I fasci
erano divenuti 2200 e i fascisti 310 mila. Il fenomeno milanese dei 1919 si era
esteso al nord e nel centro d’Italia, ma in sostanza esso era ancora un
fenomeno padano. Bisogna cercare di spiegarsi perché tutti i movimenti politici
ci vengono dalla pianura padana: il socialismo, il fascismo e, oggi, la nuova
agitazione per la Costituente e per la Repubblica. Milano ci dette la
Critica Sociale e l’Avanti!. Milano ci ha dato II Popolo d’Italia e Gerarchia.
Milano sembra voglia impartire oggi la sua nuova lezione agli Italiani. Ogni
generazione padana aggiunge una sua infelice esperienza a quella dei padri e
sempre ha l’aria di insegnare qualcosa agli Italiani delle altre regioni, come
se i movimenti politici volta a volta esaltati e rinnegati non fossero milanesi,
ma siciliani o pugliesi o napoletani. Ora non v’è dubbio che quei movimenti
rappresentano tutti un momento nella vita del popolo italiano, ma i fermenti
delle antiche fazioni comunali, ma l'assenza d'ogni tradizione e d’ogni
rispetto dello Stato, ma lo spirito di insofferenza e di violenza superano ogni
possibile vantaggio. Così i progressi realizzati con il socialismo finirono con
gli incendi delle Camere del Lavoro e delle Cooperative ad opera del
fascismo padano. Così gli stessi progressi e le numerose opere del fascismo
finirono nei più grandi incendi e nelle immani distruzioni delle offese e delle
occupazioni straniere.
Non è
possibile che la faziosità e la turbolenza ricorrente di una parte del paese,
sia pure la parte più favorita e più ricca, debba sempre costituire un titolo
di merito nel governo dello Stato nonostante il bilancio fallimentare delle
precedenti prove. Nella Storia delle repubbliche italiane del Sismondi si legge
che « tutto fu dato a tutti dalla natura» e quindi solo i governi hanno la
responsabilità della felicità o infelicità dei popoli.
«La
storia c’insegna - dice il Sismondi - che il carattere dei popoli, le
virtù o i vizi, l’energia o l’indolenza, i lumi o l’ignoranza non sono quasi
mai l’effetto del clima o della particolare razza, ma l’opera del Governo e
delle leggi : che tutto dalla natura vien dato a tutti, ma che il Governo
conserva questa comune eredità ai suoi soggetti o ne gli spoglia».
In tempi
di alto progresso industriale in cui la vita dei popoli può dipendere dal
possesso di alcune materie prime, non ci pare facile sostenere la tesi del
Sismondi, ma probabilmente lo storico voleva affermare l’influenza della
tradizione statale e del suo secolare reggimento nel comportamento di un
popolo. Ora è noto che è mancata al nord l’esperienza di un Governo unitario e
quindi, quella seria tradizione dello Stato, così radicata, per altro, in
Piemonte e nel sud della penisola. Questo spiega il diverso comportamento di
città come Napoli, Bari, Palermo nelle presenti distrette della Patria
italiana, rispetto a Milano, Bologna, Cremona costantemente pronte alla guerra
civile.
Scrive lo
stesso Sismondi a pag. 61 del terzo volume della sua Storia (1) a proposito
della turbolenza di Firenze al tempo dei Ciompi; «Trovandosi allora a Firenze
di molta minuta gente la quale o per l'indole del lavoro suo normale o per
miseria o dipendenza non era atta a nodrire liberali pensieri; costoro non
potevano venire a consulta senza muoversi quasi ad ebbrezza; né tutti insieme
operare senza concitarsi a furore. E sotto il nome di libertà non avevano
essi, nell’esercizio di un potere pel quale non erano fatti, cercato mai altro
che l’occasione di arricchirsi col saccheggio e con le rapine ».
Come si
vede quel costume è tenace in Italia e il fascismo annullando la faticosa
opera morale del Risorgimento lo ha ravvivato. Quel cattivo costume finirà però
con lo spezzare la breve tradizione unitaria dello Stato italiano.
Il
fascismo fu per le sue ideologie, pel suo razzismo, pel suo autoritarismo, pel
suo imperialismo aggressivo, per il conto che esso faceva delle piccole nazioni
europee, l'Antirisorgimento.
Ed ora,
venuto a morte, quel movimento dà i suoi frutti velenosi: la Repubblica
(sociale o partigiana) e la disunione della Patria. Le polemiche tra nord e sud
sono ora più aspre di quel che non fossero tra piemontesi e napoletani al tempo
della calata del Cialdini a Gaeta. Nella crisi dell'ottobre 1860 sono contenuti
numerosi insegnamenti che si dovevano tenere presenti nel l'ottobre 1922.
Nel Parlamento piemontese vi fu, infatti una memorabile discussione sulla
«questione italiana ».
Il
dibattito fu aperto il 2 ottobre 1860 con un discorso di Cavour. Nelle
settimane precedenti, Garibaldi si era opposto all’annessione pura e semplice,
dei territori meridionali al Piemonte fino a quando non fossero liberate Roma e
la Venezia. Cavour temeva gli indugi perché pensava che il Dittatore delle
Camicie Rosse poteva essere trascinato a risolvere la questione italiana con la
rivoluzione mazziniana e con un attacco improvviso a Roma. I consiglieri del Generale insistevano infatti per la immediata spedizione sulla città del Papa. Vi fu uno scambio di messaggi e di proclami assai aspro tra Napoli e Torino. Dopo avere accennato al dissenso con il generale Garibaldi, Cavour disse; «Custodi fedeli dello Statuto del quale a noi più che ad altri incombe l’esecuzione più scrupolosa, non crediamo che la parola di un cittadino per quanto segnalati siano i servigi da lui resi alla Patria, possa prevalere all'autorità dei grandi poteri dello Stato. Però è debito assoluto dei Ministri di un Re costituzionale di non cedere dinnanzi a pretese poco legittime anche quando sono avvalorate da una splendida aureola popolare e da una spada vittoriosa ».
L’11 ottobre Cavour chiariva ancora la propria posizione rispetto a Garibaldi: «Se egli è dittatore di Napoli è pure il cittadino che come noi ha giurato lo Statuto».
rivoluzione mazziniana e con un attacco improvviso a Roma. I consiglieri del Generale insistevano infatti per la immediata spedizione sulla città del Papa. Vi fu uno scambio di messaggi e di proclami assai aspro tra Napoli e Torino. Dopo avere accennato al dissenso con il generale Garibaldi, Cavour disse; «Custodi fedeli dello Statuto del quale a noi più che ad altri incombe l’esecuzione più scrupolosa, non crediamo che la parola di un cittadino per quanto segnalati siano i servigi da lui resi alla Patria, possa prevalere all'autorità dei grandi poteri dello Stato. Però è debito assoluto dei Ministri di un Re costituzionale di non cedere dinnanzi a pretese poco legittime anche quando sono avvalorate da una splendida aureola popolare e da una spada vittoriosa ».
L’11 ottobre Cavour chiariva ancora la propria posizione rispetto a Garibaldi: «Se egli è dittatore di Napoli è pure il cittadino che come noi ha giurato lo Statuto».
Poiché in
sostanza la Corona non riteneva di poter cambiare i suoi consiglieri e i
ministri non potevano modificare i loro consigli, ecco che Cavour chiamava
arbitro il Parlamento a decidere del dissidio tra il governo del Re e il
Dittatore.
Questo precedente
avrebbe dovuto essere presente agli uomini politici nell'ottobre 1922 quando in
seguito al congresso di Napoli e alle richieste di Mussolini, il Gabinetto
Facta senz'altro piegò (2) e si dimise. Invano il Re aveva insistentemente
consigliato di convocare e interrogare la Camera perché fosse chiarita la
situazione e data autorità al Governo per le sue risoluzioni nei confronti del
fascismo. Egli è che da tempo, il rispetto alla Camera era andato mancando, il
suo prestigio declinava e sempre più decadeva l’autorità del governo e la
fiducia nel sistema parlamentare. Così fece difetto l'atteggiamento dei
deputati e dei senatori che si affrettarono ad acclamare Mussolini dittatore.
Quanti osarono schierarsi contro? Quanto influì sulle decisioni del Re, scrupolosamente
costituzionale, la compattezza della Camera e del Senato in favore del
fascismo, il plauso della grandissima maggioranza dell'opinione pubblica
delirante in ogni città d'Italia?
Pertanto
si apriva minacciosa nel 1922 la crisi che con molte difficoltà e grande
accorgimento aveva potuto essere superata nel 1860-61.
«
Rivoluzione e governo costituzionale — esclamava Cavour nella sua relazione al
progetto di legge che autorizzava ad accettare e stabilire per decreto
l’annessione delle provincie dell'Italia centrale e meridionale (2 ottobre
1860) non possono coesistere lungamente in Italia
senza che
la loro qualità non produca una opposizione e un conflitto il quale tornerebbe
a solo profitto del nemico comune ».
Nel 1922
Mussolini pretese di conciliare la costituzione con la rivoluzione e questo
pasticcio nefasto fu portato innanzi per 21 anno sino alla distruzione e
invasione del Paese.
BISMONDO
SISMONDI: Storia delle repubbliche italiane del Medio Evo. Milano, 1851.
È
opportuno rilevare che In occasione consimile, il Governo del Piemonte si
comportò in maniera opposta. L’8 settembre 1860 in seguito alla richiesta di
Garibaldi di congedare Cavour, i ministri Farini e Fanti misero i loro
portafogli a disposizione del Sovrano.
Vittorio
Emanuele II poté dichiarare «di non voler mutare né politica né ministri,
avendo questi la fiducia sua e del Parlamento, ed essere disposto a far
conoscere i suoi divisamenti a Garibaldi e non temere le sue risoluzioni,
qualunque potessero essere le conseguenze, non esclusa quella di salire a
cavallo e usare la forza». Questo straordinario elemento di chiarificazione
che solo
poteva essere portato dal gran Re nella calda e romantica atmosfera del
Risorgimento, è mancato — e si capisce — nell’ottobre 1922, giacché invece di
simile atmosfera vi era, nel 1922, la pressione della piazza e della gente
armata e la disgregazione del Parlamento.
Nessun commento:
Posta un commento