di Aldo A Mola
Una perturbazione atlantica in picchiata
sull'Italia?
Ma la Francia ama l'Italia? Come no! Dove,
quando e da chi il re dei Franchi Carlo si fece porre sul capo la corona di
Sacro Romano Imperatore? A Roma, il giorno di Natale dell'anno 800 d. Cr., da
papa Leone III. Senza la Città Eterna la Francia rimane “in cerca”. La sua
passione per l'Italia divampò nuovamente con Carlo VIII di Valois che, appena
giovinotto, nel 1494 vi irruppe e in un battibaleno arrivò sino a Napoli. Il
suo affetto non fu del tutto corrisposto. Papa Giulio II (Giuliano della
Rovere, Savona, 1444-Roma, 1513) nel 1511 promosse la Lega Santa con Spagna e
Venezia e bandì la crociata contro i francesi al grido “Fuori i barbari!”. Nel
1796, tre secoli dopo Carlo VIII, Napoleone Buonaparte capitanò la francese
Armata d'Italia alla conquista del Bel Paese. Gli piacque allo spasimo.
Contento che Ugo Foscolo lo avesse invocato “liberatore”, ne portò via tutto il
possibile. Ricordini in gran parte rimasti là. Quando si incoronò imperatore si
dichiarò successore di Carlo Magno. Anche Napoleone III volle bene agli
italiani (di passaggio anche alla contessa di Castiglione, molto meno influente
di quanto si narri). Appena morto Camillo Cavour, lo spiegò a Vittorio Emanuele
II: l'Italia aveva sbagliato a volere l'“unificazione”, doveva contentarsi di
essere una “unione”, più o meno una confederazione, senza toccare lo Stato
Pontificio. Poi la storia andò come andò. Nel 1945-1947 la Francia di De Gaulle
impose mortificanti rettifiche di frontiera, irrilevanti in caso di guerra.
Aveva la testa volta al passato remoto. Ne scrisse “Il Pensiero di Nizza
Bollettino semestrale di studi nizzardi e tendaschi,1995-2006” riproposti in volume da Achille Ragazzoni (ed. Settimo Sigillo). I
recenti “dissensi” italo-francesi sono dunque appena un cirro in un cielo roseo
rispetto alle tempeste dei tempi andati.
Furono altri, come Altiero Spinelli e Jean
Monnet, di qua e di là delle Alpi, a insegnare, settanta e più anni fa, che
dopo la nuova guerra dei trent'anni (1914-1945) era tempo di Europa.
L'Europa non c'è
Però i fatti sono ostinati. Insegnano che, come
Clemens von Metternich diceva dell'Italia, l'“Europa” odierna è solo “un'
espressione geografica”. Senza politica estera e di difesa veramente unitaria
(lo ricorda il generale Claudio Graziano in “Missioni”, ed. Luiss) essa ha
confini labili, a differenza della nostra Penisola che va indiscutibilmente
dalle Alpi a Capo Passero. Nei miti e nei manualetti delle elementari l'Europa
spaziava dall'Atlantico agli Urali. Oggi per molti essa termina dove inizia la
Federazione delle repubbliche russe: strabismo politico-culturale dalle
conseguenze imprevedibili. Parecchi hanno un'“idea di Europa” più piccola rispetto
a quella già matura nel Settecento, quando zar e zarine attraevano in Russia
giganti dell'Illuminismo. Il congresso di Vienna del 1815 fu incentrato sullo
zar Alessandro I vincitore su Napoleone e “profeta” della Santa Alleanza
stipulata tra lui, il re di Prussia e l'imperatore d'Austria (26 settembre
1815). I Tre sovrani decisero di «considerarsi tutti come membri di una
medesima nazione cristiana delegati dalla Provvidenza a governare tre rami di
una stessa famiglia», senza alcun bisogno di patti costituzionali con i
sudditi. Il loro accordo, malgrado tutto, durò sino alla conflagrazione del
1914.
La Grande Guerra, nel 1917 degenerata nella
prima guerra mondiale, travolse quattro imperi (russo, turco, austro-ungarico e
germanico) e partorì una decina di nuovi Stati di varie dimensioni (Finlandia,
le repubbliche baltiche, la Polonia, la Ceco-Slovacchia, l'Albania, la Turchia
stessa...): una babele condannata alla precarietà e precipitata nella seconda
fase della “guerra dei trent'anni”, conclusa con la Conferenza di Postdam (17
luglio-2 agosto 1945), che definì un assetto durato fino al crollo dell'Unione
sovietica. In “Requiem per un Impero” François Fejto ha descritto
magistralmente le rovine causate dalla “repubblicanizzazione” dell'Europa
orientale voluta dalla Francia all'indomani della Grande Guerra. La
artificiosità dei confini tracciati nelle cinque paci del 1919-1923 generò
l'instabilità interna degli Stati novelli e pulsioni neo-nazionalistiche,
fomite di altri conflitti. È un “fatto” fisico.
Grande politica e passi rituali
Tra i frutti tossici della Grande Guerra vi fu
l'invenzione del “regno serbo-croato-sloveno”, tenuto a balia dai francesi e
dal presidente degli Stati Uniti d'America Wilson che ne assunse la tutela.
Nel quadro delle relazioni sta Stati antichi e
di nuovo conio il Grande Oriente d'Italia (GOI) e la Serenissima Gran Loggia
d'Italia (GLI), principali Comunità massoniche italiane negli anni
dall'intervento nella Grande Guerra all'avvento del governo Mussolini (1915-1922),
esercitarono un'influenza effettiva sulla politica estera e, in specie, per
l'annessione di Fiume al Regno d'Italia sin dal 1917-1918? Se n’è parlato a
Udine sabato 12 novembre alla presentazione del libro “L'impresa di Fiume tra
mito e realtà, 1919-1920”, Atti del convegno svolto nel Castello di Villalta il
19 ottobre 1919 (ed. Etabeta), con interventi di Antonio Binni, già gran
maestro della GLI, Valerio Perna, docente emerito di relazioni internazionali,
Enrico Folisi e del filmografo Giorgio Sangiorgi. Il quesito merita attenzione
perché è rimasto ai margini o è stato appena accennato nelle numerose e talora
corpose opere pubblicate a ridosso del centenario della “marcia di Ronchi”. È
il caso di “Fiume città di passione” di Raoul Pupo (ed. Laterza), che gli
riserva un rapido cenno, mentre è del tutto ignorato nella magistrale opera di
Maurizio Serra “D'Annunzio il Magnifico”. Se ne disse nel convegno
internazionale di studi organizzato da Giordano Bruno Guerri al Vittoriale
(Gardone) nel centenario dell'“impresa”, i cui Atti sono raccolti in “Fiume,
1919-2019” (Silvana Editoriale), ma l'interrogativo è entrato nelle corde solo
di pochi studiosi di Fiume e della questione fiumana. Tra costoro, Luca
Giuseppe Manenti ne ha scritto in “Meditati riserbi. La massoneria italiana e
l'impresa di Fiume”, pubblicato con saggi di Fabio Todero in “Di un'altra
Italia. Miti, parole e riti dell'impresa fiumana” (pref. di Raoul Pupo, ed.
Gaspari).
Nell'insieme la domanda sul peso politico
effettivo delle Comunità massoniche è rimasta senza risposta esauriente, alla
pari dell'altro quesito affiorato nel profluvio di libri pubblicati nel
centenario della cosiddetta “marcia su Roma” e della formazione del governo
Mussolini. Quale parte vi ebbero i massoni? Mere comparse o protagonisti? La
differenza non è affatto irrilevante. Per comprenderne l'importanza occorre un
cannocchiale con molte lenti. In primo luogo bisogna inquadrare le Comunità
liberomuratòrie italiane nella rete della Massoneria universale: Grandi Orienti
o Grandi Logge, secondo le loro denominazioni nei diversi Paesi, e i Conventi
mondiali dei supremi consigli del Rito scozzese antico e accettato e gli altri
Ordini liberomuratòri, sia noti e sia più riservati. In secondo tempo occorre
“testare” il ruolo svolto dalle “massonerie” delle potenze uscite vittoriose
dalla prima guerra mondiale nell’ideazione e costituzione della Lega delle
Nazioni. Infine vanno accertati i rapporti tra quest'ultima e la Associazione
Massonica Internazionale (AMI), di cui in Italia pochissimo si è scritto.
Tre “tre puntini” per Fiume italiana
Nell'impossibilità di percorrere i meandri di
una vicenda aggrovigliata e dalla documentazione frammentaria, per fornire
almeno la cornice entro la quale vanno campeggiate “le opere e i giorni” delle
Comunità liberomuratòrie italiane con riferimento alla “questione fiumana”,
nodo delle tensioni italo-francesi, va ricordato in sintesi che i tre
principali propugnatori dell'italianità di Fiume furono massoni: uno, Giacomo
Treves, iniziato a Torino nella loggia “Ausonia” del GOI; un secondo, Antonio
Vio, membro della “Sirius” di Fiume (già all'obbedienza della Gran Loggia
simbolica di Ungheria); e un terzo, Attilio Prodam, iniziato in una “officina”
di Venezia della Gran Loggia d'Italia. Si dovrebbe ricordare anche il
leggendario Cesare Pettorelli Lalatta Finzi (iniziato alla Gran Loggia
d'Italia) ma è meglio non disperdersi in troppi rivoli. Sin dal 30 ottobre
1918, prima della richiesta di armistizio (2-3 novembre) e della sua entrata in
vigore (4 novembre) Vio rivendicò pubblicamente l'annessione di Fiume
all'Italia. Lo fece con l'autorevolezza che gli derivava dall'essere
maggiorente della città, come documenta il poderoso volume “I Verbali del
Consiglio Nazionale Italiano di Fiume e del Comitato direttivo, 1918-1920”
curato da Danilo L. Massagrande per la benemerita Società di Studi Fiumani.
Nelle stesse ore Prodam intraprese la sua missione. Da Fiume raggiunse
l'ammiraglio Paolo Thaon di Revel e lo sollecitò a inviare una squadra navale
per presidiare la città quarnerina dalle mire dello Stato serbo-croato-sloveno
i cui rappresentanti da anni operavano in perfetta sintonia con il Grande
Oriente di Francia e con la Gran Loggia di Francia, efficaci proiezioni della
politica estera di Parigi. Come egli stesso narrò in “Gli Argonauti del
Carnaro”, Prodam ottenne riscontro positivo dal comandante della Marina
italiana (membro del Supremo consiglio della Gran loggia d'Italia), che, è da
credere, attendeva da parte dei fiumani un segnale che legittimasse l'immediato
invio di navi, giunte nel porto di Fiume la mattina del 3 novembre. A quel modo
venne scongiurato il rischio che l'occupazione interalleata della città
escludesse l'Italia dalla possibilità di accogliere il voto di quanti ne
chiedevano l'annessione.
In vista della pubblicazione del trattato di
pace italo-austriaco di Saint-Germain (10 settembre 1919), che rese ufficiale
l'esclusione di Fiume dalle terre assegnate al regno d'Italia, Vio rimase a
presidiare la città contro gli “autonomisti” capitanati da Riccardo Zanella (ne
ha scritto ripetutamente Giovanni Stelli, autore della densa “Storia di Fiume
dalle origini ai giorni nostri”, ed. Biblioteca dell'Immagine). Fiume era in
fermento. Lo si vide con i “vespri fiumani”, il 6 luglio 1919, quando in un
conflitto a fuoco con marinai italiani i “francesi” (alcuni erano annamiti,
invero) lamentarono nove morti e undici feriti.
A inizio settembre, invece, Prodam e Treves in
giorni diversi e separatamente raggiunsero Gabriele d'Annunzio alla Casetta
Rossa in Venezia per chiedergli di mettersi alla guida della spedizione armata
su Fiume, con l'assicurazione che avrebbe avuto il sostegno di un reggimento
dei Granatieri di Sardegna ispirati dai “Sette giurati di Ronchi” (nessuno dei
quali risulta massone), decisi ad assumere l'iniziativa armata in aperto
conflitto con il governo di Roma, tenuto a rispettare il trattato di pace di
cui era firmatario. Dopo il Trattato di Versailles del 28 giugno, quello di
Saint-Germain costituiva il secondo punto di arrivo del Congresso di pace in
corso a Parigi.
A cospetto del “colpo di mano”, il governo
italiano, presieduto da Francesco Saverio Nitti tenne una condotta altalenante.
Ufficialmente contrario all'“impresa” e preoccupato per l'afflusso in Fiume di
un numero elevato di militari (sin quasi a diecimila uomini), indifferenti al
richiamo all'ordine, tentò continuamente mediazioni e non ostacolò i
giganteschi soccorsi recati a Fiume dalla Croce Rossa presieduta dal massone
Giovanni Ciraolo, che svolse una “diplomazia parallela”.
Il 25 settembre Vittorio Emanuele III convocò
un inedito “Consiglio della Corona” con la partecipazione degli ex presidenti
del governo (Giolitti incluso) e dei rappresentanti di tutti i gruppi
parlamentari. I soliti socialisti si sottrassero accampando che esso non
figurava tra gli organi politici previsti dallo Statuto. Il parere fu unanime:
il governo non poteva dichiarare unilateralmente l'annessione di Fiume. Si
trattava di una “questione” di carattere internazionale tanto più che erano
ancora in corso i lavori poi approdati ai Trattati di pace di Neuilly, Trianon
e Sèvres.
La debolezza del governo Nitti aveva alle
spalle gli errori dei suoi predecessori come bene argomenta Valerio Perna nel
saggio sulla Marcia di Ronchi, “Un evento annunciato: i presupposti di un colpo
di mano”. Si continuava a usare “moneta vecchia” (la disputa su questioni
territoriali minimali) a cospetto della “moneta nuova”: lo scenario aperto dal
crollo della “Vecchia Europa” e dall'irruzione degli Stati Uniti d'America che
al congresso di Parigi si presentò forte di centinaia di consulenti, mentre
Roma si limitò a un paio di “politici”, Orlando e Sonnino, a parte Silvio
Crespi che a cospetto dalla loro inconcludenza si dimise.
D'Annunzio diplomatico o rivoluzionario?
Un secolo dopo va constatato che l'ambiguità di
Nitti costrinse d'Annunzio a proseguire per la sua via. Che cosa fare a Fiume?
In “D'Annunzio diplomatico e l'impresa di Fiume” (ed. Rubbettino) con dovizia
di documenti e di analisi Eugenio Di Rienzo colloca l'“impresa” e la sua “lunga
durata” nel groviglio dell'instabilità politico-militare postbellica e della
“ritirata” degli USA dagli affari europei sin dal crepuscolo dalla presidenza
di Wilson. Appena un mese dopo l'“occupazione” della “città olocausta”
d'Annunzio fu sul punto di andare oltre l'incertezza con una seconda “marcia”,
su (e da) Trieste per incendiare l'Italia. Cozzò contro la ferma opposizione
del gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Domizio Torrigiani (GOI). La
nuova “impresa” avrebbe scatenato l'insurrezione dei socialisti e questi
sarebbero stati annientati dall'esercito. In Italia si sarebbe imposto un
regime militare. Ma a defilarsi furono anche altri, compreso Benito Mussolini
(già al soldo degli inglesi, 75 sterline al mese, secondo quanto scrivono
Cereghino e Fasanella in “Nero di Londra”, ed. Chiarelettere) che “capitalizzò”
il fiumanesimo a vantaggio del fascismo nascente.
La “stasi” della questione fiumana fino alla
proclamazione della Reggenza e della Carta del Carnaro e al Trattato
italo-jugoslavo di Rapallo (novembre 1920) concorse a condurre l'“impresa” nei
binari degli interessi dell'Italia, al riparo dalle pesanti interferenze di
Parigi. A deciderne le sorti fu infine Vittorio Emanuele III, che recepì e sintetizzò
i “consigli” delle maggiori forze economiche del Paese, molto più risolutivi
rispetto all'anemico Consiglio della Corona del 25 settembre 1919. I nodi
aggrovigliati sul confine italo-jugoslavo nel 1918-1924 si ripresentarono
vent'anni dopo, a danno degli italofoni della costa dalmata, di Fiume,
dell'Istria e della Venezia Giulia con la terribile pagina delle foibe e del forzato esodo di
trecentomila cittadini italiani. Tra i quali Attilio Prodam, poi asceso alla
guida della Gran Loggia d'Italia. Quel “mondo” rimane in attesa di essere
meglio conosciuto e apprezzato.
Dunque gli screzi odierni tra le “sorelle latine” hanno
secoli di storia alle spalle. Sono brume in attesa che sull'Europa sorga il
Sole.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Sui rapporti tra Gabriele
d'Annunzio (Pescara, 1863-Gardone Riviera, 1938: qui ritratto nella copertina
del Quaderno curato da Giacomo Treves per il Comitato torinese “Pro Fiume e
Dalmazia) e la Libera Muratoria ha scritto recentemente Raffaella Canovi in
“L'Iniziato. D'Annunzio e la Massoneria” (ed. Ianieri), che privilegia Giacomo
Treves quale tramite fra il Vate e il Grande Oriente d'Italia. Molto più
durevole e profondo fu il rapporto instaurato dal Poeta con Attilio Prodam,
rimasto al suo fianco anche nel “Natale di sangue”, venerabile della “XXX
Ottobre”, “officina” della Serenissima Gran Loggia d'Italia (GLI) e “ponte” tra
il Comandante e il sovrano scozzesista Raoul Palermi. Suscita interesse il
notevolissimo sviluppo registrato dalla rete di logge della GLI da Trieste
all'Istria e alla costa dalmatica dopo il 1918.
Poiché è una realtà poco nota, giova ricordare
alcuni dati. In primo luogo, nel decennio tra il 1915 e l'auto-scioglimento
(1926), deliberato sotto la persecuzione antimassonica scatenata dai
nazionalfascisti, vennero annotate 28.800 iniziazioni, alcune delle quali
“segrete”. A parte le logge installate all'estero, richiamano l'attenzione
quelle di Trieste (“Trieste Redenta”, “Nuova Italia” “Washington”, “Bovio”,
“San Giusto”, “Sabotino”, “Adriano Lemmi”), Udine (“Carlo Pisacane”, “Cavalieri
del Friuli”), Gorizia (“Santa Gorizia”), Istria (“Capodistria”, “Nazario
Sauro”), Pola (IV novembre”, “Nazario Sauro”), Abbazia (“Concordia”), Zara
(“Premuda”) e, s'intende, Fiume (“XXX Ottobre 1918-12 settembre 1919”).
Troppo spesso sottostimato dai massonologi,
Palermi si mosse con lungimiranza, attraendo nella sua Comunità personalità già
affermate: militari, industriali (tra i quali Vittorio Valletta), banchieri,
diplomatici, politici nettamente contrari al bolscevismo, artisti, scrittori
(Curzio Malaparte), futuri storici (come Nino Valeri, collaboratore di uno dei
figli del Vate, Gabriellino d'Annunzio, a sua volta iniziato), sino ad Antonio
De Curtis, “Totò”, Cesco Baseggio e altri.
Anche su pressione dei nazionalisti, Mussolini
annientò il GOI e la GLI ma continuò a valersi di massoni, anche in posizioni
eminenti (Italo Balbo, Giacomo Acerbo, Balbino Giuliano, Edmondo Rossoni,
Alberto Beneduce...), perché essi costituivano il nerbo della classe dirigente e
risultavano insostituibili. Esattamene come accadeva negli USA, in Gran
Bretagna, Francia e negli Stati di nuova creazione, ove le logge erano e sono
espressone diretta e indiretta della “grande politica”, le cui vicende possono
dunque essere meglio comprese proprio addentrandosi nel mondo latomistico, da
studiare e narrare senza pregiudizi, compreso quello secondo il quale le logge
non si occupano né di politica né di religione. È esatto, ma solo se per tali
si intendano “fazioni” e “fanatismi”.
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