da Il Giornale del Piemonte e della Liguria, 28/1/2018
di Aldo A. Mola
“La verità è che quando il fascismo arrivò al
governo, delle antiche istituzioni parlamentari non rimaneva più che
l'apparenza esteriore. Nella sostanza esse erano state distrutte, e vi si era
sostituito una specie di direttorio, composto dai delegati dei gruppi
(parlamentari), cioè la più anarchica tra tutte le forme di governo. In quanto
dunque il fascismo riconsacrò l'idea di Patria e restaurò l'autorità dello
Stato, i fini da esso raggiunti coincidono con quelli a cui dedicai tutta la
mia esistenza politica”. Lo scrisse Vittorio Emanuele Orlando, il “presidente
della Vittoria”, monarchico, liberale, “pater” della rinascita post-fascista e
punto di riferimento di ambienti mafiosi secondo Tommaso Buscetta e altri (lo
ricorda Riccardo Mandelli in “I
fantastici 4 vs Lenin”, Ed. Odoya). Era il 2 aprile 1924, quattro giorni prima
della straripante vittoria del Partito Nazionale Fascista alle elezioni, in cui
ottenne il 66% dei voti. “Il fascismo sorse come protesta contro un eccesso di
violenza sovvertitrice della vita nazionale. Il senno e l'intuito del Capo
dello Stato (Re Vittorio Emanuele III) risparmiarono una guerra civile, le cui
conseguenze sarebbero state gravissime. Mussolini (il 31 ottobre 1922) costituì
un ministero che raccoglieva i rappresentanti di tutti i partiti costituzionali
e nulla rinnovò negli ordinamenti costituzionali dello Stato. Mussolini, pur
facendo al partito (fascista) larghe concessioni, voleva ottenere dal
Parlamento la legalizzazione del fatto compiuto”. Lo dichiarò il 3 aprile 1924
Enrico De Nicola, futuro primo presidente della Repubblica. Sono frasi da
rileggere e meditare quando si parla, talora a sproposito, di fascismo e di
regime fascista come un “continuum” nato, cresciuto e concluso secondo un
percorso logico-cronologico uscito dalla mente del duce come Minerva da quella
di Giove. La realtà storica è del tutto diversa. Il fascismo fu prima
movimento, poi partito. La sala a piazza San Sepolcro in Milano per la prima
sortita di Mussolini, il 23 marzo 1919, venne procacciata da Cesare Goldmann,
ebreo e massone. Orlando, De Nicola e una lunga serie di liberali, democratici
ed ex esponenti del partito popolare (cioè dei cattolici) nel 1924 affollarono
la Lista Nazionale e giudicavano il fascismo non su quanto sarebbe avvenuto in
un futuro ancora del tutto imprevedibile, ma sulla base di quanto avevano sotto
gli occhi: la restaurazione dello Stato dopo anni di guerra civile strisciante,
intrapresa da chi voleva “fare come in Russia”, cioè annientare le istituzioni
uscite vittoriose dalla Grande Guerra (corona, forze armate, “borghesia”...).
La vera storia del regime fascista non è
quella raccontata in discorsi di circostanza. Il 1922-1924 non contiene né le
leggi speciali (iniziate con la caccia ai massoni nel 1924-1925), né il 1938,
le leggi razziali, il patto d'acciaio e quel che ne seguì. La storia procede a
segmenti discontinui e va capita seguendola passo passo, non partendo dalla sua
fine. Fluisce come immenso fiume gonfio di acque limpide e detriti, di carogne
e sabbie aurifere. Non chiede né sentenze, né giustificazioni, ma cognizioni e
comprensione, in una visione di lunga durata e con la comparazione degli eventi
di un paese con quelli coevi degli altri Stati, almeno i propinqui.
È il caso dell'Italia tra il 1919 e il 1946.
Ne scrive Guido Melis, autorevole studioso delle istituzioni politiche e della
storia dell'amministrazione pubblica, nell'importante volume “La macchina
imperfetta”, sintetizzato dal sofferto sottotitolo: “Immagine e realtà dello
Stato fascista” (ed. il Mulino).
Sulla scorta di decenni di studi severi studi
l'autore chiarisce tre “fatti” fondamentali. In primo luogo, contrariamente a
quanto solitamente si ritiene, quando venne nominato presidente del Consiglio
Mussolini utilizzò largamente la dirigenza esistente (monarchica, liberale,
democratica, riformista...) in tutti i settori fondamentali: dalla diplomazia
alle forze armate, dalla giustizia all'istruzione e all'economia. A quanto egli
scrive potremmo aggiungere un elenco lunghissimo di antifascisti notori
chiamati dal duce al governo e al vertice dei gangli vitali dello Stato.
Altrettanto avvenne ai vertici
dell'“impresa Italia” (banche, grande industria, commercio...) e
dell'Istituto per la Ricostruzione Industriale affidato al massone Alberto
Beneduce. Inoltre Mussolini ridusse il partito a succedaneo dello Stato e la
Milizia a “dopolavoro” del partito, libera di celebrare i suoi riti chiassosi
(come il giuramento di fedeltà “a Dio e alla Patria”, ignorando il Re), ma
senza effettivo potere politico e militare, come si vide nell'ora decisiva, il
25-26 luglio 1943, quando essa risultò evanescente. Infine Melis affronta la
“vexata quaestio”: il rapporto tra la monarchia e il fascismo, concretamente
tra Vittorio Emanuele III e Mussolini. Al riguardo non aggiunge molto a quanto
noto e conclude che durante il regime l'Italia fu una diarchia “piuttosto di
fatto che di diritto”, giacché, tratte le somme, il potere apicale rimase nelle
mani del sovrano. A chiarimento ulteriore, occorre spazzare via uno degli
equivoci perduranti su un nodo centrale del “ventennio” (che poi fu un
quindicennio: 1928-1943). Il Gran
Consiglio del Fascismo, istituito con la legge 9 dicembre 1928, n. 2693, non
ebbe e non esercitò alcun potere effettivo sulla Corona né, meno ancora, sulla
successione al trono. Esso era tenuto a “esprimere il parere su tutte le
questioni aventi carattere costituzionale”, tra le quali le “proposte di legge
concernenti la successione al Trono, le attribuzioni e le prerogative della
Corona, i rapporti tra lo Stato e la Santa
Sede” e doveva anche tenere “aggiornata la lista dei nomi da presentare
alla Corona in caso di vacanza per la nomina a Capo del Governo”. Il Gran
Consiglio, dunque, non ebbe alcun vero controllo sulla successione, ma solo il
“dovere” di formulare un “parere” (la legge non precisò se vincolante) su
disegni di legge: la differenza è enorme, anche se troppi storici (inclusi
parecchi “monarchici”) non l'hanno né compreso né spiegato nei loro libri e/o
dalle cattedre.
Melis dedica un robusto capitolo a “lo Stato
totalitario e lo Stato razzista”, cioè alla crisi profonda aperta in Italia dal
1938, pesantemente condizionata dall'annessione dell'Austria da parte della
Germania di Hitler, confermata da entusiastico plebiscito nell'inerzia afona di
Francia e Gran Bretagna. In quel drammatico contesto, Mussolini intraprese
l'offensiva contro la monarchia utilizzando anche le leggi razziali, che
avevano innumerevoli e fervidi sostenitori nel mondo cattolico e nelle sinistre
(Lenin, Stalin, il Partito comunista d'Italia...) che da mezzo secolo
marchiavano a fuoco il complotto “giudaico-massonico”.
Tra i fautori di quelle leggi vi fu Giuseppe
Bottai, il “fascista critico”, una cui frase Melis ricorda quale lapide tombale
sul “regime”: “Guardo questo irresponsabile (un ufficialetto sedentario al
ministero della Guerra) fatto responsabile da questo meccanismo
d'irresponsabilità in cui ci siamo cacciati”. Era il 17 novembre 1940. L'Italia
stava perdendo l'offensiva contro la Grecia (una tra le decisioni militari più
stolte di Mussolini). Ma, oltre che volatile in loggia, dov'era stato Bottai
dal 1922? Non erano suoi la Carta della Scuola e la retorica del corporativismo
e “Primato”?
Melis ha il merito di documentare che il
governo Mussolini fece fuoco con la legna che si trovò a disposizione: i
funzionari forgiati nei decenni precedenti, non solo con la regia di Giovanni
Giolitti ma sin da Francesco Crispi e prima ancora. La dirigenza di un Paese
non si improvvisa. I prefetti dell'età mussoliniana (1922-1943) erano a
servizio dello Stato da fine Ottocento. Lo stesso vale per élites militari
(Melis ne scrive in “fascio e stellette”), diplomatici, docenti universitari,
scienziati, come Guglielmo Marconi e per tanti componenti dell'Accademia
d'Italia.
Lo stesso del resto avvenne dopo il 1946,
cessato il “tempo del furore” alimentato da partiti vendicativi e in gran parte
intrinsecamente antinazionali, acremente critici nei confronti dell'unità
nazionale, dell'“idea di Italia” (neoborbonici, neopapisti e neoasburgici ora
dilaganti sono solo paleogramsciani in confusione). Il miracolo economico fu
opera di una dirigenza che arrivava dagli Anni Trenta, animata da un alto senso
dell'interesse pubblico.
Dall'opera meritoria di Melis emerge anche la
differenza profonda tra l'Italia monarchica e l'attuale. Piaccia o meno, fu
Vittorio Emanuele III a imporre a Mussolini le dimissioni da capo del governo e
a incaricare il nuovo capo dell'esecutivo. Fu il Re a prendere sulle spalle il
peso della richiesta di resa incondizionata per sottrarre l'Italia a sciagure
peggiori. Il sovrano decise in solitudine, e sin dal 1941, come poi scrisse
nella “memoria” a difesa del ministro della Real Casa, duca Pietro d'Acquarone.
Fu il punto di arrivo di un lungo processo, fondato, tra altro, su un caposaldo
della monarchia costituzionale sabauda: l'esclusione del Principe ereditario da
qualsiasi responsabilità nelle decisioni del sovrano in carica perché “si regna
uno per volta”, così come la Repubblica ha un Capo dello Stato per volta. Sui
motivi dell'esclusione del principe Umberto dalle scelte politiche del padre
sono state scritte insinuazioni di sapore anche scandalistico. Al netto delle
chiacchiere, resta che David è David ed esclude che da qualche parte s'infratti
un Assalonne (Antico Testamento, Secondo libro di Samuele, 16-18). La monarchia
sabauda non ha mai derogato alle regole della Casa. In Repubblica, invece, il
potenziale “principe ereditario”, cioè il presidente del Senato, chiamato ad
assumere le funzioni di Capo dello Stato in caso di impedimento permanente o di
morte o di dimissioni del Presidente, si erge ad Assalonne e assume la guida di
un partito politico, addirittura di opposizione al governo in carica. È lo
sbando delle istituzioni. Se per sciagura dovesse affrontare una crisi vera,
come ne uscirebbe questa Italia? La Spagna lo sta facendo perché, a fronte della
pochezza antistorica degli indipendentisti catalani, fa perno su Filippo VI di
Borbone, cioè sulla monarchia, tutt'uno con l'unità di quel Paese. Qual è
invece lo Stato d'Italia mentre Pietro Grasso e la presidente della Camera,
Laura Boldrini, fanno campagna elettorale? Qualcuno osserverà che anche in
passato i presidenti delle Camere si concessero qualche discorso elettorale: ma
non strizzavano l'occhio a forze anti-sistema né erano “all'opposizione”.
L'Italia odierna ha due paradossi clamorosi: un ministro degli Esteri non
dimissionario ma da mesi scomparso dalle scene (a quando una spiegazione,
presidente Gentiloni?) e la solitudine del Presidente della Repubblica, Sergio
Mattarella, un David che si prodiga in quotidiane presenze sulle trincee più
disparate. Porta sulle spalle il “brut fardel” dello Stato, come Vittorio
Emanuele II definì il peso della Corona in un Paese giovane, che solo in questo
2018 ricorderà il centenario della sofferta Vittoria del 4 novembre 1918. Non
fu “inutile strage” ma coronamento del Risorgimento, la grande prova dell'unità
nazionale in un'Europa al collasso. Perciò è l'ora di “stringersi a coorte” e
di andare alle urne per difendere il patrimonio comune degli italiani, l'Unità
nazionale, uno Stato che macina storia al di là dei regimi che vi si sono
susseguiti nel tempo.
Aldo A. Mola
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