La sua natura precisa, laconica ed esauriente, come quella delle monete che collezionava, si muto in qualche modo e il pessimismo di cui era ammalato, il segreto romanticismo della sua infanzia solitaria, della sua giovinezza dispersa tra guarnigioni di provincia e visite all'estero in missioni ufficiali si moderò e arrotondò.
Osio che l'obbligava,
fanciullo, a montare cavalli difficili (erano cavalli da Corsa non più buoni
per ippodromi, ma tuttavia ombrosi, difettosi, nervosi ed estemporanei: abituati
a partire di carriera appena venissero repentinamente voltati) gli procurò una
contusione ad un ginocchio che gli dolse sempre. Recatosi in viaggio ad
Hammerfest, cadde da una scaletta e battetele quel medesimo ginocchio che, per
questo, non gli dolse più. La sua vita rassomiglia molto a questo episodio.
* * *
Re Vittorio avrebbe voluto
condensare, come Marco Aurelio, in un libro di Massime e Precetti, la sua
esperienza e le sue osservazioni sugli uomini e sulle cose. Ritenne di non
poterlo fare per mancanza di tempo e perché non sapeva maneggiare la penna.
Dotato di una cultura immensa e di una memoria illimitata, il Re non amava le
parole. Egli s'era fatta una natura di classificatore: monete, uomini, fatti,
ed era capace di trovare i più sottili rapporti tra loro. Ma non sapeva o non
voleva " narrare". Per antipatia, ripeto, alla parola o perché
scrivendo gli pareva di dire troppo. C'erano persino delle parole che odiava
cordialmente. Raccontava lui stesso che da ragazzo nel "Manuale per l'istruzione
militare" che gli spiegava un sergente Tane, finito poi colonnello, c'era
un participio all'udire il quale gli si allegavano i denti e se ne ricordava
sempre quando gli tenevano grossi e vuoti discorsi. Questo participio inserito
nella istruzione per l'uso del fucile Wetterley era: “caricantèsi". "
Il fucile Wetterley caricantesi dalla culatta..." Non poteva soffrirlo.
Avesse avuta facoltà di
scrittore probabilmente la sua intelligenza acuminata, la sua personalità e il
suo animo ne avrebbero tratto vantaggio. Probabilmente avrebbe potuto meglio e
più largamente difendersi nel periodo buio dopo il '43 e avrebbe opposto, in un
mondo caotico di eloquenti disonesti salvatori della patria, sopravvenuti con
la catastrofe, una più esplicita e pacata comunicativa. Ma noi non possiamo non
soffermarci ammirati dinnanzi agli "aridi" silenzi di Vittorio
Emanuele III, specialmente quando la maggioranza dei suoi interlocutori non
meritava la sua parola.
Lui parlò a Peschiera e in
altre tre o quattro occasioni, queste ultime nella nera sorte e nel triste
Regno del Sud, quando si trattò di difendere con la sua piccola figura quella
più grande, distante e immemore della disgraziata Italia. Gli bastò.
Non dunque con parole sue o in
gran parte sue si scriverà la storia lunga del suo Regno. Ci penseranno gli
altri e già l'opera di revisione è iniziata.
Anche gli scrittori più
conformisti si attengono, trattando di lui, ad un distanziato e obiettivo
rispetto. Noi siamo convinti, d'altra parte, che se avesse potuto scrivere lui
stesso la storia della sua vita e del suo regno sarebbe stato assai più netto,
nei giudizi e nelle condanne, di molti dei suoi avversari in buona fede.
Comunque è buon segno, tanto per la Repubblica che per la Monarchia italiana,
che si tenti di penetrare nel profondo significato della sua opera e della sua
personalità, Qualche ardita teoria va facendosi strada, qualche modifica
sostanziale di giudizi inveterati ed
erronei — giudizi che lo vedono o arido o cinico o solo attento alle fortune
dinastiche o avaro e intento ad accumulare per sé e per i suoi — viene
introdotta.
Configurando il cammino della
idea socialista in Italia, dal 1900 alla marcia su Roma, ebbi occasione di avanzare
una ipotesi tutta romantica: che lui, il Re, avesse concepito la rivoluzione
delle camicie nere come il solo, concreto modo di inserire finalmente il
socialismo nello stato. Documenti e testimonianze ulteriori hanno confermata
questa intuizione.
Anche l'esteriore della sua
infanzia e della sua giovinezza mostra caratteri romantici: la solitudine tra
la severità di Osio e la indifferenza di mons. Anzino, il cappellano di Corte,
gli studi pertinaci, le lunghe guarnigioni con pochi o nessun amico, i viaggi
di rappresentanza all'estero e le esperienze che egli ne traeva osservando
un'Europa fin di secolo, bilanciata tra l'ordine del vecchio Congresso di Vienna
e il fermentare delle rivoluzioni e guerre che sarebbero presto cominciate e
non sono ancora finite.
Dei contatti con i potenti del
tempo Vittorio Emanuele teneva una salda memoria, rammentando tipi e figure di Capi
di Stato, quei pochi che da Principe ereditario aveva potuto conoscere e non si
scorre senza interesse questo albo sbiadito. Guglielmo II, il sovrano più colto
e intelligente del continente, trascinato alla guerra da Bethmann Hollweg e da
Moltke; Bismarck, che vide nell"88 alle feste dell'incoronazione a Berlino
e gli ricordò con delicatezza tutta tedesca: «Voi italiani siete il popolo
delle tre S: nel 1859 con Schierino prendeste la Lombardia; nel 1866 con Sadowa
prendeste il Veneto; nel 1870 con Sédan prendeste Roma; nessuna delle tre S
venne fatta da voi». Ed egli da allora avvertì la necessità per l'Italia di « ar da sé qualche S».
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