Articolo del 1961
La Segreteria Generale
dell'Unione Monarchica Italiana è lieta di portare a conoscenza degli amici
dell'U.M.I. l'articolo di Giovanni Spadolini, pubblicato dal «Il Resto del
Carlino» in data 17 marzo. Pur facendo ampie riserve su alcune affermazioni
dell'Autore, la Segreteria Generale è d'opinione che la profonda dottrina e la
forma impeccabile dell'articolo meritino un'attenta lettura da parte di tutti i
monarchici.
«Vittorio Emanuele II Re di Sardegna Cipro e di Gerusalemme». Così è intestato per l'ultima volta un decreto della Gazzetta Ufficiale di Torino, l'ultimo della serie degli Stati sardi. gra 17 marzo 1661: e quello stesso decreto - uno dei più brevi nella storia del diritto pubblico italiano - consta di un solo articolo, di un articolo incisivo ed eloquente: «Il Re Vittorio Emanuele assume per sé e suoi successori il titolo di Re d'Italia».
Un solo articolo; ma quante
discussioni in entrambi i rami del Parlamento che da un mese non è più
subalpino ma già italiano! Lo ha presentalo, all'approvazione dei colleghi, il
conte di Cavour; lo hanno illustralo i decani di palazzo Carignano e di palazzo
Madama in mezzo agli applausi delle assemblee. Ma la Commissione del Senato -
la roccaforte del vecchio ordine dinastico e savoiardo avrebbe voluto che a titolo di Re d'Italia fosse aggiunta una
precisazione, «per provvidenza divina e voto della nazione», una precisazione
in cui la pregiudiziale del vecchio diritto patrimoniale e feudale del «Re di
Sardegna di Cipro e di Gerusalemme» prevalesse, attraverso quel solenne
richiamo all'origine divina della Monarchia, sulla vicenda pur gloriosa del
suffragio popolare e nazionale. Il compromesso che ne seguì - dopo dibattiti
accaniti ma avvolti nell'ombra - è noto: il Re d'Italia, il Re galantuomo, sarà
Sovrano «Per grazia di Dio e per volontà della Nazione», per un innesto quasi
miracoloso fra il principio della legittimità trascendente, fondamento della
dinastia piemontese, e quello della sovranità popolare, unica e insostituibile
base della Monarchia italiana.
Per soddisfare i vecchi
conservatori piemontesi, per placare gli ambienti di corte, Vittorio Emanuele
sarà secondo e non primo, come avrebbero voluto i democratici avanzati ansiosi
di una «nuova storia». Non solo: ma con un voto solenne connesso alla
proclamazione del Regno il principe ereditario sarà sempre e comunque il «principe
di Piemonte», quasi a consacrare in quell'omaggio la primazia della terra che
alla causa dell'unità italiana ha dato più di ogni altra, che al trionfo della
rivoluzione nazionale ha offerto la struttura di uno Stato e la lealtà di una
Dinastia.Re « per grazia di Dio e per volontà della Nazione »; rispettoso della
gerarchia dei propri avi; legato alla tradizione
sacra del vecchio Piemonte. Sì: ma Vittorio Emanuele II, il « Re eletto » (come
si vede ancora in certe rare monete del '59 toscano o emiliano), sarà
soprattutto il Re degli italiani, il Re della nuova Nazione italiana nata dallo
sforzo congiunto dell'iniziativa diplomatica e dell'iniziativa rivoluzionaria.
Come tale lo
sentì la fantasia popolare; come tale lo intuì la coscienza nazionale in quella
storica giornata del 17 marzo 1861 che fu accompagnata dal
rimbombo — in
tutte le città della penisola — di centouno colpi di cannone. Nessuno più
adatto di Vittorio Emanuele II ad impersonare, davanti alla Patria nascente, la
nuova sovranità monarchica nata dai plebisciti e consacrata dai Parlamento. 'Re
popolare; Re del popolo tutto. Un concetto della regalità così diverso da
quello, angoloso e romantico, del padre Carlo Alberto. Un sentimento di
italianità che non era eco di meditazioni libresche, che non era frutto di
influenze giobertiane, ma parte viva ai un temperamento generoso e passionale,
incapace di adattarsi al ruolo di « Monsù Savoia ». Un'apertura al «colloquio»
umano che era mancata agli avi Savoia tutti chiusi nel loro geloso scrigno di
sovranità alpigiana: un'apertura che conquistava i tiepidi, che impressionava
gli avversari, che piegava i nemici.
Re democratico
anche in certi tratti psicologici, negli eccessi di carattere, negli eccessi
d'amore. Re che era partito per la spedizione delle Marche e del Mezzogiorno
con la «bella Rosina»: contravvenendo agli ordini di Cavour ma portando
nell'impresa italiana una nota di galanteria e di calore che si incontrava
benissimo con la mistica popolana delle «Camicie rosse». Re costituzionale: ma
non senza una nota di potere personale che piaceva ai garibaldini, seguaci
tutti della «dittatura popolare», cara al loro Eroe. Garanzia anche per gli
avversari politici: Vittorio Emanuele II era il Sovrano che aveva sempre
protetto Garibaldi, che aveva trattato con le forze volontarie anche dopo Villafranca.
che aveva mantenuto inalterati i rapporti col Generale anche quando il
contrasto con Cavour aveva toccato le punte più aspre.
Galantuomo
sempre. Galantuomo quando salvò lo Statuto nonostante la sua educazione rigida
e conservatrice che lo portava in tutt'altro senso, che lo esponeva a
tutt'altre influenze. Galantuomo quando conservò le leggi laicizzatrici
nonostante i suoi profondi sentimenti di cattolico e i suoi trepidi rapporti di
amicizia con Pio IX. Galantuomo quando si inchinò alla grandezza di Cavour e
consentì allo statista — di cui avvertiva, con una punta di insofferenza, tutta
la superiorità ideale — di portare a termine il geniale piano per l'unità
d'Italia.
Trionfo di
Vittorio Emanuele II e di Cavour: quello storico 17 marzo 1861. Il Re in primo
piano; il grande Ministro un po' sullo sfondo, pronto a dimettersi — qualche
giorno dopo — per far posto agli elementi meridionali nella compagine del
governo (e primo incarico non andrà a lui, andrà a Ricasoli). Ma soprattutto
trionfo — oltre le persone, oltre i protagonisti — di un principio storico che
nella rivoluzione italiana celebrava per la prima volta le sue vittorie: il
principio dello Stato nazionale costruito attraverso la libertà, non frutto di
conquista, non opera di violenza, ma espressione di un grande moto popolare
disciplinato dalla legalità e, diciamolo pure, dalla legalità democratica.
Attraverso il «Regno
d'Italia» — questa formula che fu subito tanto cara ai liberali inglesi e ai
democratici francesi — qualcosa di veramente nuovo si aggiungeva alla carta
politica d'Europa prima ancora che a quella geografica. Qualcosa che non era la
Monarchia prussiana strumento ferreo di unità ma al servizio dell'autoritarismo
e non era neppure, l'eco della Corona francese consacrata dal suffragio
popolare ma attraverso i crismi del cesarismo. Qualcosa che era lontano dal
diritto divino dei Re ma anche dalle improvvisazioni democratiche del
Quarantotto. Non Monarchia conservatrice, - perché fondata — attraverso i
plebisciti — sul diritto popolare, ma neppure Monarchia rivoluzionaria, perché
sottratta all'ipoteca mazziniana di Dio e popolo ». Non radicalismo; ma neppure
reazione.
Nato con
quel sigillo, con quel sigillo di moderazione e di equilibrio, il Regno
d'Italia occupò subito un posto altrettanto inconfondibile nella vita europea.
«Figlio della libertà» (così come amava chiamarsi Cavour), non poteva che prosperare
e vigoreggiare nella libertà. Monarchia plebiscitaria che aveva abbattuto
sette troni e lacerato il potere temporale del Papa, la Corona sabauda non
poteva sperare di sopravvivere scendendo a patti con le forze del legittimismo.
Monarchia laica per definizione e per necessità, avrebbe dovuto fronteggiare
per sessant'anni l'ipoteca del Vaticano su Roma, incarnare i diritti dello
Stato contro l'antica rivendicazione teocratica. Monarchia liberale per lo
spirito stesso che la animava, non poteva piegare a propositi di reazione; e
tutte le volte che lo fece (si veda il Novantotto) mise a repentaglio la sorte
fisica- dei Sovrani e quella morale del trono.
Dal 1861 al
1914, la grandezza del Regno d'Italia fu tutta lì: in quel misterioso
equilibrio fra il principio di ordine e il principio rivoluzionario che
risolveva a suo modo l'esigenza, per un paese nuovo, di una nuova legittimità.
Correggendo errori, riparando a impazienze e a debolezze, la Monarchia
italiana finì per aderire a una profonda esigenza dell'anima nazionale: e il
periodo giolittiano coincise con un suo rinnovato splendore. con uno splendore
calmo e non luccicante, di stile
quasi cavouriano. Ma venne poi il '14, il maggio radioso, la violenza
dell'interventismo, la grande e gloriosa ma anche prematura esperienza della
guerra: quei valori «sacri», quei valori - «religiosi». che nella data del 17
marzo 1861 si simboleggiavano persero graduai. mente il loro fascino, la loro
forza di richiamo. La dittatura cambiò tutti i termini del quadro; rese
perfino irriconoscibili il linguaggio e lo stile. Della vecchia Monarchia
liberale rimase in piedi solo la struttura, la facciata; ma dietro quella
facciata esteriore — ancorata solo alle rigidità del protocollo — tutto fu
trasformato, tutto fu sovvertito.
Cent'anni di
storia; e quale storia! Ventuno milioni di italiani, il Regno d'Italia appena
nato; cinquanta, lo Stato repubblicano di oggi. Suffragio ristretto allora;
suffragio universale oggi. Democrazia appena in fasce, in quei giorni:
democrazia articolata e in espansione. oggi. Ma il significato di questa
ricorrenza è uno solo: invitarci a non scordare il senso profondo della nostra
storia, a conservare «in scrinio pectoris n la poesia di tradizioni che
sono forza di noi stessi, alimento alla vita di un popolo, aiuto nelle scelte
supreme.
Il Regno d'Italia, il Regno di Cavour e di
Ricasoli, non è più; e non è più da un pezzo. Ma la lezione di quegli uomini e
di quei tempi vive in noi con la forza di un esempio incomparabile. Quella è la
nostra patria, è la nostra patria lontana. Non dimentichiamola; perché potremmo
rischiare di smarrire noi stessi.
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