«La
mia ammirazione e la mia gratitudine d'italiano per l'opera del Parri nella
lotta eroicamente tenace contro i fascisti e tedeschi è così grande e così
sincera che non solo non impedisce, ma vuole che io prenda la parola per
ribattere nettamente un giudizio storico da lui pronunciato ieri e che ha
destato non tanto scandalo, quanto stupore. Egli ha detto che già prima del
fascismo l'Italia non aveva avuto governi democratici. Ma questa asserzione
urta, in flagrante contrasto, col fatto che l'Italia, dal 186o al 1922 è stata
uno dei paesi più democratici dell'Europa e che il suo svolgimento fu una non
interrotta e spesso accelerata ascesa nella democrazia. Effetto evidente
apparve che quel popolo o piuttosto quelle plebi, che i vecchi governi avevano
lasciate miserabili e analfabete, e, anche nelle dimostrazioni esterne, vergognosamente servili, oltre che progredire nella salute
fisica come comprovava annualmente e statisticamente il decrescente
numero degli scartati nelle leve, oltre la crescente diminuzione
dell'analfabetismo, con la sempre più larga efficacia della scuola popolare,
vennero acquistando carattere e sembianti di liberi cittadini, si
riunirono in associazioni e camere di lavoro; poterono difendere i loro
diritti, ottennero l'arma degli scioperi, ebbero leggi protettive del lavoro,
e, coi consecutivi allargamenti dell'elettorato, giunsero fino al suffragio
universale. E sorsero partiti politici che formularono e propugnarono i
diritti dei lavoratori, ed espressero i loro ideali, e i socialisti, dapprima
uno o due, crebbero sempre più di numero nella camera dei Deputati, talché
nelle ultime legislature erano, se mal' non ricordo, un centinaio e mezzo o
più; e tra essi erano Giacomo Matteotti, che con l'Amendola e coI Gramsci,
morirono per l'Italia democratica. «Democrazia», senza dubbio «liberale», come
ogni verace democrazia, perché se il liberalismo senza democrazia, langue privo
di materia e di spirito, la democrazia a sua volta, senza l'osservanza del
sistema e del metodo liberale, si perverte e si corrompe e apre la vita alle
dittature e ai despotismi: come le democrazie dei comuni medioevali ai tiranni
del Rinascimento, e la prima e la seconda Repubblica francese al primo e secondo
Impero. Chi come me, nacque nei primi anni della nuova Italia libera ed una,
vide ancora alcuni pittoreschi aspetti di quelle plebi scalze che nella mia
Napoli si chiamavano i «lazzari»; ma assistette anche al loro rapido sparire
sicché la memoria ne rimase solo nella descrizione e negli aneddoti della
storia. E chi come me, si educò nel fiorire democratico e liberale dell'Italia,
non dimenticherà. mai che il meglio di se stesso deve a quei modo e a quel
ritmo della vita italiana, che gli rese agevole come non era stato alle
generazioni precedenti, di formarsi senza compressione di nessuna sorta,
di spaziare nel vasto mondo della cultura universale, di apprendere da tutti,
italiani e stranieri, di tutte le più diverse scuole, di enunciare e di
sostenere quello che egli stimava verità, di misurarsi con chiunque nella gara
civile, di portare in quest'opera quel senso di onore che prima assai spesso si
metteva in varie o poco oneste competizioni. E anche ora egli augura che
l'Italia torni non certamente allo stato o alle condizioni di allora, perchè
grandiosi e terribili eventi sono accaduti, e le condizioni di fatto non sono
più quelle e problemi nuovi e diversi urgono nel nostro spirito, ma bene al
modo di allora, che è poi l'eterno modo dell'alta vita umana: stare come diceva
Faust, libero in libero popolo. E in questa coscienza in lui vivissima del
debito che tutta l'Italia presente ha verso quel passato, è la ragione di
questa sua difesa di oggi, come già egli difese, contro l'« Italietta »
inventata e schernita dal fascismo l'Italia reale, l'Italia creata dai nostri
padri del Risorgimento, che è sempre da venerare, quell'Italia nella quale
avemmo a maestri di regola intellettuale e morale ed estetica un Francesco de
Sanctis e un Giosuè Carducci ».
Il
composto equilibrio tra Corona e Parlamento, tra il paese, i suoi partiti e la
sua rappresentanza si interruppe negli anni 1919-1922 con l'insorgere di movimenti
demagogici e con l'opposizione ad essi di un partito altrettanto popolare. Non
la Corona e non, a dir vero, il Parlamento iniziarono quei movimenti e quella
reazione. Essi si effettuarono nel paese e trasmodarono nella antica e
tradizionale violenza. La lunga guerra aveva risvegliato antichi istinti che
parevano sopiti se non definitivamente estinti nel nostro popolo. La lotta
politica si trasferì così nelle
piazze delle principali città e il Parlamento non seppe far prevalere la sua
autorità, né seppe esprimere Governi capaci di contenere l'aspra lotta civile.
La Corona non aveva nulla da guadagnare nel triste giuoco della contesa civile.
Re Vittorio aveva raggiunto, con la conseguita gloria di Vittorio Veneto,
l'apice del suo Regno, aveva guadagnato all'Italia le sue frontiere naturali e
il posto di grande Potenza tra i maggiori Imperi del mondo. Nessuno può
accusarlo di eccessive ambizioni o di tendenze dittatoriali o di imperialismo.
Il quadro che l'italiano medio aveva fatto del suo Re era di un Re borghese e
liberale: tutti ricordavano che egli aveva richiamato al Governo il Giolitti e
che avea sonetto e confortato la esperienza liberale del suo Governo nel primo
decennio del nuovo secolo. Che poi vi siano dei Salvemini che consideravano
ieri Giolitti il ministro della mala vita e attribuiscono oggi a Re
Vittorio le colpe di Mussolini, questo non è che un indice del disordine
mentale purtroppo diffuso in questa epoca conturbata, anche in uomini di sicuro
ingegno e di innegabile merito. Così tutti ricordavano che Re Vittorio aveva
desiderato fin dal 1902 di chiamare al Governo Filippo Turati e nel 1908 aveva
insistito per avere Leonida Bissolati. Se un appunto veniva fatto al Re, esso
veniva dagli elementi conservatori i quali lo giudicavano troppo democratico,
troppo proclive ad abbandonare i privilegi del trono, insomma troppo poco Re e
molto Presidente di una repubblica ereditaria. Questo era il giudizio corrente
in Italia sino al 1922 su Re Vittorio. Questo giudizio non può essere
modificato dagli avvenimenti successivi. Certo egli considerò il fenomeno
fascista un fatto storico che non si poteva contenere con i mezzi ordinari. La
classe politica gli venne meno; gli intellettuali da d'Annunzio a Marconi, a
Mascagni, a Pirandello a Panzini (i) ne celebrarono il genio; il Parlamento
non seppe esprimere un Governo durevole: "opinione pubblica italiana e
straniera acclamò il nuovo Cesare e salvatore della civiltà latina. Il resto è
noto ed è stato da noi diligentemente e obiettivamente descritto.
Ora si
tratta di impedire che quello che è avvenuto nell'ottobre 1922 possa ancora
ripetersi. E si tratta di stabilire se, a mantenere la lotta politica sul
binario parlamentare, convenga più la Monarchia costituzionale o la
repubblica. Noi diremo in primo luogo che a difendere la libertà del Parlamento
giova innanzitutto un più vigile e diffuso e ostinato sentimento. della
libertà nei cittadini elettori ed eletti. Nessuno si farà più trascinare dal
turbine demagogico che nel 1919-1922, sotto la bandiera del patriottismo,
nascondeva la brama di potere di un avventuriero plebeo. Oggi tutti sanno che
la più corrotta democrazia è preferibile alla più ordinata delle tirannidi.
Quando sia
reso impossibile a un partito divenuto più forte, di asservire il Parlamento,
la Monarchia e la Repubblica si equivalgono nella tutela dell'equilibrio dei
poteri. Ma naturalmente si equivalgono una Monarchia costituzionale e una
Repubblica democratica, borghese e parlamentare. Non si equivalgono allo stesso
modo una Monarchia costituzionale e una repubblica giacobina o socialista o
comunista per la elementare ragione che quest'ultima repubblica tende alla
dittatura di una parte, il proletariato, e quindi al partito unico e alla
dittatura permanente. Quando il sig. Nenni dice che la Repubblica « sarà
socialista o non sarà », egli esclude che la repubblica possa essere
democratica e parlamentare.
(1) Non, parliamo naturalmente dei
Bontempelli che acclamarono ieri al tiranno ricordando Augusto, così come oggi
appaiono lusingati di frequentare l'anticamera di Togliatti.
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