NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 13 marzo 2021

Discorso commemorativo dell'on. prof. Alfredo Covelli nel centenario della nascita di Re Vittorio Emanuele III - seconda parte

 

Era, dunque, fatale che, sul filo stesso dell'unità e libertà conseguite nel Risorgimento, il Regno d'Italia, organizzandosi a Stato moderno, riorganizzando le sue finanze, il suo sistema tributario, il suo credito, chiamasse a partecipare alla vita pub­blica categorie sempre più vaste, ed era fatale che queste cate­gorie esercitassero un controllo sempre più profondo. I patrioti più rigorosi consideravano questo progresso con grande preoc­cupazione, non certo perché fossero fautori di una monarchia assoluta; ma perché sapevano, avendo personalmente parteci­pato alle lotte del Risorgimento, che la Monarchia costituzionale aveva messo radici solo in una ristretta minoranza, sia pure scelta e nobilissima per opere ed ideali.

Con quale animo, con quali sentimenti, domandavano i pa­trioti, venivano nella vita pubblica le nuove categorie, in con­seguenza del progressivo allargamento del suffragio? Un giorno, avrebbero partecipato alla lotta i cattolici, con le loro rivendi­cazioni e i loro programmi. E intanto avanzavano le masse lavo­ratrici, oppresse da terribili condizioni economiche ed ispira­vano non solo i primi socialisti, i radicali, i repubblicani, ma persino i liberali della giovane generazione, come Giolitti. Questa prima, tumultuosa avanzata delle masse operaie e contadine, spinse gli agrari e i ceti abbienti più retrivi, che per loro senti­mento sarebbero stati borbonici, granducali, austriacanti, o pa­palini, dalla parte dei patrioti del Risorgimento. Si costituì di fatto un fronte unico tra coloro che nei movimenti di sinistra vedevano la palingenesi sociale coloro che vedevano in essi dei pericoli per la malcerta, malfondata, troppo recente unità.

Indubbiamente, quelle poche centinaia di migliaia di per­sone che partecipavano pienamente, consapevolmente agli ideali del Risorgimento, avrebbero preso molto sul serio il regime rappresentativo, se i diritti politici fossero rimasti un privilegio esclusivo della' loro categoria. Senonché, la caduta della Destra storica implicava necessariamente un progressivo allargamento del suffragio elettorale. Il diritto di voto si estendeva ad uomini sempre meno capaci di discernimento politico, sempre meno capaci di concepire la responsabilità dell'elettore. Era, in con­seguenza, sempre più difficile mantenere la maggioranza par­lamentare nella cerchia di uomini sicuri. Si trattava, natural­mente, di temere, e, se era possibile impedire, che la Camera dei Deputati fosse invasa da forze disgregatrici e antiunitarie.

Per queste ragioni, nei dieci tormentatissimi anni di cui stiamo discorrendo, dopo la lunga politica di rilassamento di Agostino Depretis, si era passati alla estrema destra di Crispi, alla sinistra di Giolitti; poi di nuovo alla destra di Crispi, e poi ancora ad una destra puramente nominale con Di Rudinì, che allargò bruscamente i freni. Così si arrivò finalmente al Gene­rale Pelloux e al tentativo di ridurre le libertà costituzionali. Fu certamente questo clima rivoluzionario di sinistra, ad arro­ventare il cervello del regicida Bresci.

Quello del moderato Saracco era un modesto governo di transizione che preparava il passaggio ad un liberalismo di sini­stra molto più avanzato. Ma il regicidio dimostrava che i timori patriottici dei «reazionari» erano più che fondati. I movimenti di sinistra investivano fatalmente la Monarchia. Questa non era una istituzione storica consumata dai secoli e dall'uso, che si potesse in qualsiasi momento sostituire con la Repubblica: essa era il compromesso unitario, liberamente e consapevolmente ac­cettato da tutte le componenti del Risorgimento. L'unico compro­messo possibile e valido, ancora oggi. Il crollo della Monarchia avrebbe significato non l'inizio di un esperimento mazziniano, ma un tumultuoso esperimento di affrettate e rivoluzionarie rifor­me sociali, che in quella Europa e in quella Italia avrebbero scatenata la reazione, non degli artefici dell'unità, ma delle forze retrive che erano state compresse dal Risorgimento. E che cosa se non l'unità e l'indipendenza si sarebbero perdute in quella catastrofe inevitabile? E che cosa, infatti, si è perduto nella cata­strofe del 2 giugno 1946, se non l'unità e l'indipendenza della Patria?

C'erano, dunque, in quel 1910, molte buone ragioni per restrin­gere i freni, per limitare le libertà e per ridurre il suffragio. Alle classi lavoratrici si sarebbe potuto dire che, in ultima analisi, il loro primo interesse era, appunto, nell'unità e nella indipendenza. Senza unità e indipendenza, qualsiasi conquista sociale sarebbe sfumata.

Se si fosse seguita questa politica, alla quale il Paese era psicologicamente preparato, la Dinastia vi avrebbe trovato la sua convenienza: la parte più fanatica dei «risorgimentali», si sarebbe stretta maggiormente intorno alla Corona; questa classe dirigente sarebbe stata accresciuta dall'appassionato consenso di tutti gli altri ceti conservatori. La Dinastia, insomma, si sa­rebbe fatta quella solida base nazionale di cui Umberto e Mar­gherita avevano sentito la mancanza.

Ma Vittorio Emanuele III non fu di questo avviso. Egli scelse consapevolmente la via più aperta e più rischiosa in un momento in cui, di fatto, se non di diritto, la sua opinione aveva valore decisivo. La solenne promessa di rispettare le libertà co­stituzionali, scaturita liberamente dal suo cervello, fatta in quel momento, mentre era ancora caldo il corpo esanime del padre ucciso dalle sinistre, significava respingere nettamente la tesi «reazionaria» e aderire nettamente alla tesi di Giolitti, che era un uomo di sinistra, temuto e combattuto dalla destra patriottica come un pericoloso avventuriero.

Da quel 1910 nacque progressivamente la «dittatura parla­mentare» di Giovanni Giolitti, quel periodo aureo del nostro Paese che uno storico molto brillante ed acuto, doveva denomi­nare, la «Monarchia socialista». In verità, l'Italia si è fatta — quell'Italia che, nonostante tutto, ancora dura — tra il 1900 e il 1912. Dodici anni di vita operosi sono molti nella vita di una nazione moderna: si accumulano tante energie che, poi, due o tre catastrofi non bastano a disperderle. Alla base di quel felice periodo c'è l'incontro di due uomini e di due caratteri. Un Re e un Ministro: il ministro adatto a quel Re, e il Re adatto a quel ministro, sebbene l'uno e l'altro si amassero poco o nulla. Ma erano ugualmente e armonicamente, servitori dello Stato.

Erano, tanto Vittorio Emanuele III che Giovanni Giolitti due temperamenti, per dirla in termini brutti, ma moderni, «antieroici» in senso liberale. Ma se questo era logico e normale, in un uomo come Giolitti, che era nato e cresciuto nella vecchia Sinistra italiana antieroica e sdrammatizzatrice in opposizione alla Destra storica, che era per le sue stesse origini, eroica e romantica, appariva singolare e ammirevole nel Re.

Il giovane Principe di Napoli, figlio di due più brillanti Sovrani d'Europa, di Umberto e Margherita, che regnarono con pre­stigio, con lustro, con impegno anche mondano, per rispondere agli ideali e al sentimento degli italiani che avevano fatta l'Italia una, il giovane Principe, dicevo, si era fatta una personalità e un carattere del tutto moderni; anzi, purtroppo, in grande anticipo sul livello morale, civile e democratico raggiunto dal popolo italiano. Egli volle essere, in tutti i gradi della sua rapidissima carriera, soprattutto un soldato estremamente coscienzioso e consapevole dei suoi doveri. Un soldato prima che un Principe. E come soldato venne trattato, in ogni grado, dai suoi superiori, e persino con particolare severità. (Ricorderemo, qui, per inciso, che suo genero, il Conte Calvi di Bergolo, fu sempre l'ultimo ad essere promosso). Da Principe Ereditario e da Re, Vittorio Ema­nuele si fece una vita privata estremamente semplice. Marito affettuoso, padre tenerissimo, egli era un uomo che aveva tutte le comprensioni e tutte le indulgenze che un capo deve avere in un secolo e in una società liberali; ma non aveva nessuno indul­genza, nemmeno la più piccola, per sé stesso. Egli ha condotto per tutta la vita una esistenza letteralmente spartana. Gli svaghi che si concedeva, gli hobbyes, come oggi si dice, erano quelli di un normale uomo tranquillo: la pesca, che è il rifiuto di coloro che hanno una forte vita interiore e una intensa capacità di riflessione, e la numismatica, che alcuni storici e cronisti molto sprovveduti e faziosi hanno persino deriso.

Ma se i cronisti e gli storici si lasciassero guidare da un tantino di curiosità umana e intellettuale, non pronuncerebbero dei giudizi così affrettati. La numismatica è certamente una disciplina secondaria e sussidiaria. Tuttavia, quando viene colti­vata in modo scientifico e sistematica, essa coltiva ed esalta parecchie discipline. Il numismatico si introduce profondamente nella storia delle epoche e del paese, attraverso la vita economica; il rapporto tra il peso e il valore, lo informano con esattezza sulla maggiore o minore prosperità di un certo paese in una certa epoca, sui suoi traffici, sui suoi costumi. La qualità della lega, la perfezione del conio, la bellezza dei profili, gli danno una esatta nozione del livello di cultura e di progresso di quel certo Paese. Insomma, noi siamo sicuri che un valente numi­smatico è uomo dotato di profonda cultura storica ed economica e di notevole discernimento artistico. Esattamente la sapienza e le qualità che servono ad un moderno Re costituzionale.

Per fare un paragone storico e calzante, la Famiglia Reale italiana volle essere esempio e specchio, non per un'aristocrazia, ma per una società borghese in rapida progressione, esattamente come la Regina Vittoria e il Principe Consorte erano stati specchio ed esempio dell'Inghilterra liberale e borghese.

Durante il primo quindicennio del secolo, — quello che fu detto delle Monarchie Socialiste, — si ebbero il risanamento delle pubbliche finanze, un primo avviamento dell'economia industriale, una serie di provvidenze sociali che furono le prime in Europa, un consistente e generale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, un certo ragionevole equilibrio nella lotta di classe, la libertà di sciopero ormai pienamente acquisita, l'allar­gamento del suffragio elettorale, e persino la prima affermazione dell'Italia come grande potenza in campo internazionale.

Voglio alludere alla guerra italo-turca del 1911-12, che venne condotta con estrema preveggenza, serietà ed energia, diploma­ticamente, finanziariamente e militarmente. La guerra, di grande impegno e di notevole rischio, venne diretta da uomini di pri­m'ordine, ognuno dei quali era il «giusto uomo nel giusto posto»: Giovanni Giolitti Presidente del Consiglio, il Marchese di San Giuliano Ministro degli Esteri, il generale Conte Pollio capo di Stato Maggiore, il Generale Caneva comandante del corpo di spedizione.



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