NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 16 gennaio 2021

Io difendo la Monarchia cap X - 5


Le voci di critica preconcetta si erano spente e il vecchio Oriani e il vecchio Carducci avevano da tempo abbandonato le negazioni della Lotta politica e le birbonate di Enotrio Romano. Dopo l'altro dopoguerra, in presenza del fascismo e dei suoi primi risultati e della rinascente lotta contro la libertà, ricomparve la tendenza a negare il Risorgimento e i suoi frutti: né si può dare torto a Gobetti e ai suoi seguaci per questo. Forse l'accenno recente di Ferruccio Parri alla assenza di una vera democrazia in Italia, anche nel periodo aureo del Parlamento, è dovuto alla sua derivazione intellettuale da Gobetti e ai suoi ricordi giovanili. Ma non può maravi-gliare che esso sia parso del tutto inopportuno e inutilmente ardito e paradossale in un paese che recuperava infine, pur sotto forma di «consulta» e sotto la vigilanza straniera, una libera tribuna per i suoi dibattiti. Benedetto Croce rivendicava in tale occasione i benefici della libertà e della democrazia nell'Italia di ieri. Diceva, egli, nella seduta del 27 settembre 1945 alla Camera:

«La mia ammirazione e la mia gratitudine d'italiano per l'opera del Parri nella lotta eroicamente tenace contro i fascisti e tedeschi è così grande e così sincera che non solo non impedisce, ma vuole che io prenda la parola per ribattere nettamente un giudizio storico da lui pronunciato ieri e che ha destato non tanto scandalo, quanto stupore. Egli ha detto che già prima del fascismo l'Italia non aveva avuto governi democratici. Ma questa asserzione urta, in flagrante contrasto, col fatto che l'Italia, dal 186o al 1922 è stata uno dei paesi più democratici dell'Europa e che il suo svolgimento fu una non interrotta e spesso accelerata ascesa nella democrazia. Effetto evidente apparve che quel popolo o piuttosto quelle plebi, che i vecchi governi avevano lasciate miserabili e analfabete, e, anche nelle dimostrazioni esterne, vergognosamente servili, oltre che progredire nella salute fisica come comprovava annualmente e statisticamente il de­crescente numero degli scartati nelle leve, oltre la cre­scente diminuzione dell'analfabetismo, con la sempre più larga efficacia della scuola popolare, vennero acquistando carattere e sembianti di liberi cittadini, si riunirono in associazioni e camere di lavoro; poterono difendere i loro diritti, ottennero l'arma degli scioperi, ebbero leggi pro­tettive del lavoro, e, coi consecutivi allargamenti del­l'elettorato, giunsero fino al suffragio universale. E sor­sero partiti politici che formularono e propugnarono i diritti dei lavoratori, ed espressero i loro ideali, e i so­cialisti, dapprima uno o due, crebbero sempre più di numero nella camera dei Deputati, talché nelle ultime legislature erano, se mal' non ricordo, un centinaio e mezzo o più; e tra essi erano Giacomo Matteotti, che con l'Amendola e coI Gramsci, morirono per l'Italia demo­cratica. «Democrazia», senza dubbio «liberale», come ogni verace democrazia, perché se il liberalismo senza democrazia, langue privo di materia e di spirito, la de­mocrazia a sua volta, senza l'osservanza del sistema e del metodo liberale, si perverte e si corrompe e apre la vita alle dittature e ai despotismi: come le democrazie dei comuni medioevali ai tiranni del Rinascimento, e la prima e la seconda Repubblica francese al primo e se­condo Impero. Chi come me, nacque nei primi anni del­la nuova Italia libera ed una, vide ancora alcuni pitto­reschi aspetti di quelle plebi scalze che nella mia Napoli si chiamavano i «lazzari»; ma assistette anche al loro rapido sparire sicché la memoria ne rimase solo nella descrizione e negli aneddoti della storia. E chi come me, si educò nel fiorire democratico e liberale dell'Italia, non dimenticherà. mai che il meglio di se stesso deve a quei modo e a quel ritmo della vita italiana, che gli rese age­vole come non era stato alle generazioni precedenti, di formarsi senza compressione di nessuna sorta, di spaziare nel vasto mondo della cultura universale, di apprendere da tutti, italiani e stranieri, di tutte le più diverse scuole, di enunciare e di sostenere quello che egli stimava verità, di misurarsi con chiunque nella gara civile, di portare in quest'opera quel senso di onore che prima assai spesso si metteva in varie o poco oneste competizioni. E anche ora egli augura che l'Italia torni non certamente allo stato o alle condizioni di allora, perchè grandiosi e terribili eventi sono accaduti, e le condizioni di fatto non sono più quelle e problemi nuovi e diversi urgono nel nostro spirito, ma bene al modo di allora, che è poi l'eterno modo dell'alta vita umana: stare come diceva Faust, libero in libero popolo. E in questa coscienza in lui vivissima del debito che tutta l'Italia presente ha verso quel passato, è la ragione di questa sua difesa di oggi, come già egli difese, contro l'« Italietta » inventata e schernita dal fascismo l'Italia reale, l'Italia creata dai nostri padri del Risorgimento, che è sempre da venerare, quell'Italia nella quale avemmo a maestri di regola intellettuale e morale ed estetica un Francesco de Sanctis e un Giosuè Carducci ».

Il composto equilibrio tra Corona e Parlamento, tra il paese, i suoi partiti e la sua rappresentanza si interruppe negli anni 1919-1922 con l'insorgere di movimenti demagogici e con l'opposizione ad essi di un partito altrettanto popolare. Non la Corona e non, a dir vero, il Parlamento iniziarono quei movimenti e quella reazione. Essi si effettuarono nel paese e trasmodarono nella antica e tradizionale violenza. La lunga guerra aveva risvegliato antichi istinti che parevano sopiti se non definitivamente estinti nel nostro popolo. La lotta politica si trasferì così nelle piazze delle principali città e il Parlamento non seppe far prevalere la sua autorità, né seppe esprimere Governi capaci di contenere l'aspra lot­ta civile. La Corona non aveva nulla da guadagnare nel triste giuoco della contesa civile. Re Vittorio aveva rag­giunto, con la conseguita gloria di Vittorio Veneto, l'api­ce del suo Regno, aveva guadagnato all'Italia le sue frontiere naturali e il posto di grande Potenza tra i mag­giori Imperi del mondo. Nessuno può accusarlo di ec­cessive ambizioni o di tendenze dittatoriali o di imperialismo. Il quadro che l'italiano medio aveva fatto del suo Re era di un Re borghese e liberale: tutti ricorda­vano che egli aveva richiamato al Governo il Giolitti e che avea sonetto e confortato la esperienza liberale del suo Governo nel primo decennio del nuovo secolo. Che poi vi siano dei Salvemini che consideravano ieri Giolitti il ministro della mala vita e attribuiscono oggi a Re Vittorio le colpe di Mussolini, questo non è che un in­dice del disordine mentale purtroppo diffuso in questa epoca conturbata, anche in uomini di sicuro ingegno e di innegabile merito. Così tutti ricordavano che Re Vit­torio aveva desiderato fin dal 1902 di chiamare al Go­verno Filippo Turati e nel 1908 aveva insistito per ave­re Leonida Bissolati. Se un appunto veniva fatto al Re, esso veniva dagli elementi conservatori i quali lo giudi­cavano troppo democratico, troppo proclive ad abban­donare i privilegi del trono, insomma troppo poco Re e molto Presidente di una repubblica ereditaria. Questo era il giudizio corrente in Italia sino al 1922 su Re Vit­torio. Questo giudizio non può essere modificato dagli avvenimenti successivi. Certo egli considerò il fenomeno fascista un fatto storico che non si poteva contenere con i mezzi ordinari. La classe politica gli venne meno; gli intellettuali da d'Annunzio a Marconi, a Mascagni, a Pirandello a Panzini (i) ne celebrarono il genio; il Parla­mento non seppe esprimere un Governo durevole: "opi­nione pubblica italiana e straniera acclamò il nuovo Ce­sare e salvatore della civiltà latina. Il resto è noto ed è stato da noi diligentemente e obiettivamente descritto.

Ora si tratta di impedire che quello che è avvenuto nell'ottobre 1922 possa ancora ripetersi. E si tratta di stabilire se, a mantenere la lotta politica sul binario par­lamentare, convenga più la Monarchia costituzionale o la repubblica. Noi diremo in primo luogo che a difendere la libertà del Parlamento giova innanzitutto un più vi­gile e diffuso e ostinato sentimento. della libertà nei cit­tadini elettori ed eletti. Nessuno si farà più trascinare dal turbine demagogico che nel 1919-1922, sotto la bandiera del patriottismo, nascondeva la brama di potere di un avventuriero plebeo. Oggi tutti sanno che la più corrotta democrazia è preferibile alla più ordinata delle tirannidi.

Quando sia reso impossibile a un partito divenuto più forte, di asservire il Parlamento, la Monarchia e la Repubblica si equivalgono nella tutela dell'equilibrio dei poteri. Ma naturalmente si equivalgono una Monarchia costituzionale e una Repubblica democratica, borghese e parlamentare. Non si equivalgono allo stesso modo una Monarchia costituzionale e una repubblica giacobina o socialista o comunista per la elementare ragione che quest'ultima repubblica tende alla dittatura di una par­te, il proletariato, e quindi al partito unico e alla ditta­tura permanente. Quando il sig. Nenni dice che la Re­pubblica « sarà socialista o non sarà », egli esclude che la repubblica possa essere democratica e parlamentare.

(1) Non, parliamo naturalmente dei Bontempelli che accla­marono ieri al tiranno ricordando Augusto, così come oggi ap­paiono lusingati di frequentare l'anticamera di Togliatti.

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