di Aldo A. Mola
Alla ricerca del Cadorna obliato
Nel “discorso di Capodanno” il presidente
Sergio Mattarella ha detto che nel 2021 con Dante Alighieri andranno ricordati
il 160° dell'unità nazionale (cioè la proclamazione di Vittorio Emanuele II re
d'Italia: 14/17 marzo1861) e la “collocazione” del Milite Ignoto all'Altare
della Patria. Aggiungiamo che andrà anche rievocato il 150° dell'insediamento
di Vittorio Emanuele II, del governo e delle Camere in Roma, finalmente
capitale effettiva d'Italia, anche come “risarcimento danni” per l'oblio lo
scorso riservato all'unione di Roma all'Italia. Il 20 settembre 2020 “Porta
Pia” è scivolata sotto silenzio perché quel giorno (mostrando che, quando
occorre, il voto non è affatto incompatibile con la pandemia) gli italiani
furono chiamati a rinnovare alcuni consigli regionali e a confermare o meno,
con referendum nazionale, quel “taglio” dei parlamentari che ha inferto un
grave vulnus alle Camere attuali da quando i suoi stessi componenti, in
un raptus masochistico, si dichiararono in sovrannumero. Il 150° della
conquista di Roma manu militari, della (temporanea) debellatio
dello Stato Pontificio e della generale astensione dei cattolici dalle urne
sino al “Patto Gentiloni” del 1913 fanno parte della storia, anche se non
vengono ricordati. Pesarono e pesano.
Nel settembre 1870 il governo Lanza-Visconti
Venosta-Sella decise l'“affondo”. Ordinò al generale Raffaele Cadorna
l'irruzione nella Città Eterna. Perché? Il 7 ottobre 1911 per giustificare la
guerra contro l'impero turco il massimo statista della Nuova Italia, Giovanni
Giolitti, sentenziò: “Vi sono fatti che si impongono come una vera fatalità
storica, alla quale un popolo non può sottrarsi senza compromettere in modo
irreparabile il suo avvenire. In tali momenti è dovere del governo di assumere
tutte le responsabilità, perché una esitazione o un ritardo può segnare
l'inizio della decadenza politica, producendo conseguenze che il popolo deplorerà
per lunghi anni, e talora per secoli”. Fu quanto avvenne nella settimana
precedente Porta Pia. L'Europa era in fiamme per la disputa sul trono di
Spagna. Caduto Napoleone III prigioniero dei tedeschi, a Parigi era stata
proclamata la repubblica: un'idea “contagiosa”. Roma ne aveva già viste due,
nel 1798 e nel 1849. Aleggiava l'incubo di una terza repubblica nella Città
Eterna, mazziniana o addirittura socialista. Il governo italiano varcò il
Rubicone: “Ora o mai più”. Non era formato da politicanti improvvisati, inclini
al “vedremo”, ma da personalità temprate in decenni di lotta per l'idea di
Italia. Come aveva detto Cavour, senza Roma l'Italia non sarebbe mai stata
Italia. Bisognava dunque andarci, “con” o “contro” il papa. Tocca agli storici
documentare l' “ora delle decisioni irrevocabili”, ponendosi nei panni dei suoi
protagonisti, senza pretendere di dare consigli al passato remoto ma al tempo
stesso spiegando le conseguenze immediate e di lungo periodo di decisioni
forzate dalla ridda degli eventi. La Storia procede a segmenti. Con una
settimana in più di trattative diplomatiche e il riconoscimento della “vera
indipendenza” promessa da Cavour su un chilometro quadrato qual è oggi la Città
del Vaticano, la storia d'Italia avrebbe avuto altro corso.
Proprio per capire la complessità di quella
vicenda giovano le biografie di quanti ne furono attori. È il caso di Carlo
Cadorna, proposto all'attenzione nel 150° di Porta Pia da un ottimo volume del
novantenne Franco Ressico (ed. BastogiLibri). Professore “di una volta” (la
scuola è sacerdozio civile, non televendita) e a lungo docente di lettere nel
ginnasio-liceo dell'Istituto Santa Maria di Verbania, già autore di articoli e
saggi di storia locale, con questa sua “prima opera” Ressico esplora la dirigenza
apicale dell'Italia unita e il travaglio che scandì le tappe dal Risorgimento
alla vigilia della Grande Guerra.
Carlo Cadorna fu fratello del generale
Raffaele, che ordinò l'irruzione dell'esercito italiano in Roma il 20 settembre
1870, a sua volta padre di Luigi Cadorna, Comandante Supremo nella Grande
Guerra, il cui figlio, Raffaele, nel 1944-1945 comandò il Corpo Volontari della
Libertà. Una dinastia per l'Italia. Lo ricorda un altro Cadorna, figlio di
Raffaele, colonnello e studioso di strategia militare, di cui è uscito or ora
il corposo Caporetto? Risponde Luigi Cadorna (BastogiLibri, pp. 352).
Il cursus honorum d un Uomo di
Stato
Carlo Cadorna (Pallanza, 8 dicembre 1809-Roma,
2 dicembre 1891) fu una personalità superiore nel ricco paesaggio politico-culturale
del tempo suo. Avvocato e giurisperito, non fu un “politicante” ma uno statista
estraneo alle camarille e alle fazioni. Benvoluto dai più anche per i suoi modi
naturaliter aristocratici, tipici della nobiltà sabauda – enigmatica
nella genesi ma non nella vita e nei rapporti con lo Stato – , Cadorna fu
sbrigativamente celebrato alla morte, ma presto dimenticato. Per i ruoli
pubblici ricoperti, la molteplicità e varietà dei suoi scritti, la vastità dei
suoi orizzonti e il riserbo che ne avvolse la vita privata (anche Ressico la
lascia in ombra, con pochi cenni ai malanni che lo afflissero sin da giovane:
per le fitte allo stomaco una volta svenne mentre presiedeva la Camera) svettò
come i campanili che incombono sui borghi e inducono ad abbassare lo sguardo
invece di incoraggiare a raggiungere la cella campanaria per condividerne la
visuale e ascoltarne la voce.
“Cospiratore
culturale” a vent'anni e in confidenza con il teologo Vincenzo Gioberti, suo
maestro di vita, dopo lustri di avvocatura a Pallanza e a Casale Monferrato,
promotore di asili per l'infanzia sul modello propugnato da Ferrante Aporti,
con Giovanni Lanza, Urbano Rattazzi e Filippo Mellana nel 1847-1848 promosse
periodici come “Il Caroccio”, che concorsero a creare il clima propizio alla
svolta costituzionale nel regno di Sardegna. Nell'autunno 1847 Carlo Alberto di
Savoia rese elettivi i consigli comunali, provinciali e divisionali; e promise
pubblicamente che si sarebbe posto alla guida della guerra per l'indipendenza.
Con lo Statuto del 4 marzo 1848 il Re varò la monarchia rappresentativa fondata
sul Parlamento bicamerale. Tornò qual era stato nel 1821, quando, su
sollecitazione di “settari” (carbonari, massoni, adelfi...) aveva varato la Costituzione spagnola,
all'epoca la più liberale d'Europa.
Eletto deputato nel collegio di Pallanza il 27
aprile 1848, il quarantenne Cadorna si erse a protagonista del dibattito
politico. Ministro della Pubblica istruzione nel governo Gioberti (16 dicembre
1848), ministro “al campo” nelle ore cruciali della brumal Novara,
la sera del 23 marzo 1849 assisté all'abdicazione di Carlo Alberto, che
stemperò l'emozione abbracciandolo e gli strinse la mano.
Esponente del centro-sinistro, per la provata
competenza dei suoi interventi in aula e il rigore lungimirante dei saggi e
degli articoli che ne accompagnarono l'attività di deputato, fu apprezzato da
Camillo Cavour, che gli affidò la difesa delle leggi contro le ingerenze del
clero nella vita pubblica, qualificanti agli occhi di Londra, Parigi e della
Svizzera (che contava più di quanto solitamente si pensi). Favorevole nel 1848
all'espulsione dal regno di Sardegna dei gesuiti (ne era stato allievo), il 2
gennaio 1858 Cadorna promosse l'inchiesta sull'abuso di strumenti spirituali da
parte di ecclesiastici nella campagna per il rinnovo della Camera. A quel modo
assecondò Cavour che fece decadere alcuni canonici eletti deputati.
Vicepresidente della Camera dei deputati dal
1855 e presidente dal gennaio 1857, dal 18 ottobre 1858 nuovamente ministro della
Pubblica istruzione nel governo Cavour, il 29 agosto 1858 fu nominato senatore.
Forte di solida maggioranza nella Camera elettiva, lo statista aveva
bisogno di contare a Palazzo Madama su senatori preparati, assidui alle sedute
e profondi conoscitori degli umori serpeggianti a Palazzo Carignano. Deputato
da dieci anni, Cadorna era indicato per svolgere tale missione.
Onusto di cariche prestigiose, lasciato il
ministero alle tempestose dimissioni di Cavour dopo l'armistizio di Villafranca
(gli subentrò il milanese Gabrio Casati, che legò il nome alla prima legge
organica sull'istruzione, poi passata dal regno di Sardegna a quello d'Italia),
Cadorna ricoprì posizioni di alta responsabilità nella Camera Alta e nel
Consiglio di Stato, di cui fu componente dal luglio 1859. Eletto vicepresidente
del Senato, il 1° giugno 1865 fu nominato prefetto di Torino. La città era
sconvolta dalla sanguinosa repressione delle comprensibili proteste contro il
trasferimento della capitale del regno a Firenze per effetto della convenzione
del 15 settembre 1864. Dopo il ravennate Giuseppe Pasolini occorreva un
piemontese, una persona “dolce” (come Cadorna era solitamente descritto) ma al
tempo stesso “ferma”. Giurista, procedeva nel solco della tradizione militare di
famiglia. Suo padre, Luigi Giuseppe (1766-1848), era stato fedelissimo alla
monarchia consultiva nella lunga guerra contro la Francia rivoluzionaria, ora
documentata da Giorgio Enrico Cavallo e Marco Scarzello in “Fuite de
Dijon. Deportazione e ritorno in patria dei nobili piemontesi nel
periodo giacobino, 1799-1800 (Ed. Vivant, 2020).
Ministro per l'Interno dal 5 gennaio al 10
settembre 1868 nel secondo governo presieduto da Luigi Federico Menabrea,
Cadorna resistette alla pressione di chi chiedeva misure straordinarie contro i
disordini in Emilia-Romagna, in Sicilia e nel Napoletano. Bastavano le leggi
vigenti.
Ambasciatore a Londra e Presidente del
Consiglio di Stato
Vicepresidente del Contenzioso diplomatico dal
10 novembre 1868, su proposta del governo l'11 aprile 1869 il re lo nominò
ambasciatore a Londra in successione a Emanuele Tapparelli d'Azeglio, che il 27
marzo 1861 aveva ottenuto il riconoscimento del neonato regno d'Italia da parte
della Gran Bretagna. Benché non parlasse l'inglese (all'epoca la lingua della
diplomazia era il francese), nel volgere di pochi mesi affrontò questioni di
importanza europea. In primo luogo urgeva l'individuazione di un componente di
Casa Savoia quale re di Spagna, su designazione delle Cortes e sollecitazione
del generale Prim y Prats: un vero tormento per Vittorio Emanuele II. Il re
dapprima aveva tentato di indurvi il principe Tommaso di Savoia, che si defilò
con argomenti sconcertanti, documentati da Ressico. Seguirono la crisi
franco-prussiana, precipitata nella guerra il 19 luglio 1870, e l'urgenza di
assicurare il consenso della Gran Bretagna all'annessione di Roma e del Lazio.
Al riguardo Cardorna molto si valse delle relazioni confidenziali instaurate
con il premier britannico William Gladstone. Sul trono di Madrid ascese infine
il secondogenito di Re Vittorio, Amedeo di Savoia, duca di Aosta, re sino
all'inizio del 1873.
Il 4 febbraio 1875 Cadorna fu nominato
presidente del Consiglio di Stato in successione a Luigi Francesco Des Ambrois
de Nevache. Rimase in carica sino alla morte, alternando gli impegni che gliene
derivavano con la pubblicazione di saggi e articoli sui temi di suo precipuo
interesse, in specie sulla politica estera e sulla formula cavouriana “libera
Chiesa in libero Stato”, da lui approfondita anche in disegni di legge,
opuscoli e articoli che suscitarono la reazione stizzita del quindicinale della
Compagnia di Gesù, “La civiltà cattolica”. Erano lavori preparatori alla summa
del suo pensiero, Religione, Diritto, Libertà: due poderosi
volumi di 1503 pagine, pronti per la stampa alla vigilia della morte e
pubblicati postumi dal fratello Raffaele.
La duplice lealtà: cattolico e uomo di Stato
Carlo Cadorna visse la sua missione di politico
statista con “sentimento” di cattolico devoto e membro di un “Consiglio
legislativo”. Entrambi i poteri, lo spirituale (della Chiesa) e quello
temporale (dello Stato) - egli argomentò - hanno origine divina: il primo nella
Rivelazione, il secondo nella legge naturale, “la quale è pure divina”. Ogni potere discende dal Creatore,
il Grande Architetto che dal caos plasma l'Ordine, ma non da investitura
papale.
Cadorna aveva motivo di ritenere che la Chiesa
di Leone XIII, come quella di Pio IX, non fosse al passo con i tempi. Però a
loro volta i pontefici avevano ragione di non subordinare il magistero petrino al
“mondo moderno”. Lo storico Gianpaolo Romanato insegna che dal 1854
nell'enciclica Ineffabilis Deus papa Mastai Ferretti scrisse:“Auctoritate
Domini Nostri Jesu Christi, beatorum Apostolorum Petri et Pauli, ac Nostra,
declaramus, pronunciamus et definimus”. Il papa enunciava un dogma
fondandosi sulla propria autorità, infallibile. Non aveva bisogno di alcun
“benestare” per esercitare la sua piena potestà spirituale: né di un Concilio
ecumenico, né, meno ancora, del regno d'Italia.
La debellatio dello Stato pontificio,
sulla quale Carlo Cadorna fu pienamente in armonia con il governo oltre che con
l'azione del fratello Raffaele, non fece che rendere più evidente
l'impossibilità di “dialogo” tra principii opposti e inconciliabili. L’idea
della separazione fra Stato e Chiesa, condivisa da Cadorna, rispondeva a una
concezione della Rivelazione che la seconda non poteva condividere, perché la
Verità di cui si riteneva (come si ritiene) depositaria sarebbe stata
equiparata a quella delle tante denominazioni evangeliche e riformate e, in
prospettiva, alle altre religioni abramitiche (mai riconosciute veridiche dalla
Chiesa di Roma) e persino a quelle “naturalistiche”, al di fuori del Libro,
basate sulla “ragione” e/o sul “libero pensiero”.
La
concezione di Carlo Cadorna insegna dunque che la vera “breccia” del “mondo
moderno” nella percezione e nella pratica della dottrina della chiesa non fu
quella aperta in modo spettacolare a Porta Pia il 20 settembre 1870. Essa era
già nelle coscienze e non venne chiusa neppure con il Concordato, che riguardò
“i metalli” e il loro governo, con il pieno ripristino della sovranità
temporale, funzionale al libero esercizio di quella spirituale. Ne è documento
la sua “Dichiarazione di fede cattolica” in cui scrisse: “Alle opinioni dei
teologi e dei dottori non attribuisco altro valore fuori di quello delle
ragioni che recano in mezzo per provare la verità”. Professata massima
riverenza al Papa, rivendicò il primato della propria coscienza, “alla quale
voglio garantita piena e assoluta libertà, non accettando verun intermediario
tra essa e Dio, ma assumendo io medesimo tutta intera davanti a lui la
responsabilità”.
Anche per questa sua testimonianza di alta
spiritualità Cadorna risulta protagonista di spicco della Terza Italia, come
già osservò Romano Ugolini, indimenticabile ultimo presidente dell'Istituto per
la Storia del Risorgimento Italiano. Nel 150° di Porta Pia merita di essere
proposto alla riflessione odierna, quale invito a calarsi appeno nel dramma dei
cattolici d'Italia.
Per quanto superfluo, occorre sottolineare,
infine, la moralità civica di Carlo Cadorna e della sua famiglia, votata al
servizio del bene inseparabile del re e della patria. Emerge a luce meridiana
da una lettera del 9 giugno 1870 citata da Franco Ressico: “Né io, né Raffaele,
dopo tanti anni di vita pubblica, non abbiamo migliorato neppure di un
centesimo le nostre sostanze”. Quelli erano gli uomini che costruirono la Nuova
Italia. La nostra.
Aldo A. Mola
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