di Aldo A. Mola
Uomini e cose tra Sette e Ottocento
La rivoluzione industriale e i movimenti politici tra Sette e Ottocento compressero enormi energie e sprigionarono nuove libertà. A volte ci si sofferma sugli effetti appariscenti più che sui meccanismi che li determinano, sulle luci iridescenti della “giostra” anziché sulla “macchina” che la fa ruotare. Non sempre dagli eventi si risale alla loro progettazione. Perciò la rivoluzione industriale e i movimenti “di massa” parvero e ancora vengono descritti come una macina destinata a comprimere e annientare persone e cose. Invece quell’epoca segnò il trionfo della forza nuova, prodotta dall’intelligenza umana che ideò, produsse e utilizzò la seconda natura. L’industrializzazione modificò il rapporto tra l’uomo e la natura e tra l’uomo e se stesso.
In Occidente, cioè in Europa e nelle Americhe, la riduzione dell’uomo a “cosa meccanica”, a un “aratro vivente” come il filosofo greco Aristotele denominava gli schiavi, fu combattuta e modificata anzitutto dal cristianesimo, che affermò la dignità della persona umana. L’affermazione dell’uomo come soggetto di libertà nello Stato trionfò con le rivoluzioni di fine Settecento in America e in Europa, alimentate dai Lumi, con l’avvento dell’idea di nazione e con il nuovo cristianesimo: fratellanza universale, dignità degli uomini ed emancipazione delle donne, che il Codice napoleonico aveva ancora relegato in seconda fila.
La rivoluzione industriale non venne progettata e attuata da un Potere unitario o da “ingegneri sociali” con un piano occulto. Fu la conseguenza di una somma di eventi, in parte determinati da innovazioni e scoperte, in parte prodotti dal caso.
Gieseppe Mazzini: Romanticismo...
In questa cornice si colloca il dramma, cioè la presenza sulla scena storica, di Giuseppe Mazzini (Genova, 22 giugno 1805 - Pisa, 10 marzo 1872).
Per molti italiani Mazzini è il profeta della repubblica, il patriota che sacrificò la vita per l’Italia una, indipendente e repubblicana. Mazzini volle però essere molto di più. Per lui la Nuova Italia non sarebbe sorta davvero se non con la formazione di un Uomo Nuovo, il cittadino. Non solo. L’indipendenza e l’unificazione per Mazzini erano, dovevano essere, norma di un nuovo ordine universale, la liberazione di tutte le nazioni; emancipazione da ogni forma di oppressione; avvento della fratellanza universale e di una religiosità libera dalle chiese, cioè da organizzazioni fatalmente destinate a inaridire la fede, a impoverire lo Spirito in “pratiche”. Infine Mazzini credeva fermamente nell’immortalità dell’“animo” e nella comunione tra i viventi e gli angeli.
Concepì gradualmente “credo politico” e obiettivi conseguenti. Non li espose mai in un’opera organica. Le sue “opere edite e inedite” e il suo epistolario contano oltre cento volumi. Pubblicò Note autobiografiche per introduzione a una raccolta di suoi scritti, ma non vere e proprie Memorie, né un’autobiografia, perché la sua vita fondeva quotidianamente pensiero e azione al calor bianco della politica, fatta di cospirazione, agitazione, apostolato, reticolo fittissimo di rapporti segreti e di iniziative alla luce del sole.
La sua opera più famosa, I doveri dell’uomo, non è né un trattato né l’esposizione organica di un progetto. È il manifesto di una nuova umanità. Comprende pagine di alta letteratura, di spiritualità, talvolta di perorazione e preghiera più che di pensiero politico vero e proprio. Perciò nel 1902 essa fu pubblicata per le scuole su proposta del ministro della Pubblica istruzione, Nunzio Nasi, massone, e per decreto del re d’Italia Vittorio Emanuele III. Cancellate alcune frasi scomode per la monarchia, i Doveri erano incitamento al patriottismo, al civismo. Contrappongono l’idealismo al materialismo, la fratellanza agli interessi di classe, il sacrificio al calcolo. Nel 1904 il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti promosse l’edizione nazionale delle opere di Mazzini, a conferma della compatibilità tra spiritualismo mazziniano e monarchia costituzionale.
..e politica
La vita di Mazzini fu scandita in diverse stagioni, fatte anche di dubbi, sconforti, drastiche svolte. Essa ebbe però una continuità di fondo. Una sorta di melodia ora malinconica ora tragica che ne accompagnò le molte fasi, scandite da iniziazione e profezia. La madre, Maria Drago, lo educò all’amore per l’Italia e all’etica del sacrificio, nel solco dei grandi spiriti, da Dante a Ugo Foscolo. A sedici anni Giuseppe vide i liberali piemontesi, sconfitti nel 1821, in partenza da Genova per l’esilio: uno spettacolo di amara desolazione ma capace di infondere generosa fiducia nella Storia se dominata dal pensiero e dall’azione: formula che ricalca l’identificazione di reale e razionale di Hegel, ma senza “rassegnazione”, né al Fato né agli dèi.
Con quelle premesse, a ventidue anni Mazzini si fece iniziare alla Carboneria, associazione segreta impregnata di religiosità e di patriottismo. Arrestato su delazione (13 novembre 1830) e incarcerato a Savona, posto dinnanzi alla scelta tra confino ed esilio (18 gennaio 1831), scelse l’espatrio. Dopo un soggiorno a Ginevra e a Lione, fondò a Marsiglia l’associazione segreta “Giovine Italia”. Essa escluse chi contasse più di quarant’anni, cioè fosse nato prima della Convenzione repubblicana francese del 1792, assunta a spartiacque della storia come già aveva intuito Wolfgang Goethe. La “Giovine Italia” segnò una cesura generazionale. Un bene? Una forzatura? Per dar vita a un nuovo corso, Mazzini ruppe il legame ideale e pratico con quanti avevano vissuto l’età napoleonica e la restaurazione con tutte le loro contraddizioni, i compromessi, i tentativi di conciliare il vecchio e il nuovo. Gli associati giuravano di volere l’Italia “una, indipendente, libera e repubblicana” e di prestare obbedienza totale. Il tradimento era punito con pene severe, incluse la morte e la damnatio memoriae.
Mazzini sublimò il suo rapporto con la famiglia originaria nell’appassionato carteggio con la madre. Non estraneo alle passioni naturali, ebbe un bimbo da Giuditta Sidoli, a sua volta esule politica, vedova e già madre di quattro figli, ma non lo riconobbe né se ne occupò. Non formò mai una famiglia propria, perché si dichiarava votato a una missione universale. I primi tentativi di attuare il programma della “Giovine Italia” ebbero esiti catastrofici. Molti associati furono scoperti, arrestati, torturati, condannati anche alla pena capitale. Uno tra i suoi amici più cari, Jacopo Ruffini, si uccise in carcere nel timore di non reggere agl’interrogatori sotto tortura. L’invasione della Savoia per suscitare l’insurrezione generale nel regno di Sardegna, naufragò miseramente (1834). A Genova il trentasettenne capitano di marina Giuseppe Garibaldi, che doveva agire in concomitanza, si trovò solo all’appuntamento con l’insurrezione e scampò all’arresto con rifugiandosi in Francia, inseguito dalla condanna a morte per diserzione.
Mazzini non resse alla prova del fuoco. Si smarrì. Malgrado il cocente insuccesso, alzò il tiro con la fondazione della “Giovine Europa”. Il riscatto dell’Italia doveva accompagnarsi alla redenzione di tutte le nazioni oppresse. Rimase convinto che l’insurrezione e la proclamazione della repubblica anche in un solo villaggio avrebbe scatenato la rivoluzione generale: un’illusione che costò tanti sacrifici ed esasperò la sua contrapposizione ai moderati, bollati come codardi.
Costretto a migrare dalla Svizzera alla Francia, ora arrestato ora espulso, nel 1837 Mazzini approdò a Londra. Dopo la “tempesta del dubbio” accentuò l’aspetto profetico della sua missione. Fondò il periodico L’apostolato popolare per educare e contrastare il materialismo dilagante. Molti pensarono che fosse segretamente finanziato da governi, correnti politiche e gruppi religiosi, anzitutto inglesi, che erano i beneficiari politici della sua azione perché destabilizzava il sistema della Santa Alleanza.
Altre iniziative ispirate dal suo insegnamento ebbero esito tragico. Fu il caso della spedizione guidata dai fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, ufficiali della Marina asburgica. Arrestati, vennero fucilati coi loro seguaci al vallone di Rovito (Cosenza, 1844), confortati da un sacerdote massone.
Nel 1831 Mazzini aveva sfidato il trentatreenne Carlo Alberto, appena asceso a re di Sardegna, a prendere la guida dell’unificazione italiana. Per assecondare quel disegno si dichiarò pronto a sacrificare l’opzione repubblicana all’obiettivo dell’unità. Altrettanto fece l’8 settembre 1847 con una lettera pubblica a Pio IX. Nel 1848-1849 cercò invece di sottrarre l’iniziativa politico-militare sia a Carlo Alberto, sceso in guerra contro l’Austria, sia a Pio IX, il cui miglior ministro, Pellegrino Rossi, fu assassinato (con rituale settario, si disse) appena nominato presidente del governo.
Accorso a Roma, ove su impulso di Carlo Luciano Bonaparte e Giuseppe Garibaldi il 9 febbraio 1849 era stata proclamata la repubblica, Mazzini fece parte del triumvirato di governo col forlivese Aurelio Saffi e Carlo Armellini (29 marzo) e vi pubblicò “L’Italia del Popolo”. Si dimise il 30 giugno, quando la Repubblica stava crollando sotto l’offensiva delle truppe inviate da Luigi Napoleone Bonaparte, principe-presidente della repubblica dei francesi e poi imperatore. Riprese le fila della cospirazione, il suo programma conobbe altre tragiche pagine con l’arresto e l’impiccagione di affiliati, incluso il sacerdote Enrico Napoleone Tazzoli, e con il clamoroso insuccesso dell’insurrezione milanese del 6 febbraio 1853. Pensava di avervi 5-10.000 seguaci. Se ne contarono una ventina. Il 13 febbraio scrisse: “Mi ritiro completamente dal lavoro di cospirazione in Italia”. Il 23 dichiarò: “Il Comitato Nazionale Italiano è disciolto”; ma poi riprese l'azione. Non solo si oppose (con tanto di malaugurio) alla partecipazione del regno di Sardegna alla guerra franco-anglo-turca contro la Russia, che consentì a Cavour di proporre la “questione italiana” all’attenzione delle grandi potenze nel Congresso di Parigi del 1856, ma organizzò un’insurrezione a Genova. Fu pertanto condannato a morte, mentre il tentativo di Carlo Pisacane di incendiare il Mezzogiorno con un’invasione fallì miseramente (1857).
Ormai schivato dalla Società Nazionale Italiana, da Garibaldi e dalla maggior parte dei patrioti, nel 1859 Mazzini tramò ai danni dell’alleanza franco-piemontese contro l’Austria, tentò di precedere i fiduciari del governo di Torino nelle terre poi annesse e nel 1860 cercò di dirottare l’impresa dei Mille guidata da Garibaldi con l'insegna “Italia e Vittorio Emanuele” verso la proclamazione della repubblica, ma non ottenne alcun successo. L’antico carbonaro, massone e patriota milanese, a lungo imprigionato allo Spielberg, Giorgio Pallavicino Trivulzio, presidente della Società Nazionale, gli intimò ruvidamente di lasciare Napoli perché “pur non volendolo, voi ci dividete” e invitò a votare per l'“Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele II re costituzionale”.
Sconfitta politica, vittoria postuma?
Il 5 novembre 1860 Mazzini stilò a Caserta il programma dell’Associazione Unitaria Nazionale ma subito dopo lasciò l’Italia per Londra. Tramite Demetrio Diamilla Muller nel 1863 ebbe contatti con Vittorio Emanuele II per affrettare l’annessione del Veneto all’Italia, ma aveva ormai scarso seguito e modesta influenza. La nascita dell’Internazionale socialista (Londra, 1864) ne accentuò l’isolamento nell’ambito del movimento operaio europeo. L’ascesa militare della Prussia, la riorganizzazione dell’Impero d’Austria con il riconoscimento dell’Ungheria e il declino di Napoleone III quale promotore delle nazioni finirono per nuocere proprio al progetto mazziniano di un’Europa dei popoli. Dal 1864 l’influenza di Mazzini sui democratici italiani fu messa apertamente in discussione da Garibaldi (accolto trionfalmente a Londra), che gli rimproverava di aver intralciato l’unità d’azione nelle fasi cruciali delle guerre per l’indipendenza. Francesco Crispi proclamò alla Camera che la monarchia univa mentre la repubblica avrebbe diviso. Nel 1866 Mazzini tentò di ostacolare l’alleanza con la Prussia contro l’Austria e deprecò la conclusione della terza guerra d’indipendenza, che all'Italia fruttò l'annessione di Venezia. L’insorgenza repubblicana a Palermo non ne accrebbe il prestigio.
In settembre l’“Apostolo” pubblicò il manifesto dell’Alleanza repubblicana universale. La Camera annullò due volte la sua elezione a deputato nel collegio di Messina. Rieletto una terza volta, rifiutò il seggio perché la sua assunzione comportava il giuramento di fedeltà allo Statuto. Il crepuscolo incombeva. Visitò a Lugano Carlo Cattaneo poco prima della morte (2 febbraio 1869).Tentò ancora di riorganizzare i repubblicani, sia con un convegno a Lugano sia con un incontro a Genova, presieduto dal genero di Garibaldi, Stefano Canzio (marzo 1870). All’inizio della guerra franco-germanica del 19 luglio 1870, quando il governo italiano mise in cantiere l'annessione di Roma, partì per la Sicilia deciso a suscitarvi un’insurrezione che avrebbe dissuaso il governo da qualsiasi aiuto a Napoleone III, ma fu arrestato e imprigionato a Gaeta. Amnistiato per la seconda volta in breve tempo (14 ottobre), venne tradotto senza fretta al confine svizzero. Transitò per Roma, ma non volle uscire dalla stazione per rivedere la città. Ormai era annessa al Regno, con Vittorio Emanuele II al Quirinale e Pio IX in Vaticano. Due monarchie, una costituzionale, l’altra assoluta. La Repubblica? A Pisa sostò nella casa di Enrichetta Nathan Rosselli. A Genova si raccolse in meditazione sulla tomba della madre. Poi raggiunse Lugano e da lì Londra, sorvegliato ma non “ricercato”. Aveva perso tutte le battaglie.
Nel febbraio 1871 tornò a Lugano per organizzare il Patto di fratellanza tra le società operaie italiane, ufficialmente avversato dal governo di Roma, che nondimeno lo preferiva alla propaganda dell’internazionale anarchica e social-rivoluzionaria, perché comunque poneva in primo piano l’Italia e gli italiani.
Il 6 febbraio 1872 Mazzini raggiunse Pisa in incognito, ospite dei Nathan Rosselli. Sapendolo infermo, il governo sorvegliò con discrezione e ne garantì il sereno trapasso in patria. Morì il 10 marzo, vegliato da Sarina Nathan, Felice Dagnino, Agostino Bertani, capofila dei radicali, e da Adriano Lemmi, il “banchiere della rivoluzione”, che lo avvolse nello scialle già posto su Carlo Cattaneo morente, a suggello della continuità ideale di mazziniani unitari e federalisti, mentre albeggiavano i radicali, avviati alla conciliazione con la monarchia costituzionale.
Imbalsamata, la sua salma fu trasferita al cimitero di Staglieno (Genova) con un solenne trasporto per ferrovia, come narrò Sergiò Luzzatto nell'eccellente La mummia della Repubblica (Rizzoli). Fu salutata a ogni tappa da folle commosse. Meta di pellegrinaggio, la sua tomba rivaleggiò con il garibaldino Scoglio di Quarto quale simbolo del patriottismo italiano. Il giorno della sua morte fu adottato per la celebrazione dei defunti da parte della massoneria italiana, che lo esaltò gran maestro dell’“idea”. Mazzini tuttavia non fu mai iniziato né frequentò alcuna loggia per la radicale diversità tra il suo programma, tutto politico, e il “metodo massonico”, transnazionale, tra la “fede” e il “dubbio”. La sua superiorità alle sconfitte può insegnare molto anche a “monarchici” che hanno dissipato 10.700.000 dei voti ottenuti il 2-3 giugno 1946. Questione di “fede”?
FOTO E BOX
MAZZINI, UOMO UNIVERSALE
Nel 1871 Mazzini dette impulso al settimanale “Roma del Popolo”, diretto da Giuseppe Petroni, condannato a morte dal governo di Pio IX e per quasi vent’anni prigioniero politico. Il foglio si contrapponeva alla Roma dei papi e a quella di Vittorio Emanuele II, che però anno dopo anno attrasse radicali e repubblicani transigenti (come il “fratello” Aurelio Saffi, nel 2019 biografato dall’Associazione culturale di Forlì, che ne assunse il nome nel 1900) all'insegna dell’unità della patria e della concordia dei cittadini.
Nel 1890, su proposta del governo presieduto da Francesco Crispi, il Parlamento deliberò l’erezione in Roma del monumento nazionale a Mazzini (opera di Ettore Ferrari, venne “scoperto” all'Aventino solo nel 1949). La Nuova Italia lo riconosceva tra i suoi profeti, come spiegò alla Camera il ministro della pubblica istruzione, Michele Coppino, massone. Due anni dopo a Genova venne fondato il partito dei lavoratori italiani, poi partito socialista italiano, contrapposto anche al mazzinianesimo ma alimentato da società operaie di matrice mazziniana. Dal canto suo il partito repubblicano italiano, nato nel 1897 con il motto “definirsi o sparire”, affiancò al suo magistero quello di altri repubblicani, come Alberto Mario.
Mazzini fu dunque un “uomo universale”, come scrisse l'esoterista Carlo Gentile. Le sue idee si propagarono ovunque. La sua immagine ascetica affascinò. Col tempo fu dimenticata la catena dei suoi errori politici dall'esito spesso tragico. Rimase l’esempio di rigore e coerenza. Mazzini divenne emblema della speranza di tempi migliori e della necessità di impegnarsi per realizzarli. Mostrò che le idee si affermano attraverso la comunicazione: lettere, circolari, manifestini, giornali, associazioni, leghe, partiti... Non basta averne; bisogna diffonderle. Non per caso si propose come Apostolo. Evangelista, aggiungiamo. Religioso nell’età del materialismo, profeta di sentimenti contro l’aridità dell’affarismo, fu il maggior romantico del Risorgimento, ma nell’edificazione della Terza Italia venne eclissato da due passionali di buon senso, Vittorio Emanuele e Giuseppe Garibaldi.
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