(1863-1960)
di Gianluigi Chiaserotti*
Desidero ricordare il padre Luigi Pietrobono, insigne dantista, amico,
come vedremo del Pascoli, ma soprattutto un sacerdote dell’”Ordine dei Chierici Regolari poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie”,
gli Scolopi (deceduto a Roma il 27 febbraio 1960).
Luigi Pietrobono nacque in Alatri il 26
dicembre 1863, centosessanta anni or sono, figlio di Francesco, valente
artigiano, che, in gioventù aveva preso parte alla difesa della Repubblica
Romana, e di Filippa Merluzzi, tipica donna ciociara, buona, affettuosa e
timorata di Dio.
Si indirizzò immediatamente, entrando a far
parte dell’ordine degli Scolopi, verso il calasanziano ideale di sacerdote e di
educatore, maturandolo con sempre più consapevole coscienza vocazionale dal
collegio, all’università, alla scuola.
Si laurea in lettere nel 1887, in filosofia nel
1889, e, nel Nobile Collegio Nazareno di Roma, è docente già dal 1887 al 1905,
quindi preside e docente, una prima volta, dal 1905 al 1906, e, una seconda
volta, dal 1906 al 1936, quindi anche Rettore, dal 1906 al 1910, e dal 1915 al
1918.
Padre Luigi non sarà un cattivo sacerdote;
certo non profumerà di ascetismo ma si metterà al servizio della Chiesa e
diverrà un coraggioso combattente della Fede in tempo di acceso
anticlericalismo massonico.
Amava ripetere: «[…] sono un cattolico, ma liberale: e questa è la mia colpa, che in
certe sfere non trova perdono; il guaio è che non ne sono pentito.».
La carriera che il Nostro iniziò giovanissimo
nel Collegio Nazareno, e non fu assolutamente la conseguenza di promozioni
all’interno dell’Ordine perché Scolopio, ma al riconoscimento delle sue
capacità, della sua intelligenza, della sua non comune cultura.
Al Nazareno il Pietrobono dedicò i suoi anni
migliori e l’unica sua ambizione fu di vedere l’Istituto fiorire in maniera
corrispondente alla sua secolare tradizione.
Non sempre, però, codesto suo desiderio poté
essere soddisfatto, in quanto conflitti di competenza, ostracismi, ma
soprattutto invidie tra confratelli, interventi dell’autorità ecclesiastica,
ritiro di religiosi dal Collegio, costrinsero il Nostro a lasciare il Nazareno
per accettare il rettorato del Collegio “Conti
Gentili” di Alatri, per poi tornare a Roma (gli scolopi tennero codesto
collegio dal 1729 al 1971).
Hanno inizio qui i suoi studi su Dante che
porterà avanti lungo sessanta anni di attività, per tutta una vita e che
possono essere datati già dalla sua tesi di laurea su “La teoria dell’amore in Dante Alighieri”, che fu immediatamente
pubblicata (1888) sulla rivista “La
filosofia nelle scuole italiane”, rivista fondata da Terenzio Mamiani della
Rovere (1799-1885), filosofo ed uomo politico.
L’indagine di Pietrobono viene sostenuta, più
che da altre tesi, dalle suggestive letture di Giovanni Pascoli (1855-1912) (ex
alunno degli Scolopi nel Collegio di Urbino) e dal vasto riesame dell’opera di
Dante che queste avevano avviato, mostrando che il poema doveva essere inteso
come il dramma della redenzione umana, cosicché, solo comprendendone tutto il
profondo ed unitario pensiero che lo sostanzia, se ne poteva attingere l’arte.
Pietrobono, superando i residui limiti estetici
del Pascoli e ponendosi in alternativa polemica, sia con le indagini sul
lirismo di Dante, portate avanti dall’estetica, sia con quelle, altrettanto
disgregatrici dell’unità morale dell’opera, perseguite dalla critica positivistica,
costruisce sul vaglio dell’intera opera di Dante, un’organica visione strutturale
del poema.
La “Commedia”
è propriamente per il Pietrobono la profezia del Veltro: messaggero di speranza
al mondo traviato e disorientato.
Egli infatti interpretò l’unica profezia “ante eventum” della Divina Commedia come
quasi che il Veltro fosse Gesù.
Il Veltro è necessario perché gli uomini medesimi
possano essere felici; essi dalla c. d. “Donazione
di Costantino” non hanno più potuto godere non solo della pace dello
spirito, ma neppure di quella terrena.
La colpa di Costantino [Flavio Valerio Aurelio
Claudio (285 ca.-337)] è pari a quella di Adamo.
Dante diviene così l’annunciatore di un disegno
divino, e la Commedia il poema del dramma umano, meditato nella sua genesi,
osservato nel suo storico processo, orientato nella sua finalità di riscatto e
di redenzione.
Al riguardo di Costantino mi piace ricordarVi
che il letterato umanista Lorenzo Valla (1405 o 1407-1457) dimostrò (1440) la
falsità del documento sulla c. d. “Donazione
di Costantino”, il quale fu spesso utilizzato per giustificare la nascita
del potere temporale dei papi. Esso è un documento apocrifo dei secoli VIII e
IX in cui si narra la conversione dell’imperatore Costantino e come questi, per
gratitudine verso il papa San Silvestro I (314-335), avrebbe concesso al
pontefice il potere temporale su Roma e l’Italia ed il primato sulle altre
chiese.
Luigi Pietrobono si qualifica, in tal modo,
come “il migliore e più avveduto seguace
del Pascoli” [Michele Barbi (1867-1941)] anche se, così critico ed in
totale indipendenza, dal Pascoli medesimo si distacca nella concretizzazione
analitica di un’identica linea di interpretazione esegetica.
Tale era appunto una definizione del Barbi.
Invero il pascolismo del Pietrobono si riduce alla convergenza più che d’idee,
di principi base (come la ricerca di simmetrie, l’affermazione di una
architettura unitaria della “Commedia”
e della simbologia del Canto I dell’Inferno, la limitata applicazione delle tre
disposizioni aristoteliche, il riconoscimento della funzione parallela della
Chiesa e dell’Impero alla fine della redenzione). Per tutto codesto il Nostro è
un critico del tutto indipendente, ed offre soluzioni lontane dalle pascoliane,
come la grande idea che la “Commedia”
non rappresenta affatto l’abbandono della vita attiva per quella contemplativa.
Ed ora un inciso, che
poi potrebbe essere una curiosità.
Padre Luigi Pietrobono,
in codesta interpretazione esegetica del capolavoro dantesco fece anche sua la
“lectura Dantis”, analizzata
essenzialmente dal punto di vista astronomico, ma anche poetico, del suo
confratello fiorentino Giovanni Antonelli (1818-1872), fisico, astronomo,
ingegnere, creatore di strade ferrate, che ho ampiamente ricordato su questa
rivista nel mese di gennaio.
L’Alighieri, infatti,
esercitava nell’Antonelli un grande fascino, ed egli ne intrecciava lo studio
con quello del cielo.
Nel corso del 1865,
sesto centenario della nascita del Sommo Poeta, venne dato alle stampe uno
studio al quale vi collaborò, e con successo, anche Giovanni Antonelli.
Egli pubblicò
un’attenta e scrupolosa interpretazione sulla “vexata quaestio” delle prime terzine del Canto IX del Purgatorio, e
precisamente: «La concubina di Titone antico/già
s’imbiancava al balco d’oriente,/fuor delle braccia del suo dolce amico; […]».
Molte furono le interpretazioni di codesti
versi. Padre Antonelli dimostrò che Dante, proponendosi di indicare l’ora nella
quale fu preso dal sonno al termine della prima giornata in Purgatorio, intese
descrivere l’alba che precede il sorgere della Luna e non l’aurora solare, come
molti volevano. E queste interpretazioni antonelliane [anche perché preferì
darne delle altre come quella che Titone è Titano, Titan, quindi il Sole. La
sua concubina è Teti, (“Tηθύς”,
nella lingua greca, moglie di Oceano, l’onda marina…..)] furono appunto riprese
dal Nostro nel suo commento alla Divina Commedia, ma anche da Niccolò Tommaseo
(1802-1874) e da un altro famoso dantista, lo svizzero Giovanni Andrea
Scartazzini (1837-1901).
Con il Pascoli, che Luigi Pietrobono aveva
conosciuto al Collegio Nazareno nel 1897 quale Commissario Governativo per gli
esami di Licenza Ginnasiale e Liceale, scambia costantemente i risultati della
propria indagine ed alla sua poesia, per l’affettuosa amicizia che lo lega
all’uomo, dedica una vigile attenzione critica, seguendola, sollecitandola, ed
a volte, oltre che sostenendola, e con passione nonchè coraggio, difendendola.
È del 1907, infatti la lettera aperta di padre
Luigi al filosofo Benedetto Croce (1866-1952) “Sulla poesia di Giovanni Pascoli” pubblicata da “Il giornale d’Italia”, in cui,
dissentendo apertamente con il riduttivo giudizio espresso da questi sul poeta
romagnolo, illumina i caratteri specifici di questa nuova poesia, ricevendo dal
Croce, pur nel fondamentale dissenso critico, uno spassionato elogio quale «colto e fine ingegno, guida ben informata,
esperta e affettuosa».
Esce, nel 1918, presso l’editore Zanichelli
Bologna, un’antologia commentata di cinquantasei poesie di Pascoli che,
successivamente, accresciuta e riveduta, resta tutt’oggi un riferimento
d’obbligo.
Nella poesia di Pascoli Pietrobono sa cogliere,
attraverso la sottile elegia del sentimento del mondo, l’angoscia dell’uomo moderno
volto umilmente alla conoscenza del mistero che è dietro le cose, per
riconquistare, ed in questa ricerca è la tensione che accomuna i due uomini, il
trascendente significato dell’esistenza.
Il suo costante fervore intellettuale orienta lo
Scolopio intanto verso un fedele rapporto con la romana Accademia dell’Arcadia
di cui, con il nome pastorale di Edelio Echeo, lo troviamo già socio nel 1894.
Nel 1924 fa parte di una ristretta commissione
per la riforma dell’Arcadia e, partecipando da quel momento al governo
dell’Accademia, ne rafforza l’impegno reinserendola, anche con la propria
attività, nella viva dialettica della cultura italiana.
Dal 1926 vi inizia i suoi corsi sulla Divina
Commedia, su Pascoli, Leopardi e Manzoni fino a che, nel 1940, nominato dal
Ministero dell’Educazione nazionale, ne diviene Custode generale.
Gli anni della sua custodia, durata fino al
1953, anno in cui, ormai stanco (aveva raggiunto i novant’anni), rassegna le
proprie dimissioni, sono fervidi di lavoro ed egli vi profonde tutte le sue
energie di uomo di cultura e di educatore.
È quest’ultima soprattutto, «avendo trascorsa la maggior e miglior parte
della vita nella scuola», la missione più intensamente avvertita da Luigi
Pietrobono in tutta la sua vita e che egli sostiene, fino alla fine, con lucida
fede e mirabile saggezza.
In essa sa cogliere i valori stessi
dell’insegnamento evangelico e con il Vangelo medita sul significato ultimo
della storia umana esponendo il messaggio, sempre nuovo perché eterno, che si
trova racchiuso in quelle pagine, vagliate nell’intimo della coscienza e
avvalorato da una risentita intelligenza: «quel
che preme si è di entrare nello spirito di Gesù e farlo vivere nelle nostre
azioni perché nessuno ha letto più
addentro di Lui nei cuori umani e ne ha interpretati i bisogni».
E’ del 1925 “La morale del Vangelo”, del 1943 “Dolore e Amore”, del 1949 “Col
nostro maestro Gesù”: è l’autentica parola (precisamente: “verbo”) della carità e della libertà che
si coglie in queste pagine, ideali sempre perseguiti dalla sua indomita
coscienza di cristiano e nei quali può
essere sintetizzato il significato stesso della sua vita e della sua attività:
«quel che duole maggiormente si è che i
popoli cristiani non abbiano ancora acquistato chiara coscienza della
inviolabilità della persona umana e si lascino miseramente tiranneggiare:
ignorano che al mondo non vi sono né re,
né imperatori, né presidenti, né ministri che abbiano diritto di far violenza
ad uno spirito immortale».
Contemporaneamente all’Arcadia ed agli impegni
scolastici, padre Luigi era presente (e sin dal 1918) anche alla c. d. “Fondazione Besso” del Largo Argentina in
Roma [eretta a nome di Marco Besso (1843-1920) il finaziere e filantropo
triestino di già presidente delle Assicurazioni Generali] in cui il suo lavoro
non consisteva soltanto nel tenere lezioni su Dante e le di lui opere, ma anche
nel consigliare e suggerire al Besso medesimo iniziative culturali ed a preparare
programmi.
Le lezioni del Pietrobono iniziarono nel
gennaio 1923 per concludersi nel giugno 1949.
Nel 1936, padre Luigi Pietrobono lascia la
presidenza e l’insegnamento, e due anni dopo il Nazareno.
Non fu un auspicato arrivederci, e neppure un
voluto addio, ma un sofferto e non desiderato abbandono.
Dal Nazareno il suo preside uscì in silenzio,
non volle assumere posizioni ridicole o esprimere oltraggiosi pronunciamenti.
Padre Luigi si limitò a scrivere una lettera al
presidente della Commissione Amministratrice della Scuola per lamentarsi che «[…] nessuno sia venuto a stringermi la mano
o a dirmi arrivederci, ad eccezione dei bidelli che mi guardavano muti con gli
occhi pieni di lacrime».
Si ritirò a vivere nella casa della sorella
alla via Flaminia in Roma.
Al Nazareno ci tornò altre volte, tra cui il 30
maggio 1939 in cui fu scoperta una lapide dedicata alla prima Regina d’Italia,
Margherita di Savoia (1851-1926) che venne posta nella parete di sfondo
dell’Aula Magna, la quale prese il nome dalla stessa, e ciò in ricordo del suo
augusto contributo che dette al Pietrobono per organizzare le prime “lecture Dantis” a Roma.
Certamente la scuola fu per Padre Luigi una
scelta di vita, speranza e rifugio nei momenti difficili, quando la realtà
esterna lo tediava con le sue brutture e con le sue cattiverie; la scuola fu la
vocazione e la missione di un’intera esistenza.
Una sua lapidaria frase riassume quale posto
avesse occupato l’attività nella quale aveva profuso la bontà del di lui cuore
e quella immensa lucidità dell’intelligenza: «[…] cinquantadue anni d’insegnamento senza interruzione è l’opera di
cui mi compiaccio sopra ogni cosa. La scuola mi ha confortato e consolato. Se
tornassi a vivere, comincerei da capo.».
Il Re Umberto II (1904-1983), tramite il suo
Ministro Falcone Lucifero (1898-1997) faceva pervenire il 29 dicembre 1958 i «fervidi auguri per il novantacinquesimo
compleanno» dello Scolopio, che così rispose: «Eccellenza, nella mia tarda età, con la vita modesta che meno, quasi sempre
raccolto nella solitudine del mio studio, chi avrebbe potuto mai immaginare che
avrei ricevuto un attestato di così preziosa benevolenza di Sua Maestà il Re?
[....] Non Le so dire di quali e quanti sentimenti mi sia sentito invadere il
cuore e quali parole di ammirazione e ringraziamento mi abbia messo sulle
labbra.».
Sicuramente una risposta, come sempre, toccante
e ricca di umiltà.
Il Pietrobono, ormai stanco, scrisse, già con
mano tremolante, la seguente lirica:
“Cantare
di su il vecchio campanile/Ho udito il solitario. Primavera/Non più caro
augellin, non più aprile/Ride nei campi. Scesa è giù la sera/Dell’anno e della
vita. Quale gentile/Vision ti tenta a salutar quel ch’era?/Ingiallano le
foglie, e una sottile/Nebbia autunnal vela del sol la spera./E poco accadrà che
tutti scheletriti/Saranno i rami, scenderà la neve/E freddo sopra noi starà
l’inverno./Anche tu, vecchio cor, cantare hai uditi/Gli antichi spirti in voce
arguta e lieve/Illusione, preludio a un sogno lieve.”
È senza dubbio la visione di un’esistenza che
si avvia a concludersi, di un fuoco che si sta lentamente spegnendo. Anche il
padre Luigi, come il Leopardi, avrà sentito cantare il “caro augellin” della torre campanaria e la primavera esultare nei
campi verdi della sua Alatri.
È scesa, però la sera: non quella dell’anno, ma
quella della vita. La natura tutta partecipe a codesto lento tramonto con le
foglie ingiallite degli alberi e la nebbiolina leggera che vela la “spera del sole”. Tutto annunzia che
presto cadrà la neve e l’inverno si poserà sulle vite stanche degli uomini.
Certamente il Pietrobono nel rileggersi avrà
benevolmente sorriso per il suo “folle
volo” nei cieli della poesia e, in cuor suo, avrà detto che di Calliope è
più facile essere ammiratore e critico che alunno.
Quel cuore, ormai “vecchio”, come egli medesimo ha scritto, cessa di battere, a
novantasei anni e due mesi, il 27 febbraio 1960.
Bibliografia –
Pasquale Vannucci “Il Nazareno MDCXXX MCMXXX”,
Roma 1930;
Tullio Santelli, “Tre Scolopi illustri”,
Roma MCMXCVIII
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