NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 23 gennaio 2018

Io difendo la Monarchia - II cap. V parte

I fasci erano divenuti 2200 e i fascisti 310 mila. Il fenomeno milanese dei 1919 si era esteso al nord e nel centro d’Italia, ma in sostanza esso era ancora un fenomeno padano. Bisogna cercare di spiegarsi perché tutti i movimenti politici ci vengono dalla pianura padana: il socialismo, il fascismo e, oggi, la nuova agitazione per la Costituente e per la Repubblica. Milano ci dette la Critica Sociale e l’Avanti!. Milano ci ha dato II Popolo d’Italia e Gerarchia. Milano sembra voglia impartire oggi la sua nuova lezione agli Italiani. Ogni generazione padana aggiunge una sua infelice esperienza a quella dei padri e sempre ha l’aria di insegnare qualcosa agli Italiani delle altre regioni, come se i movimenti politici volta a volta esaltati e rinnegati non fossero milanesi, ma siciliani o pugliesi o napoletani. Ora non v’è dubbio che quei movimenti rappresentano tutti un momento nella vita del popolo italiano, ma i fermenti delle antiche fazioni comunali, ma l'assenza d'ogni tradizione e d’ogni rispetto dello Stato, ma lo spirito di insofferenza e di violenza superano ogni possibile vantaggio. Così i progressi realizzati con il socialismo finirono con gli incendi delle Camere del Lavoro e delle Cooperative ad opera del fascismo padano. Così gli stessi progressi e le numerose opere del fascismo finirono nei più grandi incendi e nelle immani distruzioni delle offese e delle occupazioni straniere.
Non è possibile che la faziosità e la turbolenza ricorrente di una parte del paese, sia pure la parte più favorita e più ricca, debba sempre costituire un titolo di merito nel governo dello Stato nonostante il bilancio fallimentare delle precedenti prove. Nella Storia delle repubbliche italiane del Sismondi si legge che « tutto fu dato a tutti dalla natura» e quindi solo i governi hanno la responsabilità della felicità o infelicità dei popoli.
«La storia c’insegna - dice il Sismondi - che il carattere dei popoli, le virtù o i vizi, l’energia o l’indolenza, i lumi o l’ignoranza non sono quasi mai l’effetto del clima o della particolare razza, ma l’opera del Governo e delle leggi : che tutto dalla natura vien dato a tutti, ma che il Governo conserva questa comune eredità ai suoi soggetti o ne gli spoglia».
In tempi di alto progresso industriale in cui la vita dei popoli può dipendere dal possesso di alcune materie prime, non ci pare facile sostenere la tesi del Sismondi, ma probabilmente lo storico voleva affermare l’influenza della tradizione statale e del suo secolare reggimento nel comportamento di un popolo. Ora è noto che è mancata al nord l’esperienza di un Governo unitario e quindi, quella seria tradizione dello Stato, così radicata, per altro, in Piemonte e nel sud della penisola. Questo spiega il diverso comportamento di città come Napoli, Bari, Palermo nelle presenti distrette della Patria italiana, rispetto a Milano, Bologna, Cremona costantemente pronte alla guerra civile.
Scrive lo stesso Sismondi a pag. 61 del terzo volume della sua Storia (1) a proposito della turbolenza di Firenze al tempo dei Ciompi; «Trovandosi allora a Firenze di molta minuta gente la quale o per l'indole del lavoro suo normale o per miseria o dipendenza non era atta a nodrire liberali pensieri; costoro non potevano venire a consulta senza muoversi quasi ad ebbrezza; né tutti insieme operare senza concitarsi a furore. E sotto il nome di libertà non avevano essi, nell’esercizio di un potere pel quale non erano fatti, cercato mai altro che l’occasione di arricchirsi col saccheggio e con le rapine ».
Come si vede quel costume è tenace in Italia e il fascismo annullando la faticosa opera morale del Risorgimento lo ha ravvivato. Quel cattivo costume finirà però con lo spezzare la breve tradizione unitaria dello Stato italiano.
Il fascismo fu per le sue ideologie, pel suo razzismo, pel suo autoritarismo, pel suo imperialismo aggressivo, per il conto che esso faceva delle piccole nazioni europee, l'Antirisorgimento.
Ed ora, venuto a morte, quel movimento dà i suoi frutti velenosi: la Repubblica (sociale o partigiana) e la disunione della Patria. Le polemiche tra nord e sud sono ora più aspre di quel che non fossero tra piemontesi e napoletani al tempo della calata del Cialdini a Gaeta. Nella crisi dell'ottobre 1860 sono contenuti numerosi insegnamenti che si dovevano tenere presenti nel l'ottobre 1922. Nel Parlamento piemontese vi fu, infatti una memorabile discussione sulla «questione italiana ».
Il dibattito fu aperto il 2 ottobre 1860 con un discorso di Cavour. Nelle settimane precedenti, Garibaldi si era opposto all’annessione pura e semplice, dei territori meridionali al Piemonte fino a quando non fossero liberate Roma e la Venezia. Cavour temeva gli indugi perché pensava che il Dittatore delle Camicie Rosse poteva essere trascinato a risolvere la questione italiana con la
rivoluzione mazziniana e con un attacco improvviso a Roma. I consiglieri del Generale insistevano infatti per la immediata spedizione sulla città del Papa. Vi fu uno scambio di messaggi e di proclami assai aspro tra Napoli e Torino. Dopo avere accennato al dissenso con il generale Garibaldi, Cavour disse; «Custodi fedeli dello Statuto del quale a noi più che ad altri incombe l’esecuzione più scrupolosa, non crediamo che la parola di un cittadino per quanto segnalati siano i servigi da lui resi alla Patria, possa prevalere all'autorità dei grandi poteri dello Stato. Però è debito assoluto dei Ministri di un Re costituzionale di non cedere dinnanzi a pretese poco legittime anche quando sono avvalorate da una splendida aureola popolare e da una spada vittoriosa ».
L’11 ottobre Cavour chiariva ancora la propria posizione rispetto a Garibaldi: «Se egli è dittatore di Napoli è pure il cittadino che come noi ha giurato lo Statuto».
Poiché in sostanza la Corona non riteneva di poter cambiare i suoi consiglieri e i ministri non potevano modificare i loro consigli, ecco che Cavour chiamava arbitro il Parlamento a decidere del dissidio tra il governo del Re e il Dittatore.
Questo precedente avrebbe dovuto essere presente agli uomini politici nell'ottobre 1922 quando in seguito al congresso di Napoli e alle richieste di Mussolini, il Gabinetto Facta senz'altro piegò (2) e si dimise. Invano il Re aveva insistentemente consigliato di convocare e interrogare la Camera perché fosse chiarita la situazione e data autorità al Governo per le sue risoluzioni nei confronti del fascismo. Egli è che da tempo, il rispetto alla Camera era andato mancando, il suo prestigio declinava e sempre più decadeva l’autorità del governo e la fiducia nel sistema parlamentare. Così fece difetto l'atteggiamento dei deputati e dei senatori che si affrettarono ad acclamare Mussolini dittatore. Quanti osarono schierarsi contro? Quanto influì sulle decisioni del Re, scrupolosamente costituzionale, la compattezza della Camera e del Senato in favore del fascismo, il plauso della grandissima maggioranza dell'opinione pubblica delirante in ogni città d'Italia?
Pertanto si apriva minacciosa nel 1922 la crisi che con molte difficoltà e grande accorgimento aveva potuto essere superata nel 1860-61.
« Rivoluzione e governo costituzionale — esclamava Cavour nella sua relazione al progetto di legge che autorizzava ad accettare e stabilire per decreto l’annessione delle provincie dell'Italia centrale e meridionale (2 ottobre 1860) non possono coesistere lungamente in Italia
senza che la loro qualità non produca una opposizione e un conflitto il quale tornerebbe a solo profitto del nemico comune ».
Nel 1922 Mussolini pretese di conciliare la costituzione con la rivoluzione e questo pasticcio nefasto fu portato innanzi per 21 anno sino alla distruzione e invasione del Paese.


        BISMONDO SISMONDI: Storia delle repubbliche italiane del Medio Evo. Milano, 1851.


È opportuno rilevare che In occasione consimile, il Governo del Piemonte si comportò in maniera opposta. L’8 settembre 1860 in seguito alla richiesta di Garibaldi di congedare Cavour, i ministri Farini e Fanti misero i loro portafogli a disposizione del Sovrano. 
Vittorio Emanuele II poté dichiarare «di non voler mutare  né politica né ministri, avendo questi la fiducia sua e del Parlamento, ed essere disposto a far conoscere i suoi divisamenti a Garibaldi e non temere le sue risoluzioni, qualunque potessero essere le conseguenze, non esclusa quella di salire a cavallo e usare la forza». Questo straordinario elemento di chiarificazione
che solo poteva essere portato dal gran Re nella calda e romantica atmosfera del Risorgimento, è mancato — e si capisce — nell’ottobre 1922, giacché invece di simile atmosfera vi era, nel 1922, la pressione della piazza e della gente armata e la disgregazione del Parlamento.


Nessun commento:

Posta un commento