NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 6 gennaio 2021

La lezione di Luigi Einaudi (1874-1961), monarchico, liberale, presidente della repubblica


di Aldo A.Mola

 

Se il Capo dello Stato si risveglia...

Il 12 maggio 2018 il Capo dello Stato Sergio Mattarella rievocò Luigi Einaudi a Dogliani nel 70° del suo insediamento a primo presidente effettivo della Repubblica italiana. Disse che lo Statista ebbe “il compito di definire la grammatica della democrazia italiana appena nata”. Come già aveva fatto nel 1945 in correzione di Ferruccio Parri, se fosse stato in vita Benedetto Croce avrebbe osservato che anche l'Italia pre-fascista, quella di Luigi Zanardelli e di Giovanni Giolitti, era stata una democrazia, vegliata da Vittorio Emanuele III. Mattarella evocò alcuni capisaldi del suo predecessore, “a partire dall'esercizio del potere previsto dall'articolo 87 della Costituzione, che regola la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa”. Einaudi non esitò a rinviare alle Camere due leggi perché “comportavano aumenti di spesa senza copertura finanziaria, in violazione dell'articolo 81 della Costituzione”. Che cosa direbbe e farebbe oggi Einaudi a cospetto dello scempio del Parlamento e del debito pubblico? A Dogliani Mattarella ricordò che il 12 gennaio 1954 Einaudi lesse ad Aldo Moro e a Stanislao Ceschi una “nota verbale” sulla corretta interpretazione dell'articolo 92 della Carta, motivata dal “dovere del presidente della Repubblica di evitare si pongano precedenti grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore, immuni da ogni incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”. Per lui il Capo dello Stato non è succubo dei partiti. Di lì la sua avversione nei confronti del “governo di assemblea, che vuol dire tirannia del gruppo di maggioranza”.

Storico di alto profilo, Einaudi capì e spiegò la grandezza di Vittorio Emanuele III quando il 25 luglio 1943 esautorò Mussolini: “La prerogativa sovrana può e deve rimanere dormiente per lunghi decenni e risvegliarsi nei rarissimi momenti nei quali la voce unanime, anche se tacita, del popolo gli chiede di farsi innanzi a risolvere una situazione che gli eletti dal popolo da sé non sono capaci di affrontare o per stabilire l'osservanza della legge fondamentale, violata nella sostanza, anche se osservata nell'apparenza”. Un mònito più che mai attuale in questo difficile inizio dell'Anno Nuovo che coincide il 60° della morte dello Statista cuneese.

 

Ma chi fu Einaudi?

Luigi Einaudi (Carrù, 24 marzo 1874 - Roma, 30 ottobre 1961) fu eletto primo presidente effettivo della Repubblica italiana al quarto scrutinio l'11 maggio 1948, con 518 suffragi su 871 votanti. Liberale e monarchico, egli non aveva “studiato” da capo dello Stato. Aveva studiato. Perso a dodici anni il padre, esattore delle imposte (recandole nottetempo in calesse dalle Langhe a Cuneo in certi tratti armava la rivoltella), crebbe in casa dello zio Francesco Fracchia, notaio a Dogliani. Nel 1922 ne raccolse gli Appunti per la storia politica ed amministrativa di Dogliani. Allievo nel collegio dei Padri Scolopi a Savona, nel 1888 fu proclamato “Principe dell'Accademia” su indicazione del geografo Arcangelo Ghisleri, massone. Einaudi fu cattolico praticante, ma senza ostentazione e rispettoso delle altre confessioni. Per comprenderne la cultura bisogna visitarne le terre d’origine, le stesse di Giolitti e di Marcello Soleri, narrate da suo nipote Roberto in Radici montane (ed. Aragno). Il suo mondo era ispirato dai principi all’epoca comuni non solo alla classe dirigente diffusa (deputati, senatori, consiglieri provinciali, sindaci consiglieri comunali, “notabili”...), ma tra tutte le persone perbene, anche umili genere natae. I loro motti eranoaiuta te stesso” e “volere è potere”, come insegnò il naturalista Michele Lessona.

Laureato in giurisprudenza a Torino appena ventenne, dopo un breve impiego alla Cassa di Risparmio di Torino dal 1896 iniziò a scrivere per “La Stampa”, fu professore all’Istituto Tecnico “Franco Andrea Bonelli” di Cuneo e al “Germano Sommeiller” di Torino. Divenne “il maggiore economista liberale del Novecento” a giudizio di Francesco Forte, docente nella sua stessa cattedra di Scienze delle Finanze. Aveva già alle spalle opere prestigiose, come Un principe mercante. Studi sull'espansione coloniale italiana, sulla finanza nello Stato sabaudo e sulle imposte. A lungo collaboratore della rivista “Critica sociale” di Filippo Turati e Claudio Treves, crebbe nel laboratorio della “Riforma sociale” promossa a Torino dal pugliese Salvatore Cognetti de' Martiis e ne assunse la direzione nel 1908. Dal 1903 nel “Corriere della Sera” e dal 1922 nell'“Economist”, Einaudi polemizzò aspramente contro i “trivellatori dello Stato” e rimproverò a Giolitti di utilizzare il potere per mediare tra le parti sociali e garantire una costosa “stabilità di governo” a beneficio di “clienti” e opportunisti. Docente straordinario di scienza delle finanze a Pisa nel 1902, lo stesso anno fu chiamato dall'Università di Torino.

Credeva nella “bellezza della lotta”, cui intitolò un saggio nel 1923. Interventista nel 1914-1915, il 6 ottobre 1919 fu nominato senatore su proposta di Francesco Saverio Nitti. Nel 1922 appoggiò il governo di coalizione nazionale presieduto da Benito Mussolini, che sino alla notte fra il 29 e il 30 ottobre si propose di averlo ministro delle Finanze affinché potesse attuare i suoi insegnamenti: ridurre drasticamente la spesa pubblica “clientelare”, ripristinare il prestigio dello Stato, assicurare i servizi, azzerare mafie, camorre e tagliare le unghie agli opposti corporativismi: imprenditori “pescicani” e sindacati parassitari. Rimasto escluso dall'esecutivo, ne commentò l'ondivaga condotta con articoli sempre più severi. Al fervore scientifico unì la passione civile per le libertà. Già direttore delI'Istituto di Economia “Ettore Bocconi” di Milano, pubblicò una raccolta di saggi per il giovane editore torinese Piero Gobetti, strenuo oppositore e vittima del regime incipiente.

All'indomani dell'assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti (10 giugno 1924) per mano di una squadraccia fascista, Einaudi deplorò pubblicamente “il silenzio degli industriali”. L'anno seguente sottoscrisse il “Manifesto” degli intellettuali antifascisti scritto da Benedetto Croce. Le sue opere ormai erano note anche oltre Atlantico. Come Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati, nel 1918 aveva giustapposto al sogno della Società delle Nazioni la più realistica e urgente Federazione europea per scongiurare che dal collasso degli imperi nascessero devastanti nazionalismi. Tornò da altro versante a scriverne in Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo, in controcanto con il “giolittiano” Benedetto Croce, autore della Storia d'Italia (1928). Sarebbe però errato ritenere che Einaudi fosse un “liberista assoluto”. Tra le sue massime spicca “l'uomo libero vuole che lo Stato intervenga”. Il suo era “liberalismo senza aggettivi”. Come ha ricordato Tito Lucrezio Rizzo nel suo profilo biografico, Einaudi ammonì: “la scienza economica è subordinata alla legge morale”.

Di vasto respiro e profondità documentaria e critica spiccano due sue opere degli Anni Trenta: La condotta economica e gli effetti sociali della guerra (1933), scritta quindici anni dopo la fine della Grande Guerra, e Teoria della moneta immaginaria nel tempo da Carlomagno alla rivoluzione francese (1936). Dopo l'arresto e la breve detenzione dei figli Giulio e Roberto (il terzo, Mario, era migrato negli Stati Uniti d'America) e la forzata chiusura della “Riforma sociale”, Einaudi fondò la dotta e prestigiosa “Rivista di storia economica”, pubblicata dalla casa editrice di suo figlio Giulio e protratta sino al 1943. Nel 1938 fu tra i dieci senatori che votarono contro la legge “per la difesa della razza” e si pronunciò contro l'antisemitismo e l'incipiente vassallaggio ideologico-diplomatico-militare del governo Mussolini nei confronti della Germania di Adolf Hitler. Tenuto come tutti i pubblici dipendenti a dichiarare la propria “stirpe” rispose che la sua gente era da sempre “ligure” con apporti di altri popoli nel corso del tempo.

Dopo molte edizioni dei fondamentali Principii di scienza della finanza condensò decenni di studi in Miti e paradossi della giustizia tributaria (1938). Come ha scritto Ruggiero Romano nella introduzione ai suoi Scritti economici, storici e civili (Meridiani Mondadori, 1973) Einaudi fu “il più grande demitizzatore” italiano del Novecento, non solo su teorie e pregiudizi economicistici, ma con riferimento alla vita sociale: abolizione delle “maiuscole”, dei “titoli” vanesii, dei formalismi pomposi ostentati per celare il vuoto.

 

Tra esilio e dopoguerra

Al crollo del regime mussoliniano (25 luglio 1943) Einaudi fu nominato rettore dell'Università di Torino, mentre Filippo Burzio assunse la direzione della “Stampa”. Con la proclamazione della resa senza condizioni (8 settembre 1943), quando l'Italia rimase “divisa in due” (formula poi usata da Croce) e le regioni centro-settentrionali furono rapidamente occupate dai tedeschi, appreso di essere ricercato Einaudi riparò in Svizzera. Vi pubblicò, tra l’altro, I problemi economici della Federazione europea. Sulla fine dell'anno seguente fu chiamato a Roma dagli Alleati e dal governo presieduto da Ivanoe Bonomi, che il 4 gennaio 1945, d'intesa con il ministro del Tesoro Marcello Soleri, lo nominò governatore della Banca d'Italia in successione a Vincenzo Azzolini, arrestato per presunta collusione con gli occupanti germanici in danno della Banca stessa. Quale direttore generale volle a fianco Donato Menichella, che non conosceva di persona ma la cui formidabile competenza sulle relazioni tra banca e industria molto apprezzava. Lo attese un compito immane. Aveva pubblicato Lineamenti di una politica economica liberale. Il governo era sotto tutela della Commissione Alleata di Controllo. L'amministrazione era a sua vola subordinata ai governatori militari. L'Italia meridionale era inondata dalle Am-Lire. La moneta circolante era quasi venti volte superiore a quella d'anteguerra. L'inflazione galoppava. Il prodotto interno in molte regioni era dimezzato. In tante plaghe la popolazione era alla fame. I sei partiti presenti nel Comitato Centrale di Liberazione Nazionale (in quello dell'Alta Italia mancava la Democrazia del lavoro) e al governo erano divisi, nell'immediato e nelle prospettive ultime. Il capo del governo, Pietro Badoglio, aveva sciolto la Camera; l'alto commissario per l'epurazione aveva privato quasi tutti i senatori del rango e dei diritti politici e civili. Il governatore dovette quindi valersi di cariche e poteri ulteriori a sostegno dalla propria opera. Fu nominato membro della Consulta Nazionale che preparò la Costituente ed eletto per il partito liberale all’Assemblea Costituente (2-3 giugno 1946). Tornato dal “viaggio di istruzione” negli Stati Uniti d'America (1947), il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi lo volle vicepresidente e ministro del Bilancio. Con apposito decreto fu confermato governatore della Banca d'Italia e poté tessere la tela quotidiana della Ricostruzione.

Consapevole delle drammatiche difficoltà nelle quali versava il Paese, anziché vagheggiare progetti tanto vasti quanto irrealistici puntò a interventi “a pezzi e bocconi”, come narrato dal suo fido segretario particolare, Antonio d'Aroma. Doveva ristrutturare un edificio occupato da persone che non potevano esserne allontanate, la “romana burocrazia nostra sovrana”. Per attuare il risanamento monetario a suo avviso non esistevano “mezzi taumaturgici”. Dopo il prestito nazionale promosso da Marcello Soleri, che gli dedicò gli ultimi febbricitanti mesi di vita con patriottismo esemplare, Einaudi lasciò che il tempo facesse tramontare propositi inattuabili, quali il “cambio della lira” che avrebbe provocato la fuga dei pochi capitali disponibili e scoraggiato investimenti dall'estero. Come da lui previsto, in un paio d' anni le speculazioni si esaurirono e l'inflazione si ridusse a indici accettabili con la ripresa, favorita dai giganteschi prestiti senza oneri concessi dagli USA nell'ambito del Piano Marshall. Capita una volta ogni 60 anni..., ma occorre chi sappia investirli.

Contrario a imposte straordinarie, contrarissimo a tasse patrimoniali che avrebbero colpito media e piccola proprietà (se ne era occupato nel magistrale saggio del 1920 su Il problema delle abitazioni), Einaudi mirò alla riesumazione della classe media, della scuola (pubblica o privata, purché seria, formativa, rigorosa: oggi purtroppo corre su banchi a rotelle verso l'abisso), di quanti servivano lo Stato con dedizione alimentata dal ricordo delle sofferenze vissute nelle due guerre e a prezzo di tante vite. Monarchico libero da feticismi, poté presto salutare il plebiscito del “quarto partito”: i risparmiatori, spina dorsale della Nuova Italia. Nella sua immane opera ebbe collaboratori il biellese Giuseppe Pella, futuro presidente del Consiglio, e l'insigne economista Gustavo Del Vecchio.

Alla Costituente pronunciò discorsi appassionati e taglienti. Componente della Commissione dei Settantacinque che redasse la bozza della Carta, ottenne l'approvazione dell'articolo 81, che recita: “Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”.Nominato membro di diritto del Senato della Repubblica (22 aprile), all'indomani delle elezioni, prese parte all'inaugurazione della prima legislatura, chiamata a eleggere il Capo dello Stato.

 

Attualità di un antico Capo dello Stato

Alle 6 del mattino del’11 maggio 1948 Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, andò a informarlo che De Gasperi lo avrebbe fatto votare presidente della Repubblica per superare lo stallo sul nome di Carlo Sforza, per tre volte sostenuto senza successo. Il settantaquattrenne statista non gli ricordò di aver votato monarchia; lo aveva fatto anche Andreotti. Osservò invece che, claudicante e minuto qual era, avrebbe dovuto sfilare dinnanzi ai corazzieri. Fu eletto e nessuno trovò alcunché da obiettare. I corazzieri non avevano dimenticato Vittorio Emanuele III.

Capo dello Stato, Einaudi lasciò memoria del suo operoso settennato in Lo scrittoio del Presidente e in Prediche inutili. Continuò a studiare, a pubblicare e a promuovere ricerche per unire gli italiani, come poi fece negli anni seguenti, restituito alla cattedra universitaria ad vitam con speciale decreto. Improntò l'esercizio del suo ruolo alla discrezione, al rigore, alla continuità. Lo si vide con l'istituzione del Segretariato Generale, nel solco del Ministero della Real Casa. Nulla di enfatico, tutto volto al pratico, con la misura dell’austerità. All'inizio del 1945 aveva tracciato le linee del nuovo liberalismo: “quando siano soppressi i guadagni privilegianti derivanti da monopolio, e siano serbati e onorati i redditi ottenuti in libera concorrenza con la gente nuova, e la gente nuova sia tratta anche dalle file degli operai e dei contadini, oltre che dal medio ceto; quando il medio ceto comprenda la più parte degli uomini viventi, noi non avremo una società di uguali, no, che sarebbe una società di morti, ma avremo una società di uomini liberi”.

Qual è l'eredità di Einaudi? Quando sentiva (talora anche da persone “di casa”) vagheggiare di ideologie “sovietiche” neppure rispondeva: batteva il bastone per terra per dire che era impossibile dialogare. Anch'egli coltivò propositi mai attuati, a cominciare dall'abolizione del valore legale dei titoli di studio (più che mai urgente, visto il degrado del sistema scolastico) e dalla confutazione del mito dello “stato sovrano”: pagine, queste, pubblicate nella Piccola antologia federalista, con scritti di Jean Monnet, Denis de Rougemont e altri.

Cultore profondo del “senso dello stato” che, spiegò Benedetto Croce, ministro dell’Istruzione con Giolitti, non è solo “liberismo”, è “liberalismo”, Einaudi ne indicò i fondamenti nella tradizione civile sorta dalla cultura classica e dall'illuminismo, alla cui riscoperta critica si dedicarono egli stesso, bibliofilo appassionato, e Franco Venturi. Da presidente dell’associazione dei piemontesi a Roma, promossa nel 1944 da Renzo Gandolfo, nel 1961 presentò i due poderosi volumi Storia del Piemonte (ed. Casanova).

Quali pionieri e numi tutelari del federalismo europeo vengono solitamente citati Altiero Spinelli, Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman, autore del piano che dette vita alla Comunità europea del carbone dell'acciaio. Tra i profeti e artefici della Nuova Europa va però posto e ricordato in primo luogo proprio Luigi Einaudi, capace di conciliare concretezza e profezia, sulla base irrinunciabile dello studio della storia, della scienza delle finanze e dell'economia politica, senza la quale la politica economica è vaniloquio.

 

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