NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 25 marzo 2021

Dante e il suo tempo


 di Domenico Giglio



Aver deciso di dedicare annualmente una giornata, il 25 marzo, al nostro sommo poeta Dante – di cui quest’anno ricorre il 700 anniversario della morte -, è una delle iniziative commemorative e celebrative con cui si è unanimi concordare, non solo per il valore letterario di tutta la sua opera poetica - “mostrò ciò che potea la lingua nostra” -, ma anche per le considerazioni storiche sull’Italia, della cui unità politica e spirituale è stato senza dubbio il maggiore precursore e per una riflessione su quella sua vita così tumultuosa e sofferta che lo ho poi portato ad esprimere in così alti e nobili versi una profondità di sentimenti, riflessioni e conoscenze dell’animo umano e delle dinamiche della storia, tali da rendere la Commedia un tesoro contemporaneamente senza tempo e di ogni tempo.

Permettetemi pertanto di soffermarmi in questo breve scritto su alcune riflessioni inerenti ciò che Dante ha vissuto, in particolare in quella parte di vita dedicata all’impegno morale, alla verità e giustizia che ricercò profondamente dopo la morte dell’amata Beatrice avvenuta nel 1290, e riflessa prima nel suo impegno politico e poi a maturazione nello scritto citato, e su un’interpretazione conclusiva – strettamente personale – di uno degli enigmi dello stesso che ritengo fare luce tuttavia sul suo fine ultimo, oltre il suo medesimo intendimento esplicito.

Cominciando dalla sua posizione “politica”, la famiglia Alighieri era “guelfa”. Foscolo nel chiamare Dante “ghibellin fuggiasco” ha confuso la scelta “monarchica imperiale” di Dante, con la sua posizione “fiorentina”, che ne faceva cioè un guelfo “bianco” contrapposto ai guelfi “neri” – ferventi sostenitori del Papato e del suo potere temporale. La scelta invece di campo quale “guelfo bianco” era più in qualità di difensore del Comune rispetto all’ingerenza della Chiesa. Dopo una prima vittoria dei guelfi bianchi e di Carlo d’Angiò, le sorti si ribaltarono portando all’esilio di quest’ultimo e relativa scomunica da parte di Bonifacio VIII, stessa sorte per Dante. Anche Dante infatti subì l’(ab)uso politico della giustizia per eliminare un avversario - abuso purtroppo ancora attuale dopo 800 anni. Infatti mentre era a Roma per una ambasceria ufficiale del comune fiorentino presso il Papa Bonifacio VIII, sopraggiunti al potere i guelfi neri a Firenze, Dante, non potendo tornare a Firenze venne processato in contumacia e condannato con sentenza del 27 gennaio 1302, ad un esilio biennale, con multa di 5000 fiorini piccoli e bando perpetuo da ogni ufficio pubblico, per “fama publica referente” di baratteria, estorsione ed altri delitti. Nel frattempo a Firenze i “civili” avversari guelfi neri corsero alla sua casa, rubando ogni cosa. Di questo processo è da notare un’altra caratteristica negativa - purtroppo ripresa anche ai nostri giorni - della “retroattività” delle leggi, in quanto come scrisse Leonardo Aretino nella “Vita Dantis poetae carissimi”, “fecero legge iniqua e perversa, la quale si guardava indietro, che il Podestà di Firenze - Cante de’ Gabrielli di Gubbio - potesse e dovesse conoscere i falli commessi per l’addietro nell’ufficio del priorato – anche Dante era stato Priore dal 15 giugno al 15 agosto 1300 -, contuttoché assoluzione fosse seguita”. A questa “benevola” sentenza ne seguì nel marzo, sempre contumace, quella di essere “arso vivo”. Come se non bastasse nel 1303 sempre il comune di Firenze stabilì l’esilio per i suoi figli al compimento del quattordicesimo anno e con la sentenza del 6 novembre 1315, avendo Dante rifiutata l’umiliante proposta fiorentina di modifica della pena, venne confermata la pena di morte, estesa questa volta anche ai figliuoli rei di essere nati da un rivoltoso. E come sappiamo non potè fare mai più ritorno a Firenze.

Poche righe sì importanti per comprendere la scelta di certi esempi e personaggi nella Commedia, ma anche per ricordarne la volontà di voler esprimere coerenza ai propri impegni e pensieri, nonché purtroppo, le relative conseguenze, come uomo, come padre, come cittadino. Non da ultimo permettendomi di apprezzarne la capacità nell’adempierlo quando l’espressione più alta in ogni arte – e direi ogni vocazione – è la derivata di un coinvolgimento di una vita vissuta in tutti i suoi aspetti.

Ecco quindi la triste divisione delle popolazioni della città in partito legata a persone o famiglie. La condanna di Dante è inesorabile nel canto XXVIII dell’Inferno, dedicato a coloro che seminano discordie, ovvero coloro che hanno creato ad arte divisioni in campo religioso e politico, puniti con contrappasso assai evidente (lacerati come in vita essi stessi hanno fatto), ma non solo. La condanna alla divisione è anche nella citazione di queste famiglie, tra cui quei Montecchi e Cappelletti (Capuleti), nel canto VI del Purgatorio, che secoli dopo ispirarono la grande tragedia “Shakespear-iana”, in quella Verona dove non riuscì a rimanere, e nella condanna dei tiranni, di qualsiasi origine popolana o nobiliare. Senza dimenticare infine il dolore di un padre nel ricordare ciò a cui sono condannati senza colpa i propri figli, con la famosa invettiva per i figli del conte Ugolino della Gherardesca, chiusi nella torre, insieme con il padre, fino alla tragica morte: “Ahi Pisa…chè se il conte Ugolino aveva voce di aver tradito…non dovei tu i figliuoi porre a tal croce” (Inferno, canto XXXIII, versi 79-87).

Ancorché il più studiato – e forse conosciuto -, l’”Inferno” non è però la fine. Come anticipato, con forza e profondità di pensieri, memorie e sentimenti, Dante lascia un’eredità nobile ed ancor più attuale, soprattutto quando al male – subito e vissuto nelle proprie viscere - viene contrapposto sempre un esempio di bene e di speranza, nella vita sociale, spirituale così come nella politica, e non da ultimo nelle scelte civiche. E proprio dal Purgatorio sceglie personaggi che diano messaggi di “rinascita”, come si confà ad una ascesi verso la luce….

Ecco quindi un esempio di difensore della libertà e coerenza per la giustizia, morto per essa “… sì cara , come sa chi per lei vita rifiuta …”, Catone l’Uticense, a cui Dante assegna la funzione di Giudice del Purgatorio, pur pagano e appunto suicida (Purgatorio, canto I, versi 71-72). Grazie proprio alle virtù civili di Catone, Dante crede che Dio gli abbia dato una fede implicita in Cristo venturo, che lo pone ora in Purgatorio, e un domani in Paradiso. Un rimanere fedeli al proprio destino, alla morale, che in lui Dante (uomo e non poeta) e Catone, si esplicita anche in una “missione” politica.

Lascia inoltre enunciare tra le righe a “quell’anima lombarda ... altera e disdegnosa, onesta e tarda” (Purgatorio, canto VI, vv. 62-63) di Sordello da Goito uomo fiero e nobile, cultura della buona politica, un appello rivolto ad un potere superiore che deve assicurare pace ed equilibrio a tutti, al di sopra e al di fuori delle citate divisioni, potere di cui all’epoca se ne accusa la mancanza, e di cui il Poeta ben tratteggia, non senza toni sarcastici, il suo carattere nei versi finali del canto sesto del Purgatorio, da leggere e meditare.

Sono solo - come detto - brevi ma concreti esempi di un viaggio, sofferto, fino all’apice del Paradiso. Per questi citati ed altri mali infatti risalenti alle “tre belve” incontrate all’inizio del cammino dantesco, e particolarmente alla lupa, la fine verrà con il “…veltro, che la farà morir di doglia. Questi non ciberà terra né peltro, ma sapienza ed amore e virtute, e sua nazion sarà tra feltro e feltro” (Inferno, canto I, versi 101-105). Versi inseriti quando chi legge non conosce la fine, ma versi pensati quando chi scrive conosce “il fine”. Ecco quindi quella riflessione personale citata in premessa, sul concetto di “missione”, ben diverso da una “profezia”. La missione è “immediata”, contemporanea anche se il suo effetto può continuare nel tempo. Ancora oggi leggiamo testi di grandi predicatori, ed anche il semplice, ma stupendo “Cantico” di San Francesco o lettere di Santa Caterina da Siena. Non è quindi, a mio modesto parere, il veltro il riferimento ad una figura di qualche contemporaneo (Cangrande della Scala), anticipatore di personaggi fino al Risorgimento ed oltre, o di persone del mondo ecclesiastico o affini (un nuovo Salomone), quanto un’interpretazione che si cela nelle parole stesse del poema. Il veltro è qui un termine metaforico relativo ad un cane da inseguimento e da presa, che univa velocità e forza, adatto a combattere un altro animale, ma il fatto che non si ciberà di cose materiali, cioè non sarà avido di territori e di ricchezze, già di per sé esclude gli uomini, per grandi possano essere. Quel “tra feltro e feltro” pone invece la nascita di qualcosa che potrebbe essere riferito alla carta stessa, comprendendo l’importanza di questa pressatura. Allora ecco che il veltro potrebbe essere interpretato come la stessa “Commedia”, uno scritto appunto sulla carta, che come per il grande poeta latino Orazio, che Dante incontra nel castello degli spiriti magni, nel Limbo, avrebbe potuto sfidare il tempo, come poi effettivamente è stato, “exegi monumentum aere perennius”. Potrebbe essere Dante così superbo da ritenere la sua opera capace di tanto? No, non credo sia superbia, ma con serena coscienza, la convinzione di aver scritto qualcosa che supera i limiti dello spazio e del tempo, quel “…poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra” (Paradiso, canto XXV, versi 1-9 ).

Ecco perché “la sua nazion”, e la “sapientia, amore e virtute” possono essere i suoi cento canti e la sua missione contro cupidigia, corruzione, avarizia, ricchezza - e potere temporale della Chiesa (poi cessato il 20 settembre 1870), che han così toccato la sua vita, sempre valida ed attuale.

Queste giornate a lui dedicate e queste mie brevi citazioni sperino portino al rinnovato piacere della lettura dei suoi versi, a studi ed approfondimenti che facciano risaltare la bellezza dei suoi componimenti e l’attualità di tante intuizioni, nonché la capacità di contrapporre al male o torto subito, sempre esempi di virtù e speranza (Paradiso, canto XXV, v. 64-81), sia spirituale che umana, civile e politica. Se ciò porterà anche aprire o riaprire alcune polemiche su alcuni punti della “Commedia”, lo sarà sempre nella volontà di comprenderla a fondo e nel rilevarla la sua attualità – come testimoniato anche da recenti pubblicazioni (cito solo l’ultima in ordine di tempo di A. Cazzullo “A riveder le stelle”), confermando l’intuizione a distanza di quasi 800 anni di aggiunta di quel termine “Divina” a cui gli immediati posteri giunsero giustamente, termine con il quale da secoli ed in tutto il mondo è conosciuta.

Nessun commento:

Posta un commento