di Aldo A.Mola
Se
il Capo dello Stato si risveglia...
Il
12 maggio 2018 il Capo dello Stato Sergio Mattarella rievocò Luigi Einaudi a
Dogliani nel 70° del suo insediamento a primo presidente effettivo della
Repubblica italiana. Disse che lo Statista ebbe “il compito di definire la
grammatica della democrazia italiana appena nata”. Come già aveva fatto nel
1945 in correzione di Ferruccio Parri, se fosse stato in vita Benedetto Croce
avrebbe osservato che anche l'Italia pre-fascista, quella di Luigi Zanardelli e
di Giovanni Giolitti, era stata una democrazia, vegliata da Vittorio Emanuele
III. Mattarella evocò alcuni capisaldi del suo predecessore, “a partire dall'esercizio
del potere previsto dall'articolo 87 della Costituzione, che regola la
presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa”.
Einaudi non esitò a rinviare alle Camere due leggi perché “comportavano aumenti
di spesa senza copertura finanziaria, in violazione dell'articolo 81 della
Costituzione”. Che cosa direbbe e farebbe oggi Einaudi a cospetto dello scempio
del Parlamento e del debito pubblico? A Dogliani Mattarella ricordò che il 12
gennaio 1954 Einaudi lesse ad Aldo Moro e a Stanislao Ceschi una “nota verbale”
sulla corretta interpretazione dell'articolo 92 della Carta, motivata dal
“dovere del presidente della Repubblica di evitare si pongano precedenti grazie
ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore,
immuni da ogni incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”.
Per lui il Capo dello Stato non è succubo dei partiti. Di lì la sua avversione
nei confronti del “governo di assemblea, che vuol dire tirannia del gruppo di
maggioranza”.
Storico
di alto profilo, Einaudi capì e spiegò la grandezza di Vittorio Emanuele III
quando il 25 luglio 1943 esautorò Mussolini: “La prerogativa sovrana può e deve
rimanere dormiente per lunghi decenni e risvegliarsi nei rarissimi momenti nei
quali la voce unanime, anche se tacita, del popolo gli chiede di farsi innanzi
a risolvere una situazione che gli eletti dal popolo da sé non sono capaci di
affrontare o per stabilire l'osservanza della legge fondamentale, violata nella
sostanza, anche se osservata nell'apparenza”. Un mònito più che mai attuale in
questo difficile inizio dell'Anno Nuovo che coincide il 60° della morte dello
Statista cuneese.
Ma
chi fu Einaudi?
Luigi
Einaudi (Carrù, 24 marzo 1874 - Roma, 30 ottobre 1961) fu eletto primo
presidente effettivo della Repubblica italiana al quarto scrutinio l'11 maggio
1948, con 518 suffragi su 871 votanti. Liberale e monarchico, egli non aveva
“studiato” da capo dello Stato. Aveva studiato. Perso a dodici anni il padre,
esattore delle imposte (recandole nottetempo in calesse dalle Langhe a Cuneo in
certi tratti armava la rivoltella), crebbe in casa dello zio Francesco
Fracchia, notaio a Dogliani. Nel 1922 ne raccolse gli Appunti per la storia
politica ed amministrativa di Dogliani. Allievo nel collegio dei Padri
Scolopi a Savona, nel 1888 fu proclamato “Principe dell'Accademia” su
indicazione del geografo Arcangelo Ghisleri, massone. Einaudi fu cattolico
praticante, ma senza ostentazione e rispettoso delle altre confessioni. Per
comprenderne la cultura bisogna visitarne le terre d’origine, le stesse di
Giolitti e di Marcello Soleri, narrate da suo nipote Roberto in Radici
montane (ed. Aragno). Il suo mondo era ispirato dai principi all’epoca
comuni non solo alla classe dirigente diffusa (deputati, senatori, consiglieri
provinciali, sindaci consiglieri comunali, “notabili”...), ma tra tutte le
persone perbene, anche umili genere natae. I loro motti
erano “aiuta te stesso” e “volere è potere”, come insegnò il
naturalista Michele Lessona.
Laureato in giurisprudenza a Torino appena
ventenne, dopo un breve impiego alla Cassa di Risparmio di Torino dal 1896
iniziò a scrivere per “La Stampa”, fu professore all’Istituto Tecnico “Franco
Andrea Bonelli” di Cuneo e al “Germano Sommeiller” di Torino. Divenne “il
maggiore economista liberale del Novecento” a giudizio di Francesco Forte,
docente nella sua stessa cattedra di Scienze delle Finanze. Aveva già alle
spalle opere prestigiose, come Un principe mercante. Studi sull'espansione
coloniale italiana, sulla finanza nello Stato sabaudo e sulle imposte. A
lungo collaboratore della rivista “Critica sociale” di Filippo Turati e Claudio
Treves, crebbe nel laboratorio della “Riforma sociale” promossa a Torino dal
pugliese Salvatore Cognetti de' Martiis e ne assunse la direzione nel 1908. Dal
1903 nel “Corriere della Sera” e dal 1922 nell'“Economist”, Einaudi polemizzò
aspramente contro i “trivellatori dello Stato” e rimproverò a Giolitti di
utilizzare il potere per mediare tra le parti sociali e garantire una costosa
“stabilità di governo” a beneficio di “clienti” e opportunisti. Docente
straordinario di scienza delle finanze a Pisa nel 1902, lo stesso anno fu
chiamato dall'Università di Torino.
Credeva nella “bellezza della lotta”, cui
intitolò un saggio nel 1923. Interventista nel 1914-1915, il 6 ottobre 1919 fu
nominato senatore su proposta di Francesco Saverio Nitti. Nel 1922 appoggiò il
governo di coalizione nazionale presieduto da Benito Mussolini, che sino alla
notte fra il 29 e il 30 ottobre si propose di averlo ministro delle Finanze
affinché potesse attuare i suoi insegnamenti: ridurre drasticamente la spesa
pubblica “clientelare”, ripristinare il prestigio dello Stato, assicurare i
servizi, azzerare mafie, camorre e tagliare le unghie agli opposti
corporativismi: imprenditori “pescicani” e sindacati parassitari. Rimasto
escluso dall'esecutivo, ne commentò l'ondivaga condotta con articoli sempre più
severi. Al fervore scientifico unì la passione civile per le libertà. Già
direttore delI'Istituto di Economia “Ettore Bocconi” di Milano, pubblicò una
raccolta di saggi per il giovane editore torinese Piero Gobetti, strenuo
oppositore e vittima del regime incipiente.
All'indomani dell'assassinio del deputato
socialista Giacomo Matteotti (10 giugno 1924) per mano di una squadraccia
fascista, Einaudi deplorò pubblicamente “il silenzio degli industriali”. L'anno
seguente sottoscrisse il “Manifesto” degli intellettuali antifascisti scritto
da Benedetto Croce. Le sue opere ormai erano note anche oltre Atlantico. Come
Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati, nel 1918 aveva giustapposto al sogno della
Società delle Nazioni la più realistica e urgente Federazione europea per
scongiurare che dal collasso degli imperi nascessero devastanti nazionalismi.
Tornò da altro versante a scriverne in Dei diversi significati del concetto
di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo, in
controcanto con il “giolittiano” Benedetto Croce, autore della Storia d'Italia
(1928). Sarebbe però errato ritenere che Einaudi fosse un “liberista assoluto”.
Tra le sue massime spicca “l'uomo libero vuole che lo Stato intervenga”. Il suo
era “liberalismo senza aggettivi”. Come ha ricordato Tito Lucrezio Rizzo nel
suo profilo biografico, Einaudi ammonì: “la scienza economica è subordinata
alla legge morale”.
Di vasto respiro e profondità documentaria e
critica spiccano due sue opere degli Anni Trenta: La condotta economica e
gli effetti sociali della guerra (1933), scritta quindici anni dopo la fine
della Grande Guerra, e Teoria della moneta immaginaria nel tempo da
Carlomagno alla rivoluzione francese (1936). Dopo l'arresto e
la breve detenzione dei figli Giulio e Roberto (il terzo, Mario,
era migrato negli Stati Uniti d'America) e la forzata chiusura della “Riforma
sociale”, Einaudi fondò la dotta e prestigiosa “Rivista di storia economica”,
pubblicata dalla casa editrice di suo figlio Giulio e protratta sino al 1943.
Nel 1938 fu tra i dieci senatori che votarono contro la legge “per la difesa
della razza” e si pronunciò contro l'antisemitismo e l'incipiente vassallaggio
ideologico-diplomatico-militare del governo Mussolini nei confronti della
Germania di Adolf Hitler. Tenuto come tutti i pubblici dipendenti a dichiarare
la propria “stirpe” rispose che la sua gente era da sempre “ligure” con apporti
di altri popoli nel corso del tempo.
Dopo molte edizioni dei fondamentali Principii
di scienza della finanza condensò decenni di studi in Miti e paradossi
della giustizia tributaria (1938). Come ha scritto Ruggiero Romano nella introduzione
ai suoi Scritti economici, storici e civili (Meridiani Mondadori, 1973)
Einaudi fu “il più grande demitizzatore” italiano del Novecento, non solo su
teorie e pregiudizi economicistici, ma con riferimento alla vita sociale:
abolizione delle “maiuscole”, dei “titoli” vanesii, dei formalismi pomposi
ostentati per celare il vuoto.
Tra esilio e dopoguerra
Al crollo del regime mussoliniano (25 luglio
1943) Einaudi fu nominato rettore dell'Università di Torino,
mentre Filippo Burzio assunse la direzione della “Stampa”. Con la proclamazione
della resa senza condizioni (8 settembre 1943), quando l'Italia rimase “divisa
in due” (formula poi usata da Croce) e le regioni centro-settentrionali furono
rapidamente occupate dai tedeschi, appreso di essere ricercato Einaudi riparò
in Svizzera. Vi pubblicò, tra l’altro, I problemi economici della
Federazione europea. Sulla fine dell'anno seguente fu
chiamato a Roma dagli Alleati e dal governo presieduto da Ivanoe Bonomi, che il
4 gennaio 1945, d'intesa con il ministro del Tesoro Marcello Soleri, lo nominò
governatore della Banca d'Italia in successione a Vincenzo Azzolini, arrestato
per presunta collusione con gli occupanti germanici in danno della Banca
stessa. Quale direttore generale volle a fianco Donato Menichella, che non
conosceva di persona ma la cui formidabile competenza sulle relazioni tra banca
e industria molto apprezzava. Lo attese un compito immane. Aveva pubblicato Lineamenti
di una politica economica liberale. Il governo era sotto tutela della
Commissione Alleata di Controllo. L'amministrazione era a sua vola subordinata
ai governatori militari. L'Italia meridionale era inondata dalle Am-Lire. La
moneta circolante era quasi venti volte superiore a quella d'anteguerra.
L'inflazione galoppava. Il prodotto interno in molte regioni era dimezzato. In tante
plaghe la popolazione era alla fame. I sei partiti presenti nel Comitato
Centrale di Liberazione Nazionale (in quello dell'Alta Italia mancava la
Democrazia del lavoro) e al governo erano divisi, nell'immediato e nelle
prospettive ultime. Il capo del governo, Pietro Badoglio, aveva sciolto la
Camera; l'alto commissario per l'epurazione aveva privato quasi tutti i
senatori del rango e dei diritti politici e civili. Il governatore dovette
quindi valersi di cariche e poteri ulteriori a sostegno dalla propria opera. Fu
nominato membro della Consulta Nazionale che preparò la Costituente ed eletto
per il partito liberale all’Assemblea Costituente (2-3 giugno 1946). Tornato
dal “viaggio di istruzione” negli Stati Uniti d'America (1947), il presidente
del Consiglio Alcide De Gasperi lo volle vicepresidente e ministro del
Bilancio. Con apposito decreto fu confermato governatore della Banca d'Italia e
poté tessere la tela quotidiana della Ricostruzione.
Consapevole delle drammatiche difficoltà nelle
quali versava il Paese, anziché vagheggiare progetti tanto vasti quanto
irrealistici puntò a interventi “a pezzi e bocconi”, come narrato dal suo fido
segretario particolare, Antonio d'Aroma. Doveva ristrutturare un edificio
occupato da persone che non potevano esserne allontanate, la “romana burocrazia
nostra sovrana”. Per attuare il risanamento monetario a suo avviso non
esistevano “mezzi taumaturgici”. Dopo il prestito nazionale promosso da
Marcello Soleri, che gli dedicò gli ultimi febbricitanti mesi di vita con
patriottismo esemplare, Einaudi lasciò che il tempo facesse tramontare
propositi inattuabili, quali il “cambio della lira” che avrebbe provocato la
fuga dei pochi capitali disponibili e scoraggiato investimenti dall'estero.
Come da lui previsto, in un paio d' anni le speculazioni si esaurirono e
l'inflazione si ridusse a indici accettabili con la ripresa, favorita dai
giganteschi prestiti senza oneri concessi dagli USA nell'ambito del Piano
Marshall. Capita una volta ogni 60 anni..., ma occorre chi sappia investirli.
Contrario a imposte straordinarie,
contrarissimo a tasse patrimoniali che avrebbero colpito media e piccola
proprietà (se ne era occupato nel magistrale saggio del 1920 su Il problema
delle abitazioni), Einaudi mirò alla riesumazione della classe media, della
scuola (pubblica o privata, purché seria, formativa, rigorosa: oggi purtroppo
corre su banchi a rotelle verso l'abisso), di quanti servivano lo Stato con
dedizione alimentata dal ricordo delle sofferenze vissute nelle due guerre e a
prezzo di tante vite. Monarchico libero da feticismi, poté presto salutare il
plebiscito del “quarto partito”: i risparmiatori, spina dorsale della Nuova
Italia. Nella sua immane opera ebbe collaboratori il biellese Giuseppe Pella,
futuro presidente del Consiglio, e l'insigne economista Gustavo Del Vecchio.
Alla Costituente pronunciò discorsi
appassionati e taglienti. Componente della Commissione dei Settantacinque che
redasse la bozza della Carta, ottenne l'approvazione dell'articolo 81, che
recita: “Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire
nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove e maggiori
spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”.Nominato membro di diritto del
Senato della Repubblica (22 aprile), all'indomani delle elezioni, prese parte
all'inaugurazione della prima legislatura, chiamata a eleggere il Capo dello
Stato.
Attualità di un antico Capo dello Stato
Alle 6 del mattino del’11 maggio 1948 Giulio
Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, andò a informarlo che
De Gasperi lo avrebbe fatto votare presidente della Repubblica per superare lo
stallo sul nome di Carlo Sforza, per tre volte sostenuto senza successo. Il
settantaquattrenne statista non gli ricordò di aver votato monarchia; lo aveva
fatto anche Andreotti. Osservò invece che, claudicante e minuto qual era,
avrebbe dovuto sfilare dinnanzi ai corazzieri. Fu eletto e nessuno trovò
alcunché da obiettare. I corazzieri non avevano dimenticato Vittorio Emanuele
III.
Capo dello Stato, Einaudi lasciò memoria del
suo operoso settennato in Lo scrittoio del Presidente e in
Prediche inutili. Continuò a studiare, a pubblicare e a promuovere
ricerche per unire gli italiani, come poi fece negli anni seguenti, restituito
alla cattedra universitaria ad vitam con speciale decreto. Improntò
l'esercizio del suo ruolo alla discrezione, al rigore, alla continuità. Lo si
vide con l'istituzione del Segretariato Generale, nel solco del Ministero della
Real Casa. Nulla di enfatico, tutto volto al pratico, con la misura
dell’austerità. All'inizio del 1945 aveva tracciato le linee del nuovo
liberalismo: “quando siano soppressi i guadagni privilegianti derivanti da
monopolio, e siano serbati e onorati i redditi ottenuti in libera concorrenza
con la gente nuova, e la gente nuova sia tratta anche dalle file degli operai e
dei contadini, oltre che dal medio ceto; quando il medio ceto comprenda la più
parte degli uomini viventi, noi non avremo una società di uguali, no, che
sarebbe una società di morti, ma avremo una società di uomini liberi”.
Qual è l'eredità di Einaudi? Quando sentiva
(talora anche da persone “di casa”) vagheggiare di ideologie “sovietiche”
neppure rispondeva: batteva il bastone per terra per dire che era impossibile
dialogare. Anch'egli coltivò propositi mai attuati, a cominciare
dall'abolizione del valore legale dei titoli di studio (più che mai urgente,
visto il degrado del sistema scolastico) e dalla confutazione del mito dello
“stato sovrano”: pagine, queste, pubblicate nella Piccola antologia
federalista, con scritti di Jean Monnet, Denis de Rougemont e altri.
Cultore profondo del “senso dello stato” che,
spiegò Benedetto Croce, ministro dell’Istruzione con Giolitti, non è solo “liberismo”,
è “liberalismo”, Einaudi ne indicò i fondamenti nella tradizione
civile sorta dalla cultura classica e dall'illuminismo, alla cui riscoperta
critica si dedicarono egli stesso, bibliofilo appassionato, e Franco Venturi.
Da presidente dell’associazione dei piemontesi a Roma, promossa nel 1944 da Renzo
Gandolfo, nel 1961 presentò i due poderosi volumi Storia del Piemonte
(ed. Casanova).
Quali pionieri e numi tutelari del federalismo
europeo vengono solitamente citati Altiero Spinelli, Alcide De Gasperi, Konrad
Adenauer e Robert Schuman, autore del piano che dette vita alla Comunità
europea del carbone dell'acciaio. Tra i profeti e artefici della Nuova Europa
va però posto e ricordato in primo luogo proprio Luigi Einaudi, capace di
conciliare concretezza e profezia, sulla base irrinunciabile dello studio della
storia, della scienza delle finanze e dell'economia politica, senza la quale la
politica economica è vaniloquio.
Nessun commento:
Posta un commento