NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 31 gennaio 2021

Quali furono le responsabilità di Vittorio Emanuele III sulle leggi razziali?

di Waldimaro Fiorentino



 Mino Monicelli, in un’attenta ricostruzione dei fatti, pubblicata il 17 febbraio 1968 sul quotidiano «Il Giorno», all’epoca di proprietà dell’ENI, quindi espressione del governo repubblicano, rammenta che Vittorio Emanuele III per tre volte negò la firma dei decreti a Mussolini; ed invano attese che parlamentari, intellettuali, esponenti della società civile insorgessero; si sa, invece, che diversi docenti furono ben lieti di subentrare nelle cattedre agli Ebrei espulsi per effetto di quei Decreti.

    Vittorio Emanuele III attese che almeno dalla Chiesa venisse una indicazione; non vi fu neppure quella!

    Mino Monicelli riferisce, nell’articolo che ho citato, il colloquio avvenuto tra Vittorio Emanuele III e Mussolini il 28 novembre 1938; e lo riporta con queste esatte parole: «Colloqui re-Mussolini. Per tre volte il sovrano riesce ad infilare nel colloquio ‘provo una infinita pietà per gli ebrei’. Il duce ingoia tre volte il rospo, digrignando la mascella quadrata».

    Nel suo «Diario 1937-1938» Galeazzo Ciano parla anche lui dell’episodio; alla data 28 novembre 1938, scrive testualmente: «Trovo il Duce indignato col Re. Per tre volte. Durante il colloquio di stamane, il Re ha detto al Duce che ‘prova una infinita pietà per gli ebrei’... Il duce ha detto che vi sono 20.000 persona con la schiena debole che si commuovono sulla sorte degli ebrei. Il Re è tra quelli. Poi il Re ha parlato anche contro la Germania.... Il Duce era molto violento contro la Monarchia. Medita sempre di più il cambiamento di sistema. Forse non è ancora il momento. Vi sarebbero reazioni. Ieri a Pesaro il comandante del Presidio ha reagito contro il Federale che aveva dato il saluto al Duce e non quello al Re».

   Si sa che l’anziano Sovrano cercò di attenuare la portata di quei Decreti, anche attraverso il trasferimento di ebrei in località delle Colonie, lontano da zone soggette al predominio delle dottrine imperanti all’epoca in Europa.

    Si sa con certezza che fu proprio l’intervento del Sovrano ad ottenere considerevoli attenuazioni a favore degli ebrei. Tra l’altro, la deliberazione del Gran Consiglio del fascismo del 6 ottobre 1938, che non escluse «la possibilità di concedere... una controllata immigrazione di ebrei europei in qualche zona dell’Etiopia».

    Il duca d’Aosta ha dichiarato alla televisione che suo padre e suo zio rimasero «orripilato» (testuale) dalle leggi razziali; e che lo zio, nella qualità di Vicerè d’Etiopia, aveva pensato di salvare gli ebrei riservando una regione d’Etiopia. Ne parlò come di un sotterfugio all’insaputa del regime; mentre, invece si trattava di un accordo al quale il fascismo era addivenuto per volere di Vittorio Emanuele III, fino a far meditare a Mussolini l’accantonamento della Monarchia.

    Menachem Shelah, professore universitario a Gerusalemme e storico finito in un campo di concentramento nell’isola di Arbe, in Dalmazia, fu salvato e venne liberato dalle truppe del Regio Esercito, appena cadde il fascismo; ha scritto un libro pubblicato dall’ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito italiano, dal titolo «Un debito di gratitudine – Storia dei rapporti tra l’Esercito Italiano e gli Ebrei (1941-1943)», Roma 1991.

    In quel libro si documenta come il Regio Esercito, di educazione e di sentimenti monarchici, fu esemplare nel salvataggio di un grande numero di ebrei il quali, su ogni fronte fuggivano dalle zone occupate dai tedeschi, per riparare sotto la protezione dei nostri reparti; come di legge nella supplica: «...scritta dai profughi di Sarajevo rifugiati a Mostar, cioè sotto il controllo italiano, che descrive i martirî sotto il governo ustascia e il destino che avrebbero atteso quei poveretti se fossero stati riconsegnati. In tale supplica si legge, tra l’altro: ‘... l’invio ad un campo di concentramento croato significherebbe... una condanna a morte... una morte lenta, tra infiniti tormenti’».

    Altrettanto fermo fu il comportamento del Regio Esercito nei confronti delle pressioni tedesche.

    C’è un rapporto dell’Ambasciatore germanico a Zagabria Siegfrid Kasche (ne parla Menachem Shelah, ell’op. cit. alle pagg. 74-75) che, nell’agosto 1942, scriveva: «...la protezione concessa dagli italiani agli ebrei impedisce la completa attuazione dell’accordo tedesco-croato riguardante la deportazione all’est degli ebrei del posto. La permanenza in Croazia potrà incoraggiare i partigiani e provocare attriti tra noi e gli italiani».

    Nel presentare il libro, Yosef Lapid scrisse (pagg. 17-18); «... e proprio popoli cattolici hanno mostrato, durante l’olocausto, un atteggiamento più ostile di quanto abbiano fatto i popoli cristiano-ortodossi o protestanti.... I membri del movimento nazionalista croato, i tristemente famosi ustascia, si dimostrarono le belve di tutto lo zoo nazista, e godettero l’appoggio della Chiesa cattolica locale. L’unico popolo che fece eccezione a questa triste regola fu proprio quello in cui la tradizione cattolica era più viva: il popolo italiano... Gli italiani tennero sotto la loro protezione gli ebrei presi prigionieri nel Nord Africa, in Grecia, nella Francia Meridionale e in Jugoslavia».

    Johann Steinberg, in un libro sull’olocausto uscito sull’olocausto nel 1993, riporta una corrispondenza del «Times» del 1° gennaio 1943 dalla Francia, nella quale si legge: «I comandanti italiani che occupano la Francia meridionale hanno invitato i prefetti francesi a disattendere gli ordini ricevuti dal loro alleato secondo cui gli ebrei devono portare, come in Germania, cucita sul petto la stella gialla. I generali italiani hanno spiegato ai funzionari che l’onore delle forze armate italiane è incompatibile col fatto che gli ebrei vengano costretti nelle zone di nostra occupazione a portare in pubblico u segno distintivo stigmatizzante».

    Ma, soprattutto, cito una testimonianza assolutamente non sospetta che lo conferma.

    Il secondo «Quaderno del centro di Documentazione Ebraica contemporanea», nel volume «Gli Ebrei in Italia durante il fascismo», pubblicazione a cura di Guido Valbrega nel marzo 1962, a pagg. 20-21, scrive testualmente: «Molti ebrei, circa 6.000 sui 45.000 allora esistenti, si battezzarono nella vana speranza di regolarizzare così la loro posizione, altri 5.000 emigrarono. Con tutto ciò, si deve obiettivamente riconoscere che fino al 25 luglio 1943 la persecuzione razziale fu contenuta in limiti moderati e di portata soprattutto economica: e che la maggioranza degli italiani disapprovava i provvedimenti razzisti ed esprimeva in ogni modo possibile la sua simpatia verso gli ebrei. Peraltro (v. la pregevole relazione del col. Massimo Adolfo Vitale, conservata nel centro Documentazione Ebraica contemporaneo di Milano), l’insi- stenza del Governo nella campagna di denigrazione, l’imbonimento della stampa, i vantaggi che tale campagna apportò a molti, le minace fatte a coloro che mostravano pietà per le vittime non mancarono di conseguire buoni risultati, cosicché i coraggiosi che seppero manifestare la loro disapprovazione per le mostruosità che si commettevano furono necessariamente sempre meno numerosi. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 comincia per gli ebrei italiani un tremendo periodo nuovo: l’Italia era ormai sotto il tallone tedesco e Mussolini voleva riabilitarsi agli occhi dell’alleato. Pertanto, alla fine del novembre 1943 una disposizione del Partito Fascista Repubblicano dichiarò gli ebrei «nemici n. 1, assimilati ai cittadini stranieri di nazione nemica in guerra». Ma di fatto, gli ebrei vennero a trovarsi in situazione ben peggiore di quella degli stranieri nemici, perché questi venivano catturati e rinchiusi in campi di concentramento, mentre per gli ebrei italiani, dopo un brevissima sosta nei campi di raccolta di Fossoli o di Merano, non vi era che la via della Germania, cioè la distruzione».

     C’è ancora un’ulteriore conferma dell’azione moderatrice svolta in quel periodo da Vittorio Emanuele III è in tre numeri del quotidiano bolognese «Il Resto del Carlino» che:

   -  venerdì 19 novembre 1943 titolava in prima pagina «Due ebrei immessi nel nuovo Gabinetto Badoglio», sottolineando la simpatia «colpevole», secondo l’articolista, di Vittorio Emanuele III per gli ebrei, testimoniata dall’elevazione al Governo di Guido Jung, nominato ministro alle Finanze, Scambi e Valute, e di Mario Fano, nominato sottosegretario alle Poste e Telegrafi;

   -  giovedì 2 dicembre 1943 faceva importanti ammissioni sul trattamento inflitto agli ebrei, divenuto disumano solo dopo l’8 settembre; in un articolo di prima pagina, titolava «Gli ebrei in Italia avviati in campi di concentramento»;

   -  sabato 11 dicembre dello stesso anno, sempre in prima pagina, titolava «Sequestro dei beni appartenuti agli ebrei»; eventi tutti verificatisi solo dopo l’8 settembre 1943 e nel territorio che gli eventi avevano sottratto alla giurisdizione ed al controllo del Regno d’Italia, e attribuito alla Repubblica Sociale Italiana, controllata dalla Germania nazista.

     Ed ancora, riguardo alle leggi razziali Indro Montanelli scrisse: «Premesso che le leggi razziali furono una cosa ignobile, insensata e per nulla condivisa dal sentimento popolare, salvo una esigua frangia di fanatici che forse non si resero conto della loro criminosità, è assolutamente vero che la ‘Costituzione faceva al re obbligo di firmarle come qualsiasi altra legge approvata dal Parlamento’». Ed aggiunse: «Altrimenti al re non sarebbero rimaste che altre due alternative: o tentare un colpo di Stato per mettere alla porta Mussolini e il fascismo, o abdicare. Il colpo di Stato sarebbe stato un fallimento perché in quel momento Mussolini aveva in mano tutte le leve del potere, comprese le forze armate, e per di più poteva contare sull’appoggio incondizionato della Germania nazista che non glielo avrebbe certamente fatto mancare. Abdicando, il re avrebbe salvato la propria anima, ma affrettato la sottomissione dell’Italia a Hitler e così aggravato anche la condizione degli ebrei. Non solo, ma avrebbe privato il Paese dell’unico punto di riferimento istituzionale se un giorno si fosse trovato ancor più coinvolto nelle avventure naziste. Come poi avvenne».

     La Corte di Cassazione, inoltre, si pronunciò sulla loro approvazione, con firma del Re, con la sentenza del 26 giugno 1950 n. 1624, quindi in epoca repubblicana, precisando che tali leggi: «non possono considerarsi prive di efficacia giuridica per costituzionalità di fronte all’ordinamento giuridico del tempo».

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