liquidazione del fascismo determinata dal duca d' Acquarone che eseguiva, non si sa ancora se bene o male, ordini precisi.

Né la cosiddetta «dittatura» di Giolitti può considerarsi e capirsi «fuori» della diretta influenza del Re Vittorio, che per un lungo decennio e più controllò Mussolini direttamente e, dobbiamo crederlo, in termini non blandi se il dramma della Diarchia (al quale era sfuggito Giolitti) si annunciò tanto presto e così virulento.

Dalle righe seguenti si vedrà come si pervenne alla demolizione della Triplice alleanza e si potrà osservare, sebbene di volata ed esposto con inevitabile aridità, quel quindicennio della politica estera in cui non si saprebbe ignorare il costante, attentissimo e, direi, esclusivo contributo del Re.

Difficilissima politica quella delle «alleanze» e delle «amicizie»: alleanze con le Potenze centrali e amicizie con l'Intesa occidentale. Si trattava di resistere alla lusinga sempre più perentoria dell'«invincibilità» tedesca e austroungarica e a non «credere» a quella, troppo interessata ai fatti compiuti, della Francia. Tutto ciò mentre crisi sociali (ch'erano crisi di crescenza) non contribuivano al «prestigio» così detto dell'Italia e gli ambasciatori stranieri (compreso lo stesso Barrère, pur così assiduo corteggiatore delle simpatie italiane) tenevano nei nostri confronti un linguaggio da sprezzanti ospiti di colonie tropicali.

In qualche modo il Re che capiva di dover avviare alla vita statale le masse contadine e quelle operaie, di più complessa composizione, non si preoccupò del «prestigio».

I termini della politica estera italiana nel quindicennio tra l'avvento al trono e l'intervento, recavano nomi assai più concreti e sostanziosi: si chiamavano «conversione della rendita», a risoluzione di massima dei problemi operai», a «posto al sole», in Africa, identificazione di finalità pratiche che troviamo, quasi tutte, nelle scarne linee delle memorie di Giovanni Giolitti.

Quelle finalità non cesseranno con la sospensione degli ordinamenti liberali del ventennio fascista: verranno perseguite dal Mussolini al quale, effettivamente, nell'animo di molti in Italia si prestò sin quasi allo spirare del primo decennio fascista, l'intenzione di adottare come uniforme, sebbene di taglio aggiornato, il palamidone di Giolitti. Preferì, ahinoi, i gradi di caporale di onore.

Quella indifferenza al «prestigio», in un mondo in cui la corsa agli armamenti era cominciata il giorno della presentazione a Napoleone III del primo cannone Krupp a tiro rapido, veniva compensata dalla crescente forza militare e specialmente navale dell'Italia. La guerra dì Tripoli, inizio del ciclo di guerre continentali non ancora chiuso, controllata dalla diplomazia franco inglese da un lato, austro tedesca dall'altro (a il ballo sulle uova» di cui parla il Giolitti) servì a porre in allarme l'Inghilterra per quello, che, sul mare, gli italiani, se non allora, avrebbero più tardi dimostrato di saper fare.

L'amicizia dell'Italia in un eventuale conflitto contro le Potenze centrali o qualsiasi altro avversario a oriente fu ricercata e dettata da circostanze strategiche immutabili: per la Francia la necessità di sguarnire la frontiera sudorientale delle Alpi, e per l'Inghilterra quella di non trovare nel bel mezzo della strada per le Indie un avversario temibile. S'era già lontani dalla cinica e piuttosto orgogliosa dichiarazione di chi disse, a proposito della nascita nel Mediterraneo di una Italia unitaria e indipendente: «Tanti più porti avrete tanto più sarete vulnerabili dalla squadra inglese»,

Anche tra i due fronti di questa politica estera, insomma, una forza reale, indiscutibile, crescente, sosteneva e coronava l'opera del Re e della democrazia traverso la quale egli governava.

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